DESIDERIO, re dei Longobardi
Di probabile origine bresciana, compare in alta posizione, forse con la funzione di comes stabuli, alla corte del re longobardo Astolfo (749-756), da cui ricevette in dono una vasta area edificabile dentro Brescia e la curtis di Cerropicto nel territorio della stessa città. Resta anche memoria di un suo intervento presso il re per una causa giudiziaria toscana. In Toscana fu inviato col titolo di duca da Astolfo e vi si trovava alla morte del re nel 756.
Sebbene l'origine bresciana venga dichiarata esplicitamente solo da fonti tarde, è confermata indirettamente dai vasti patrimoni fondiari posseduti in Brescia sia da D. sia dalla moglie Ansa, nonché dalla fondazione, in quella città, del monastero familiare del Salvatore. È inoltre probabile che il figlio Adelchi fosse stato duca di Brescia prima di essere associato al trono nel 759. Quest'ultima circostanza suggerisce anche che D. giungesse al regno in età matura, essendo suo figlio già adulto.
Alla morte di Astolfo il mondo longobardo fu agitato da una gravissima crisi politica. Il conflitto tra lui ed il papa Stefano II (o III) per il dominio sull'Esarcato e sulla Pentapoli sottratti alla sovranità bizantina, si era concluso con l'umiliazione dei Longobardi a seguito dell'intervento militare del re dei Franchi Pipino in difesa delle rivendicazioni papali. Astolfo era poi morto improvvisamente senza designare un successore. Il fratello Ratchis, che era stato re prima di lui, ma aveva abdicato nel 749 facendosi monaco a Montecassino, lasciato il monastero tornò a Pavia per assumere il potere, suscitando molte perplessità per la sua figura di monaco-re. Contemporaneamente le tradizionali tendenze all'autonomia dei ducati di Spoleto e Benevento ripresero vigore. In entrambi vi furono cambiamenti di governo che portarono alla ripresa della politica di collaborazione col papato già delineata qualche decennio prima e stroncata dai re Liutprando ed Astolfo. Attraverso il papato anzi, i nuovi governanti dei ducati cercarono di ottenere migliori rapporti coi Franchi.
Sembra che D. condividesse sulle prime questi atteggiamenti e puntasse a conquistare il regno col sostegno dell'esercito toscano ma anche col patrocinio del papa ed il consenso dei Franchi. Egli doveva affrontare un'opposizione alla sua persona subito manifestatasi tra la nobiltà dell'Italia settentrionale e fatta propria da Ratchis, che si preparò a combatterlo. È possibile che nel conflitto si esprimessero due linee politiche contrapposte; una, sostenuta dalla nobiltà dell'Italia settentrionale, forse soprattutto friulana, intesa a ristabilire con la forza l'autorità longobarda in Italia; l'altra disposta invece ad accettare il nuovo stato di fatto, caratterizzato dal dominio temporale dei papi e dall'egemonia dei Franchi. D. si sarebbe fatto portatore di questa linea, e a ciò, più che ad una sua ipotetica origine umile, potrebbe riferirsi la notizia del disprezzo manifestato per lui dagli oppositori.
Per ottenere il consenso papale, D. si incontrò in Toscana con gli inviati di Stefano II, si impegnò con giuramento scritto ad eseguire la volontà del pontefice, e soprattutto a cedergli città e territori emiliani e marchigiani che erano entrati a far parte del regno longobardo circa trent'anni prima, quando il re Liutprando li aveva sottratti all'Impero bizantino. In seguito a quest'accordo, Stefano II inviò messi a Ratchis ed a Pipino caldeggiando l'avvento al potere di D., cui promise, al bisogno, l'aiuto di milizie romane. Così nel marzo del 757 Ratchis tornò a Montecassino e D. divenne re dei Longobardi, apparentemente senza incontrar più resistenze, anche se l'abate di Nonantola Anselmo, di nobile famiglia friulana, abbandonò allora il suo monastero e seguì Ratchis a Montecassino.
Il prezzo pagato al papa fu l'immediata cessione dei territori di Faenza, Bagnacavallo, Gavello e di tutto il ducato di Ferrara. Secondo Stefano II, peraltro, le promesse avrebbero riguardato anche Imola, Bologna, Ancona, Numana ed Osimo. Tramite il papa, D. promise ai Franchi fedeltà e rispetto della pace del 756. Egli conseguì dunque il regno in una posizione internazionale subordinata ai Franchi e controllata dal papato, che gli consentì tuttavia di affrontare i drammatici problemi lasciati in eredità da Astolfo senza dover temere una nuova spedizione franca. La morte di Stefano II, avvenuta un mese più tardi, nell'aprile del 757, alleggerì la sua posizione. Il nuovo papa, Paolo I, fratello del precedente, venne eletto in condizioni interne difficili e non godeva del prestigio di Stefano. Inoltre la sottomissione ai Franchi non impedì a D. di conseguire, già nel primo anno di regno, un consistente rafforzamento dell'autorità regia all'interno del mondo longobardo.
Agli inizi del 758 egli attraversò con un esercito la Pentapoli papale e, penetrando nel ducato di Spoleto, catturò il duca Alboino con i suoi ottimati, riportando il ducato sotto il controllo regio cui si era sottratto appena un anno prima.
L'autonomia spoletina, instaurata fin dall'invasione longobarda in Italia, era durata fino al 729, quando il duca Trasmondo aveva dovuto giurare fedeltà al re Liutprando; avendo poi mancato all'impegno, era stato prima costretto a fuggire, e poi (742) era stato deposto dal re. Dopo una serie di duchi di nomina regia, provenienti da altre parti del regno, Astolfo, probabilmente nel 751, aveva annesso il ducato esercitandovi direttamente la sovranità. L'elezione di Alboino, avvenuta subito dopo la sua morte, aveva dunque rappresentato un tentativo di ristabilire l'autonomia tradizionale, in aperto collegamento con i nemici del regno longobardo in Italia: il papato ed i Franchi. L'intervento di D., reprimendo il tentativo, indirettamente colpiva la politica papale. Sembra che anch'egli tenesse per qualche tempo il ducato sotto il suo diretto controllo, ed anche quando, dal 760, vi ricomparvero i duchi, essi esercitarono il potere come delegati del re e non come esponenti degli interessi locali.
Nello stesso anno 758, dalla riconquistata Spoleto D. proseguì per Benevento, dove pure si era affermato, alla morte di Astolfo, un governo autonomistico, filopapale e filofranco, tenuto dal giovane duca Liutprando sotto la tutela di un Giovanni, probabilmente esponente dell'aristocrazia del ducato. L'intervento di D. costrinse entrambi a fuggire ad Otranto; al posto del duca il re impose, nella primavera del 758, il suo fedele Arechi, un nobile la cui collaborazione potrebbe dimostrare che l'iniziale ostilità della nobiltà era almeno in parte cessata.
Arechi entrò anzi a far parte della famiglia reale sposando, forse nel 760, Adelperga, figlia di Desiderio. Personaggio di rilievo nell'ultima fase della storia longobarda, egli si caratterizzò per un fiero sentimento nazionale che espresse dapprima nella lotta contro i domini bizantini nell'Italia meridionale, poi nella tenace resistenza contro i Franchi ed il papato. La sua nomina a duca di Benevento può illuminare sulle profonde aspirazioni politiche dello stesso D., che tuttavia in quegli anni restarono occultate da una condotta prudente ed opportunista.
Un ulteriore rafforzamento di D. all'interno del regno fu ottenuto con la nomina del figlio Adelchi, già duca, a re coreggente, avvenuta probabilmente nell'agosto del 759. L'associazione al trono era stata praticata solo di rado tra i Longobardi: l'ultima volta quando Liutprando al termine della vita era stato costretto ad associarsi il nipote Ildeprando. Istituita fin dall'inizio del regno, la coreggenza di Adelchi sembra invece un chiaro espediente per consolidare la posizione di D., precostituendo la successione all'interno della sua famiglia, e rafforzare nello stesso tempo l'istituzione regia che il raddoppio delle persone rendeva più efficace e presente. Adelchi poté infatti prendere autonome disposizioni sovrane, anche se pare che D. si riservasse l'esclusiva conduzione della politica estera.
Negli anni seguenti egli agì oculatamente nei rapporti col papato, rinunziando ad ogni velleità di recuperare i territori che Astolfo aveva dovuto cedere, ma limitando al massimo ulteriori cessioni; tentando, quando ne aveva l'occasione, di intimidire e logorare i papi, senza mai giungere ad uno scontro aperto. L'obiettivo ultimo era evidentemente ristabilire col tempo e senza pericolose forzature l'autorità longobarda in Italia. Nel 758 era entrato in rapporto con un emissario bizantino, il protoasecretis Giorgio, inviato in Occidente a stabilire intese coi Franchi per un'eventuale restaurazione del dominio imperiale in Italia. D. gli offrì segretamente l'aiuto dei Longobardi per sottrarre al papato l'Esarcato e la Pentapoli e riportarvi la sovranità bizantina, avvertita meno pericolosa di quella papale anche perché avrebbe tolto ogni motivazione agli interventi franchi. Un incontro, forse il secondo, avvenne a Napoli, dopo la spedizione beneventana, e D. aggiunse l'offerta di Otranto se la flotta bizantina lo avesse aiutato a catturare il duca beneventano Liutprando che vi si era rifugiato. Ma l'intesa o fallì subito, o non sembrò abbastanza sicura a D., che di ritorno da Napoli si fermò a Roma per trattare con Paolo I una revisione dei patti stipulati col predecessore.
Egli intendeva mantenere Bologna e le città di Ancona, Osimo e Numana nella parte meridionale della Pentapoli, a ridosso del ducato di Spoleto. Offriva al papa la promessa di buoni rapporti e la città di Imola se questi avesse sollecitato da Pipino la restituzione di alcuni ostaggi longobardi trattenuti dai Franchi. In quell'occasione il papa manifestò ancora vivissima ostilità per D., giacché consentì a scrivere a Pipino nei termini da lui voluti, ma contemporaneamente mandò una lettera segreta in cui scongiurava il re dei Franchi di ostacolare in ogni modo i suoi piani.
Tuttavia lentamente i rapporti migliorarono, anche per l'avveduto comportamento di D. e per il mutato atteggiamento di Pipino. Abbandonato il progetto di alleanza con l'Impero bizantino, D. si offrì al papato come protettore contro eventuali azioni di forza degli stessi Bizantini, temute soprattutto nell'Esarcato. Forse intorno al 760 effettuò una spedizione contro il ducato di Venezia, rimasto nell'orbita imperiale, catturando il figlio del doge Mauricione. Agli inizi del 760 si impegnava dinanzi ad inviati del re franco a restituire territori che deteneva nei confini delle civitates papali, ottenendo peraltro la gradualità delle restituzioni. Si accordava inoltre col papa per andare insieme a Ravenna a regolare questioni locali e prender misure contro un possibile attacco dei Greci.
Pipino stesso, riluttante ad intervenire nuovamente in Italia, assorbito dalla resistenza degli Aquitani al dominio franco, lo indicava al papa come alleato e protettore. Paolo I fu costretto a dichiararsi disponibile all'intesa, pur mantenendo recriminazioni e riserve. Nel 763 D. arrischiò perfino un intervento politico nell'area transalpina dominata dai Franchi senza soffrire conseguenze. Il duca di Baviera Tassilone, che era stato in precedenza costretto a giurare fedeltà a Pipino e porsi in un rapporto di subordinazione simile a quello di D., durante una spedizione contro gli Aquitani abbandonò improvvisamente l'esercito franco, sottraendosi ai suoi obblighi vassallatici. D. lo protesse, rinnovando un'alleanza tra Bavari e Longobardi che aveva origini antiche e che egli consolidò facendo sposare a Tassilone un'altra sua figlia, Liutperga.
Negli anni seguenti D. poté sfruttare anche la crescente diffidenza nata fra Paolo I e Pipino. Il papa era ormai persuaso che dai Franchi non gli sarebbe più venuto nessun aiuto concreto; sapeva anche che la diplomazia bizantina si adoperava per screditarlo presso Pipino, sostenendo che egli dava orecchio ai nemici dei Franchi e che era completamente succube del primicerio Cristoforo, il potentissimo capo della burocrazia pontificia che aveva avuto un ruolo di primo piano nella creazione del dominio temporale del papato fin dal tempo di Stefano II. Fra 764 e 765 D. riuscì a trasformare il contenzioso territoriale col papato da puro e semplice obbligo di consegnare interi distretti a regolamento bilaterale di interessi patrimoniali nella Pentapoli.
Sembra che occasionalmente tentasse anche di forzare la mano al papa con scorrerie sulle frontiere: all'inizio del 765 il papa lo accusava di essersi impadronito di Senigallia, estendendo il caposaldo longobardo in Pentapoli; ma D. si giustificava presso Pipino e la questione restava senza conseguenze, anche perché nello stesso periodo egli si recava a Roma col pretesto di pregare sulla tomba degli apostoli, e dopo aver compiuto il gesto amichevole di riconsegnare un romano fuggito tra i Longobardi, concordava col papa un nuovo, ampio regolamento dei reciproci interessi patrimoniali nel regno: messi comuni si recarono nel Beneventano, in Toscana e nello Spoletino, risolvendo le situazioni controverse. In quello stesso periodo, su richiesta di Pipino, intervenne - probabilmente tramite Arechi - a difesa degli interessi papali contro Gaetani e Napoletani, sudditi dell'Impero bizantino. Probabilmente grazie al suo intervento, il vescovo eletto di Napoli poté recarsi a Roma e ricevere dal papa la consacrazione che per due anni gli era stata impedita dalla fazione filobizantina di Napoli.
Sebbene dunque D. restasse subordinato a Pipino, il papa, soddisfatto per i vantaggi che gli accordi patrimoniali recavano alla Sede apostolica, preoccupato per la possibilità che Pipino finisse per dar credito ai Greci in materia di ortodossia e di affari romani, non sollevò ulteriori rimostranze per le terre della Pentapoli, e perfino quando D. trattenne a Pavia un suo messo destinato a rappacificare Tassilone di Baviera con Pipino, si limitò a segnalare l'incidente, senza chiedere interventi.
Le agitazioni che accompagnarono a Roma la morte di Paolo I (28 giugno 767) consentirono a D. di tentare addirittura di influenzare la scelta del nuovo papa senza suscitare la reazione dei Franchi.
Più volte, nel VII e nell'VIII secolo, l'elezione del papa era stata accompagnata da scontri di gruppi rivali; ma quando Paolo I si ammalò e la sua fine parve prossima, avvenne un fatto nuovo e grave: il duca di Nepi Totone, alla testa di un esercito raccolto nelle città del Lazio settentrionale, entrò in Roma per condizionare l'elezione del successore; visti inutili i tentativi d'accordo, fece eleggere papa suo fratello Costantino, nonostante fosse laico. Nei giorni seguenti ottenne con le minacce che alcuni vescovi gli conferissero gli ordini sacri e infine lo consacrassero. Imposto da una fazione dell'aristocrazia laica, Costantino II si mantenne al pontificato per più di un anno. La sua affermazione era avvenuta a scapito del partito capeggiato dal primicerio Cristoforo e da suo figlio Sergio, allora sacellario papale. Intransigenti oppositori del nuovo assetto di potere in Roma, essi ottennero dal papa di lasciare la città per farsi monaci nel monastero del Salvatore di Rieti. Ma una volta in territorio longobardo, chiesero al duca di Spoleto, Teodicio, di esser condotti da D., cui chiesero aiuto.
D. si vide dunque invitato ad intervenire in Roma dai capi del partito più intransigente nella difesa del dominio temporale del papato e più tenacemente ostile ai Longobardi. Ma se egli pensò di aver l'occasione per regolare in modo vantaggioso i rapporti tra il regno ed il papato, probabilmente Cristoforo non intendeva riconoscergli altro che quel ruolo di difesa a cui più volte era stato delegato da Pipino nei confronti di un papato della cui essenza Cristoforo stesso si sentiva depositario. D. rimandò i due a Rieti disponendo che gli Spoletini li aiutassero a rientrare in Roma.
Accompagnato da un prete longobardo di nome Waldiperto, che probabilmente agiva su incarico del re, e sostenuto da contingenti armati longobardi, Sergio poté entrare in Roma la sera del 29 luglio 768 trovandovi complicità e adesioni. Uno scontro con Totone terminò favorevolmente: Totone fu assassinato dagli stessi nobili romani che stavano al suo fianco e che già predisponevano il ritorno di Cristoforo. Sergio e Waldiperto con i Longobardi presero possesso di Roma mentre Costantino cercava rifugio nell'oratorio di S. Cesareo in Laterano, dove peraltro venne catturato dagli stessi romani. Il giorno dopo Waldiperto organizzò l'elezione di un nuovo papa, scegliendo lui stesso un prete di nome Filippo del monastero di S. Vito. Ma quando questi era stato già intronizzato in Laterano, giunse nelle vicinanze di Roma il primicerio Cristoforo che, informato dello svolgimento dei fatti, rifiutò di entrare in città finché Filippo fosse rimasto nel patriarchio. Immediatamente alcuni nobili romani lo costrinsero a tornare nel suo monastero. L'indomani, 1º agosto, Cristoforo fece eleggere papa Stefano III (IV), che pochi giorni dopo fu consacrato. Il rancore dei partiti si manifestò in supplizi, esecuzioni sommarie e spedizioni punitive contro tutti coloro che avevano appoggiato Costantino; lo stesso Waldiperto, accusato di aver tramato per uccidere Cristoforo e consegnare la città ai Longobardi, venne mutilato e fatto morire in prigione.
Il tentativo di creare a Roma un papa favorevole ai Longobardi fallì dunque per la tenuta del partito temporalista capeggiato da Cristoforo, che ebbe la meglio nel confronto ingaggiato con Desiderio. Tuttavia l'autorità papale sugli stessi territori del Patrimonio di S. Pietro era indebolita e la possibilità di una politica aggressiva nei confronti dei Longobardi fu definitivamente compromessa dalla morte di Pipino, avvenuta il 24 settembre dello stesso 768. Egli aveva diviso il regno tra i suoi due figli: Carlo, allora ventiseienne, e il più giovane Carlomanno, appena diciassettenne, tra i quali non c'era alcuna intesa, mentre la guerra contro gli Aquitani seguitava ad impegnare le risorse militari franche.
Appena un anno più tardi, una crisi scoppiata a Ravenna dava occasione a D. di intervenire nuovamente in questioni interne dei territori di S. Pietro. Il governo papale istaurato dopo la vittoria di Pipino su Astolfo, non era gradito ai Ravennati, che vantavano una lunga tradizione di capitale dei territori bizantini in Italia, ed anche sotto il profilo ecclesiastico si erano assicurati da più di un secolo l'autocefalia della loro Chiesa. Morto l'arcivescovo Sergio, che di tali tendenze era stato esponente, i partiti cittadini si divisero sulla scelta del successore e la nobiltà militare, guidata dal duca di Rimini Maurizio, impose come arcivescovo lo scriniario Michele, funzionario dell'amministrazione arcivescovile, ma laico. A detta delle fonti papali, l'elezione fu appoggiata da Desiderio. Il papa Stefano III, che aveva appena celebrato un processo canonico contro il suo predecessore Costantino II, accusato proprio di aver conseguito il papato da laico, non consentì al fatto compiuto. Dopo lunghe schermaglie, in cui forse emerse più scopertamente l'ingerenza di D., il papa, profittando della presenza di inviati del re franco Carlo, impose ai Ravennati di deporre Michele, che fu catturato e spedito a Roma, mentre arcivescovo di Ravenna diveniva l'arcidiacono Leone.
Ma neanche quest'insuccesso ebbe conseguenze dannose per D., la cui politica nei confronti del papato non mirava a riconquiste territoriali, ma piuttosto a creare preoccupazione ed insicurezza, soprattutto nell'Esarcato. Importanza assai maggiore ebbe invece il rafforzamento della sua posizione nei confronti dei Franchi. D. poté giovarsi abilmente delle preoccupazioni per il destino del regno franco nutrite dalla vedova di Pipino, Bertrada, che a garanzia della sovranità dei figli cercò di ottenere l'amicizia e l'aiuto di quei sovrani che già erano stati subordinati a Pipino: Tassilone di Baviera e lo stesso Desiderio.
Le ragioni e le prospettive di questa scelta sfuggono, così come è incerto se Bertrada intendesse tutelare entrambi i figli o predisporre l'affermazione di Carlo a danno di Carlomanno. Comunque nell'estate del 770 ella compì una missione diplomatica in Baviera e in Italia, ove concluse un'alleanza matrimoniale con la famiglia di D., il cui figlio Adelchi avrebbe dovuto sposare la figlia di Pipino Gisella, mentre Carlo avrebbe sposato una figlia di D., il cui nome è ignoto (arbitrariamente infatti il Manzoni le attribuì quello di Ermengarda; una fonte carolingia posteriore di alcuni decenni alle vicende ha trasmesso invece il nome di Desiderata, che però contrasta con i nomi germanici delle altre tre figlie di Desiderio).
Solo quest'ultimo matrimonio fu effettivamente concluso. Grazie ad esso, D. passò dalla posizione di subordinato a quella di protettore del re dei Franchi, nei confronti del quale anche il rapporto di parentela gli conferiva una certa superiorità. La sensazione di un ristabilimento delle fortune longobarde è espressa da una formula che figura nei diplomi regi a partire dal 767, secondo la quale le donazioni pie del sovrano erano fatte "per amore del Redentore e per la stabilitas della gente longobarda".
È ignoto però con quali intenzioni Carlo, che era già sposato e dovette ripudiare la moglie per prender la figlia di D., acconsentisse al matrimonio: se cioè prevedesse realmente di dare un nuovo corso alla politica italiana del regno franco, o lo considerasse come un espediente per avere la meglio sul fratello. Il papa Stefano III si oppose al progetto. Egli già aveva salutato l'avvento dei due re franchi con una lettera in cui li impegnava, sotto la minaccia del giudizio divino, ad esigere dai Longobardi le "giustizie" di S. Pietro, affidando ai suoi messi l'incarico di esporre verbalmente quali esse fossero ed esortando i re a non prestar fede a chi avesse detto che egli aveva già ricevuto quanto gli era stato promesso. Informato poi delle trattative matrimoniali in corso, il papa inviò ai due re un'altra lettera, in cui, attribuendo a D. l'iniziativa del matrimonio, li invitava a non contaminare la razza franca con quella dei Longobardi.
Per vincere la resistenza del papa, Bertrada si recò a Roma e promise ampie cessioni territoriali nel Beneventano, che furono eseguite con l'intervento di messi franchi. Tuttavia i rapporti interni in Roma andavano mutando, ed è dubbio se tra Stefano III e Cristoforo e Sergio ci fosse ancora accordo. Le stesse lettere ai re franchi potrebbero rispecchiare posizioni oltranziste che il papa ormai non condivideva. Si andava consolidando un gruppo di funzionari e nobili ostili al primicerio e a suo figlio; tra essi aveva rilievo il cubicolario papale Paolo Afiarta e lo stesso fratello del papa, il duca Giovanni. Sembra d'altra parte che dopo il matrimonio di Carlo con la figlia di D., Cristoforo e Sergio restringessero i legami con Carlomanno, invitando in Roma un suo messo con un presidio armato di franchi, rendendosi in tal modo sospetti all'altro re. Così fu possibile per D. intervenire ancora in Roma, questa volta con successo.
Probabilmente d'accordo con i nemici del primicerio, nella quaresima del 771 D. si recò a Roma alla testa di un esercito. Cristoforo e Sergio raccolsero truppe e sbarrarono le porte della città; ma quando il re giunse presso S. Pietro, che era allora fuori dalle mura urbane, il papa gli andò incontro ed ebbe un colloquio con lui. Intanto Paolo Afiarta con i suoi amici istigava la popolazione romana contro Cristoforo e Sergio. Questi tentarono di catturare il papa rientrato in Laterano, ma ottennero solo di farlo fuggire in S. Pietro, dove si incontrò nuovamente con D. per organizzare, ormai apertamente, la loro cattura. Invitati a presentarsi al cospetto del papa in S. Pietro, i due tentarono un appello all'orgoglio municipale dei Romani, che però, persuasi da Paolo Afiarta, rifiutarono di sostenerli. Non poterono far altro che rimettersi alla misericordia papale, presentandosi in S. Pietro, dove non furono catturati né condannati, ma lasciati soli per la notte, forse anche con l'intenzione di consentir loro la fuga. Furono invece catturati da una banda di romani cui si unirono molti longobardi, ed accecati. Cristoforo morì tre giorni dopo il supplizio; Sergio qualche mese più tardi, assassinato proditoriamente. Paolo Afiarta e i suoi sostenitori imposero il loro predominio in Roma, perseguitando gli avversari.
Il papa scrisse immediatamente a Carlo e Bertrada, accusando dell'accaduto i "nefandissimi" Cristoforo e Sergio ed il messo di Carlomanno Dodone, che avrebbe prestato loro man forte nel tentativo di assassinarlo. Dichiarava di dover la salvezza alla presenza presso Roma di D., qualificato ora "re eccellentissimo" e "figliolo del papa", e affermava di esser certo che lo stesso Carlomanno avrebbe condannato l'operato del suo messo. In quel momento le fortune politiche di D. e la restaurazione del regno longobardo toccavano il punto culminante; forse imbaldanzito per il successo, egli smise per la prima volta il prudente atteggiamento sempre tenuto verso il papato, rifiutando sprezzantemente di dar corso ad alcune cessioni territoriali che sembra facessero parte degli accordi stipulati in S. Pietro con Stefano III.
Pochissimo si sa della politica interna di D. dopo il 758. La società longobarda evolveva, nella seconda metà dell'VIII secolo, verso forme complesse, caratterizzate dalla stratificazione sociale, dalla ripresa della vita cittadina, dalla diffusione della grande proprietà fondiaria e del commercio. D. intervenne nella vita economica, modificando la tipologia della moneta aurea ("tremisse") in uso nel regno. Dopo alcune emissioni che proseguivano tipi già usati da Astolfo, egli ne impose in tutto il regno uno che probabilmente aveva conosciuto in Toscana, dov'era diffuso dagli inizi del secolo. Vi figurava nel diritto una stella a sei punte circondata dal nome della città dov'era la Zecca, tipo preceduto dall'appellativo di "Flavia"; nel rovescio una croce con il nome del re. La relativa autonomia di coniazione, propria delle città toscane, venne estesa da D. alle città dell'Italia settentrionale, dove si ha notizia di almeno nove Zecche (Ivrea, Vercelli, Pombia, Novate, Seprio, Pavia, Piacenza, Vicenza, Treviso). La monetazione rimaneva però prerogativa regia; come testimonia l'appellativo "Flavia" delle Zecche e la loro riconosciuta natura pubblica. Talune affinità di esecuzione hanno fatto anzi ipotizzare che le Zecche periferiche ricevessero i coni dall'amministrazione centrale.
È difficile interpretare il significato dell'innovazione di D.: essa può esser messa in rapporto con un maggior bisogno di denaro determinato da una più ampia e fluida circolazione commerciale. È stato però notato che la produzione di moneta sembra esser stata complessivamente scarsa; che essa non si attenne a valori stabili, poiché peso e titolo variarono anche all'interno di una stessa emissione. L'impossibilità di ricostruire la cronologia delle emissioni rende inoltre ipotetica ogni spiegazione di queste variazioni.
Un altro aspetto della politica interna di D. su cui si è meglio informati è quello del rapporto con il monastero del S. Salvatore di Brescia. Esso fu probabilmente fondato dalla regina Ansa, ma nella maggior parte dei documenti la sua fondazione è attribuita anche a D. e perfino ad Adelchi. Il fatto che originariamente fosse dedicato ai ss. Michele e Pietro e solo dal 760 compaia con la dedicazione al Salvatore, può suggerire una rifondazione del primo monastero di Ansa, nella quale D. avesse parte preminente. Badessa vi figura, fin dalla più antica testimonianza del 759, un'altra figlia del re, Ansilperga.
Al monastero del Salvatore D., Ansa ed Adelchi fecero enormi donazioni di beni fondiari, che compresero le proprietà della famiglia di Ansa nel Bresciano e quelle che D. vi aveva ricevuto da Astolfo. Furono concessi anche beni appartenenti alla corte ducale di Brescia e beni spettanti al Fisco regio, sino a formare un complesso patrimoniale che giungeva fino in Emilia, in Tuscia, a Spoleto ed a Benevento. D. pose il monastero sotto la tutela dell'amministrazione regia ed ottenne dal papa Paolo I l'esenzione dall'ordinario diocesano.
Queste liberalità si spiegano con esigenze che sono caratteristiche del regno di Desiderio. Il monastero assicurava la gestione dei beni familiari e ne consentiva l'ampliamento sotto il pretesto devozionale; esso fungeva così da serbatoio di risorse economiche ad immediata disposizione dei re. Ma l'evidente importanza che essi gli attribuirono rinvia probabilmente ad un incerto fondamento istituzionale dell'autorità regia, che doveva essere irrobustita dalle risorse familiari. L'importanza della famiglia nella politica di D. è d'altra parte confermata dalle molte alleanze matrimoniali che egli strinse e dalla stessa associazione di Adelchi al potere.
Alla fine del 771 la congiuntura politica internazionale cessò di essere favorevole a D.: il 4 dicembre di quell'anno morì Carlomanno e il 3 febbr. 772 il papa Stefano III. In Francia Carlo si impadronì subito del regno del fratello e sentendosi ormai sicuro del potere, ripudiò la figlia di D., riaprendo di fatto il conflitto coi Longobardi, aggravato dall'offesa personale fatta al re. A Roma al debole Stefano III successe Adriano I, di nobile famiglia, sostenuto da un gruppo che gli consentì di avviare subito un'energica politica di ricucitura delle fazioni interne e di riaffermazione della autorità papale in Italia. Ai messi prontamente inviatigli da D. per stabilire intese, rispose dichiarandosi disposto a rapporti amichevoli che però non escludessero i Franchi, ed inoltre rimproverandogli la malafede con cui aveva rifiutato di dar corso alle cessioni promesse a Stefano III. Il papa non rifiutò peraltro di entrare in trattative ed inviò a Pavia un'ambasciata della quale faceva parte lo stesso Paolo Afiarta. Ma D. nel frattempo doveva aver constatato che erano venute meno tutte insieme le circostanze che gli avevano consentito di uscire dalla condizione di re in sottordine. Il desiderio di vendetta doveva inoltre sommarsi all'esigenza di ripristinare tempestivamente la minacciata "stabilità" del regno. Proprio in quei frangenti, l'invocazione per la stabilitas nei diplomi regi, venne sostituita da una, ben più drammatica, per la salvatio della gente longobarda, a testimonianza di come il re fosse consapevole dei rischi che correva.
Per neutralizzare Carlo, D. colse l'opportunità di ergersi a difensore dei diritti violati dei figli di Carlomanno che gli era offerta dalla vedova di questo, Gerberga, rifugiatasi presso di lui con i figlioletti. Ma perché la minaccia fosse consistente, D. doveva ottenere dal papa la consacrazione dei due principi, che li avrebbe resi veri concorrenti di Carlo, già unto re dal papa Stefano II. Abbandonando perciò la politica di prudenza, D. cercò di forzare i tempi. Mentr'erano ancora in corso le trattative col papa, improvvisamente invase l'Esarcato, impadronendosi di Faenza, Comacchio e del ducato di Ferrara e devastando il territorio di Ravenna. Ad una nuova ambasciata inviatagli dal papa rispose che avrebbe trattenuto le città finché non si fosse incontrato con lui. Ma Adriano, temendo di essere costretto con la forza a consacrare i figli di Carlomanno, subordinò l'incontro all'integrale restituzione delle terre di S. Pietro. Profittando del fatto che Carlo era in quel tempo impegnato in Sassonia, D. cercò di piegare il papa estendendo le devastazioni e le occupazioni nella Pentapoli; contemporaneamente spedì l'esercito toscano a saccheggiare i territori settentrionali del ducato romano. Rifiutò nuovamente una offerta solenne di colloquio in una località a sua scelta fattagli da Adriano a condizione che restituisse i territori invasi e pretese invece un immediato incontro, in mancanza del quale minacciò di assediare Roma.
Adriano I tornò allora alla tradizionale politica del papato; dopo aver preparato Roma a sostenere l'assedio, inviò a Carlo una richiesta di aiuto militare portata da un'ambasceria che eluse il blocco posto dai Longobardi sulle strade, viaggiando per mare. D. intanto, constatata la tenace resistenza del papa, mosse egli stesso verso Roma, col figlio Adelchi, i figli di Carlomanno ed un esercito. Adriano I, guarnita la città con truppe del dominio di S. Pietro, gli spedì un'ambasceria di tre vescovi, minacciandogli la scomunica se fosse entrato nel territorio romano. Così D. si fermò a Viterbo e successivamente si ritirò desistendo dal tentativo di ottenere la consacrazione dei principi franchi.
Forse più ancora degli scrupoli religiosi dovette indurvelo la consapevolezza di un prossimo intervento di Carlo. Non potendo più far leva sul fatto compiuto, dovette giudicare opportuno preparare le difese. Inoltre la situazione interna del regno si deteriorava: nel novembre del 772 si ha notizia che alcuni nobili erano fuggiti alla corte franca. D. cercò di prender tempo inviando, agli inizi del 773, un'ambasciata a Carlo per assicurargli di aver già restituito al papa le città contese; ma Carlo mandò i suoi messi a Roma a verificare se le restituzioni erano realmente avvenute. Constatato il contrario, i messi si recarono a Pavia insieme con gli ambasciatori papali per esigere la restituzione. Questa volta D. oppose un aperto rifiuto, replicato ad una seconda ambasciata inviatagli da Carlo con l'offerta di un risarcimento di 14.000soldi aurei per le restituzioni. D. sceglieva così la via dello scontro coi Franchi, ed è difficile congetturare se lo facesse con qualche prospettiva politica di successo, o solo per dar corso a sentimenti di vendetta esacerbati dal rischio di tornare all'originaria, umiliante posizione.
Fu Carlo a prendere l'iniziativa militare: nel marzo del 773 riunì l'esercito a Ginevra; successivamente mosse verso l'Italia dal valico del Moncenisio, inviando un secondo esercito attraverso il Gran San Bernardo. D. si era recato a sbarrargli il passo alle chiuse di San Michele in Val di Susa, frettolosamente fortificate. Ma intanto si diffondevano tra i Longobardi paura e tradimento. Molti nobili spoletini e reatini fuggivano a Roma e si sottomettevano al papa, accettando di tagliarsi i capelli all'uso romano, rinunziando ad una delle connotazioni esteriori della stirpe. Secondo una tradizione posteriore, anche nel Nord vi sarebbero stati nobili che tradirono il re, stabilendo contatti segreti con Carlo. Comunque, quando questi si avvicinò alla chiuse, non vi fu scontro. I Longobardi fuggirono. D. con Ansa riparò in Pavia, dove alla fine di settembre vennero assediati. Adelchi con la vedova e i figli di Carlomanno fuggì a Verona per poi uscire dal regno e trovare ospitalità a Bisanzio.
Contrariamente a quanto aveva fatto Pipino, Carlo non prese in considerazione una soluzione moderata del conflitto. Invece di trattare, tenne assediato D., ricevendo nel frattempo la sottomissione di città e nobili longobardi, mentre il papa riceveva quella degli abitanti del ducato di Spoleto e dei territori della Pentapoli rimasti fino allora sotto la sovranità longobarda: Fermo, Osimo, Ancona. Agli inizi del giugno 774 D. fu costretto ad arrendersi e, fatto prigioniero da Carlo, fu spedito insieme con la moglie in Francia ed internato in un monastero, probabilmente Corbie in Piccardia, dove terminò i suoi giorni in una data imprecisabile. Nello stesso giugno del 774 Carlo assunse il titolo di re dei Longobardi ponendo fine al regno indipendente.
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