CUNIPERTO (Cuningpert, Cunicpert, Cuninopert), re dei Longobardi
Figlio del cattolico re dei Longobardi Perctarit (Pertarito, Bertarito) del ramo bavaro della stirpe lithinga, e di Rodelinda, nacque dopo la metà dei secolo VII. La sua infanzia venne profondamente segnata dalle crisi interne che, dopo la morte di Ariperto I (660 circa), travagliarono il regno durante il primo governo del padre e gli anni iniziali di quello di Grimoaldo I. Era ancora fanciullo, infatti, quando il padre dovette abbandonare precipitosamente Milano, dove aveva stabilito la sua capitale, di fronte all'incalzare degli eserciti raccoltisi sotto le insegne del duca di Benevento - Grimoaldo I, appunto - inseritosi d'autorità nel conflitto politicoreligioso, che aveva contrapposto l'uno all'altro i due figli di Ariperto I, Peretarit e Godeperto. Dopo la tragica morte di quest'ultimo, mentre il padre cercava scampo rifugiandosi dapprima presso gli Avari, tradizionali amici della stirpe bavara, e in un secondo tempo, rifiutando le proposte di accordo avanzate dall'avversario, presso i Franchi, cui lo univa la comune fede cattolica, il piccolo C. era caduto, con la madre ed i familiari, nelle mani di Grimoaldo, che lo inviò a Benevento (661, seconda metà). Presso quella corte ducale visse per una diecina di anni - come ostaggio o come esule non possiamo dire, dato il silenzio delle fonti, - certo onorevolmente trattato, sotto le cure della madre e del giovane figlio del vincitore, il duca Romualdo I. Da li assistette al trionfo di Grimoaldo I, riconosciuto solennemente re dall'assemblea degli armati riunitasi con ogni probabilità a Pavia; da li vide il matrimonio della zia, sorella di Perctarit, coi nuovo sovrano, le belle vittorie da questo riportate in Piemonte sui Franchi alleati del padre, e sui Bizantini, ai confini orientali del regno e nella stessa Italia meridionale - dove fu disfatto l'imperatore Costante II -, il moto insurrezionale di Lupo del Friuli, e la sua sanguinosa repressione. Scomparso Grimoaldo I nel 671 e restaurato sul trono di Pavia, tre mesi dopo, Perctarit, C. poté finalmente lasciare Benevento insieme con la madre e ricongiungersi al padre. Nel 680, non sappiamo con quali formalità, venne associato al trono da Perctarit.
Paolo Diacono, che è pressoché l'unica fonte per tutti questi avvenimenti, riferisce che Perctarit, nel suo ottavo anno di regno, si associò il figlio. La notizia trova conferma nei documenti coevi. La formula di datazione cronologica di una carta del 20genn. 685, segnando il tredicesimo anno di Perctarit e il quinto di C., prova infatti che quest'ultimo era già stato associato al trono nella seconda decade di gennaio del 680, giusta l'affermazione del Diacono. Lo storico dei Longobardi, tuttavia, afferma anche che Perctarit, dopo aver creato C. proprio collega, avrebbe regnato accanto a lui per altri dieci anni, e cioè sino al 690. Tale indicazione non deve essere presa alla lettera, perché da un documento del 9 nov. 688 risulta che a quella data Perctarit era già morto (Cod. dipl. long., III, n. 7).
Nel periodo di tempo in cui C. regnò accanto al padre fu raggiunto un accordo con l'Impero, che per la prima volta riconobbe il dominio longobardo in Italia, e si avviarono trattative in vista della composizione dello scisma originato dal rifiuto di accettare la condanna dei cosiddetti "Tre Capitoli" pronunziata nel 553 dal V concilio ecumenico (II di Costantinopoli), scisma che da oltre un secolo divideva le Chiese dell'Italia settentrionale e che aveva portato alla separazione da Roma del patriarcato di Aquileia. I negoziati proseguirono speditamente, anche per la buona volontà dimostrata dai sovrani longobardi, sino ai primi anni in cui C. governò da solo, quando portarono al sinodo romano del 680 ed al VI concilio ecumenico, celebratosi a Costantinopoli nel 680-81. L'equilibrio interno e la pace, sia religiosa sia civile, maturatisi nel corso dell'ottavo decennio del sec. VII sotto Perctarit e C., furono tuttavia improvvisamente sconvolti dalle vicende che opposero, nell'alta valle dell'Adige, il duca longobardo di Trento, Alachi, al conte (gravius) bavaro di Bolzano. Mobilitati i suoi guerrieri, Alachi marciò contro il nemico e lo sconfisse pienamente in battaglia campale: la vittoria lo rese padrone della valle e dei passi alpini. "Qua de causa elatus, etiam contra regem suum Perctarit manum levavit atque se intra Tridentum castellum rebellans communivit", afferma Paolo Diacono. Perctarit tentò di reprimere il moto, che stava guadagnando un numero sempre maggiore di aderenti fra i Longobardi: risalita con un corpo d'esercito la valle dell'Adige sino a Trento, pose l'assedio alla citta, ma fu decisamente affrontato da Alachi. che gli inflisse una disastrosa disfatta e lo costrinse alla fuga. Il re si acconciò a trattare: per intervento di C., il quale secondo quanto afferma Paolo Diacono - "eum iam olim diligebat", Alachi fu graziato ed ebbe anche garanzie contro eventuali rappresaglie. Su pressioni di C. - il quale, asserisce sempre Paolo' Diacono, si oppose più volte al padre, che voleva farlo uccidere - fu inoltre conferito ad Alachi l'importante ducato di Brescia, "reclamante saepius pater, quod in suam hoc Cunincpert perniciem faceret, quod hosti suo ad regnandum vires praeberet". La previsione del vecchio re non doveva rivelarsi sbagliata.
Ignoriamo i termini cronologici del moto capeggiato da Alachi, forse da mettere in rapporto, come pensa il Bognetti (Milano longobarda, pp. 220 s.), o con l'attacco arabo del 673 contro Costantinopoli o con l'associazione al trono di C., fatto che ledeva i tradizionali diritti dell'assemblea dei guerrieri dei popolo longobardo, ai quali soli spettava di eleggere il re. È certo, tuttavia, che esso era sorto essenzialmente come reazione esasperata e violenta alla politica religiosa avviata con fermezza e coerenza di idee fin dagli inizi del suo secondo regno da Perctarit, allineatosi sulle stesse posizioni, che erano state dei suo avo Ariperto I, di intransigente fedeltà alla professione di fede cattolica, di intenso proselitismo e di repressione nei confronti delle minoranze religiose - ebree, ariane, pagane - presenti nel suo stesso popolo o nei territori di dominio longobardo. Lo provano, da un lato, le espressioni usate da Paolo Diacono - che definisce "filius iniquitatis" il duca di Trento - e, dall'altro, l'indiscutibile insofferenza (per non dire odio) dimostrata in ogni occasione da Alachi nei confronti di quanti e di quanto avessero a che fare con il clero e la Chiesa cattolica. Grande dovette essere l'entusiasmo suscitato dall'azione promossa da Alachi, e largo il sostegno dato a quest'ultimo dai Longobardi. Paolo Diacono afferma infatti che per causa sua "in regno Langobardorum, perturbata pace, maximae populorum factae sunt strages", ammettendo implicitamente che l'opposizione interna aveva opposto una resistenza decisa e violenta. Riferisce inoltre che Perctarit si era acconciato ad intervenire con il suo esercito - della cui fedeltà o della cui forza aveva evidentemente ragioni di dubitare - solo dopo che il "gravius" bavaro di Bolzano era stato disfatto in battaglia campale, ed Alachi aveva esteso la sua autorità anche sulle regioni a settentrione di Trento. Questo modo di procedere ha una sua intima motivazione. Il re, così come pensa il Bognetti, aveva cercato di schiacciare l'antagonista, di cui conosceva bene la forza, ricorrendo ad un aiuto esterno, quello dei Bavari, appunto, ai quali lo legavano vincoli di sangue e di antica amicizia. Non era cosa nuova. Altri sovrani longobardi prima di lui lo avevano fatto., Per togliere di mezzo Gisulfo II del Friuli, nel 610 Agilulfo si era servito degli Avari; ed ancora a questi si era rivolto nel 663-64 Grimoaldo I per liquidare un altro ribelle duca del Friuli, Lupone. Battuto sotto Trento, Perctarit era stato costretto a concedere ad Alachi, insieme col perdono, anche il ducato di Brescia, assai forte per il numero di guerrieri che poteva mettere in campo, annota Paolo Diacono. Quest'ultimo racconta che il compromesso col ribelle era stato proposto e caldeggiato da C., amico d'infanzia di Alachi; ed aggiunge che in seguito Perctarit non aveva mancato di rimproverarsi fin troppo di frequente - "saepius" -, di aver ceduto, profetizzando al figlio che gravi sciagure ne sarebbero sortite. Al di là dell'aneddotica, tuttavia, emerge chiaramente dalla sequenza dei fatti che Alachi si trovava in una posizione di forza e che i due sovrani non avevano potuto comportarsi diversamente. Gli avvenimenti successivi dimostrano, d'altro canto, che Perctarit e C., ben consci della loro debolezza, cercarono altrove gli appoggi necessari per rovesciare la situazione in loro vantaggio. La premura e l'impegno con cui questi sovrani - Perctarit, la sua consorte Rodelinda, e lo stesso C. - promossero l'edilizia religiosa e quella monumentale profana in Pavia e fuori di Pavia, non solo testimoniano la volontà di dare all'istituto monar chico un prestigio sacrale e civile, ma esprimono anche una precisa volontà politica di riavvicinamento alla Chiesa di Roma e all'Impero. Riflettono, cioè, l'indirizzo che sfociò, sul piano politico, nel formale trattato di pace, coi quale Bisanzio riconobbe le conquiste longobarde in Italia; e che portò, sul piano religioso, al. sinodo di Pavia che sancì la fine dello scisma aquileiese ed il trionfo dell'ortodossia cattolica nel Regno longobardo.
C., dopo la morte del padre, avvenuta prima del 9 nov. 688, rimase unico sovrano a regnare sui Longobardi. Non sembra che l'inizio di questa nuova fase del suo governo sia stato segnato da particolari cerimonie o celebrazioni (di opinione diversa lo Schneider, p. 47). Ben presto C. dovette fronteggiare una nuova crisi. Alachi insorse contro di lui e, approfittando - a quanto pare - di una assenza del sovrano dalla capitale, occupò con , le sue truppe Pavia, dove si fece riconoscere re. Non abbiamo notizia di resistenze opposte al moto insurrezionale. C. si ritirò nell'isola Comacina, che era fortificata. Il governo dell'usurpatore, spietato soprattutto nei confronti del clero cattolico, finì col suscitare anche il malcontento di larghi strati della popolazione, aprendo così a C. la via del ritorno sul trono. Mentre Alachi era lontano da Pavia, C. si presentò nella città e, grazie alla connivenza di due capi bresciani, i fratelli Grauso ed Aldo, che erano stati già partigiani del suo avversario, riprese solennemente possesso dei palazzo reale. "Tunc omnes cives, et praecipue episcopus, sacerdotes quoque et clerus, iuvenes et senes, certatim. ad eum concurrentes... Deo gratias de eius reversione, inestimabili gaudio repleti, conclamabant". Così Paolo Diacono. Quanto ad Alachi, questi si ritirò nella Austrasia e mobilitò un esercito, col quale affrontò C. presso Comate d'Adda (Milano), borgo sulla riva destra del fiume che segnava il confine tra l'Austrasia e la Neustria. Nello scontro, che fu durissimo, Alachi perse la vita, ed i suoi furono sconfitti. Quando C., dopo la vittoria, fece ritorno a Pavia, non solo era preceduto dalla fama di condottiero trionfatore di un pericoloso avversario, ma lo circondava l'aureola di campione sostenuto da Dio della fede cattolica e della ortodossia.
Il moto insurrezionale di Alachi, che deve porsi con ogni probabilità nel periodo di tempo immediatamente successivo alla morte di Perctarit, intorno al 688, traeva verosimilmente origine, come pensa il Bognetti (pp. 234 ss.), sia dai risentimenti dei guerrieri longobardi, la cui prerogativa di decidere la scelta del loro sovrano era stata gravemente lesa otto anni prima dall'associazione al trono di C., sia dall'indirizzo politico perseguito da Perctarit e dal suo figlio e collega, indirizzo che si proponeva - anche per ragioni di equilibri interni - il ravvicinamento all'Impero e alla Chiesa di Roma, e la collusione con le forze cattoliche operanti all'interno del regno. Alachi, in altre parole, era l'espressione dell'elemento ariano e tradizionalista, il quale nonsirassegnava, di fronte all'aumento delle conversioni, alla perdita della propria identità etnico-culturale e mal tollerava il peso sempre maggiore che i cattolici andavano acquistando nella vita pubblica e nella direzione politica dello Stato. Sono ben note, da altre fonti che non siano la Historia Langobardorum di Paolo Diacono, sia l'intensa attività di evangelizzazione promossa dal vescovo di Pavia Damiano, sia la proficua opera di proselitismo svolta dai suoi missionari nelle regioni che avevano fatto parte della Liguria dell'età giustinianea. Tale opera e tale attività non poterono certamente avvenire senza il consenso ed il favore del re: di quello stesso re - C., appunto -, il quale nel 698, insieme con lo stesso vescovo, aprirà i lavori del sinodo pavese, che chiuderà in Italia lo scisma tricapitolino. Colpendo e rovesciando C. si voleva dunque colpire e rovesciare chi il sovrano proteggeva ed appoggiava.
Dal tendenzioso racconto di Paolo Diacono - ricco per altro di elementi romanzeschi e leggendari - emergono inoltre alcuni incontestabili dati di fatto. Innanzi tutto, che il clero e, in generale, i cattolici fornirono a C. per tutto il corso della crisi, sino alla sua conclusione vittoriosa, un appoggio costante. Secondo quanto riferisce il cronista longobardo, infatti, il colpo di stato di Alachi gettò nello sgomento soprattutto il vescovo di Pavia ed il suo clero, che ben sapevano quanto li detestasse il nuovo sovrano. A preoccupazioni connesse con la possibilità di proseguire nella sua azione missionaria attribuisce Paolo Diacono i motivi che indussero Damiano a far pervenire ad Alachi, subito dopo la sua presa di potere, il consueto messaggio di congratulazioni che si soleva inviare in occasioni simili. Nel modo oltraggioso con cui Alachi accolse l'inviato del presule vede l'origine del terrore che sacerdoti e chierici ebbero nei confronti dei nuovo re. Ed aggiunge: "Coeperuntque tanto amplius Cunincpertum desiderare, quanto pervasorem regni superbum execrationi haberent". Questa frase, con cui lo storico dei Longobardi apre il racconto delle vicende che portarono alla restaurazione di C., indica chiaramente - al di là del romanzesco racconto della defezione, che pure poté ben esserci stata, di Aldo e di Grauso, i due potenti capi bresciani che avevano portato Alachi sul trono - quali forze stessero dietro al movimento di resistenza all'usurpatore. Tra i primi a congratularsi con C. per la sua restaurazione sono il vescovo Damiano ed il clero pavese, come si è visto. D'altro canto, innegabile è il sostegno fornito unanimemente dai ducati della pianura padano-veneta all'avversario di C.: "Cum omni Alahis Austria, econtra Cunincpert cum suis venientes, in campo cui Coronate nomen est castra posuere", afferma Paolo Diacono. Ma accanto ad Alachi, ad attendere C. sulla riva destra del fiume Adda, c'erano non solo gli armati d'Austrasia, ma anche quanti della Tuscia vedevano di buon occhio l'azione, portata avanti da Alachi. Lo si trae da alcuni particolari riferiti da Paolo Diacono. A Cornate, come fa opportunamente rilevare il Bognetti (p. 235), "non si affrontavano due provincie del regno, ma due modi di concepire il fine stesso della patria".
Sul luogo della battaglia C. fece erigere un monastero, con annesso oratorio, in onore di s. Giorgio. La dedicazione di questa costruzione sacra ad un santo estraneo alla tradizione religiosa longobarda, ma uno dei maggiori di quella orientale, è un segno ulteriore della svolta in senso filobizantino imposta da C. alla politica e, più in generale, alla vita dei suo popolo. Questo indirizzo si espresse anche in un progressivo adeguamento degli usi e delle istituzioni longobarde a quelle bizantine. L'Austrasia tentò ancora una volta di ribellarsi a C.: ciò avvenne quando, Ariisfrit, governatore di Ragogna, assunse "absque regis nutu" il governo del ducato del Friuli, esautorando il duca Radoaldo, e costringendolo alla fuga. Arnsfrit insorse quindi contro il sovrano, ma non ebbe successo. Caduto prigioniero del rivale a Verona, fu accecato ed esiliato.
Riportata la pace nel regno, C. poté dedicarsi a comporre anche i dissidi religiosi che lo travagliavano. Nel 698, durante un sinodo riunito, per ordine del re e del vescovo Damiano, in una sala del palatium di Pavia fu posto termine alla lunga controversia dei "Tre Capitoli". I vescovi scismatici della Venetia furono, con una serie di solenni cerimonie, accolti nuovamente nella comunione della Chiesa di Roma, dopo aver riconosaiuto ed accettato le deliberazioni dei concili V e VI ecumenici contro il monotelismo. Rappresentanti del sinodo ne portarono a Roma gli atti, stesi dal vescovo Damiano, che furono consegnati al papa Sergio I. Questi, per parte sua, convocato un concilio di vescovi, accolse ed approvò solennemente quegli atti, e sancì la divisione dell'antica giurisdizione metropolitica di Aquileia tra il patriarcato di Grado - dove risiedevano i.sucsessori di Paolino d'Aquileia, fuggito dinnanzi all'invasione longobarda -, ed il patriarcato di Aquileia, i cui titolari risiedevano a Cividale dei Friuli. Il confine fra i due patriarcati segnava anche il confine fra i territori di dominio bizantino e quelli di dominio longobardo. I meriti di C. nella composizione dello scisma furono cantati, su invito - pare - dello stesso sovrano, da uno Stefano, forse un monaco, in un breve poemetto, il Carmen de synodo Ticinensi, nel quale si sottolineano la fede e la devozione del re. La devozione di questo principe e la sua sollecitudine nel confronti della Chiesa sono testimoniate anche dalle numerose donazioni in favore di enti religiosi e di luoghi di culto. Tra gli altri monasteri, C. favorì quello di S. Maria Teodata, a Pavia. In esso avrebbe fatto rinchiudere, secondo una tradizione raccolta da Paolo Diacono, una nobile romana, Teodote, che sarebbe stata sua amante - ma si tratta, verosimilmente, di una leggenda nata da etimologia popolare. Paolo Diacono riferisce anche dell'interesse con cui C. seguì l'opera di Felice e la scuola pavese di ars gramatica.
C. morì nel 700. Il suo corpo fu sepolto a Pavia accanto a quelli del padre e dell'avo Ariperto I nella chiesa di S. Salvatore fuori le mura, che era stata fondata dallo stesso Ariperto. Della sua epigrafe sepolcrale ci è pervenuto un ampio frammento.
Aveva sposato una principessa anglosassone, Ermelinda. Da lei aveva avuto un solo figlio maschio, Liutperto, che era ancora bambino quando gli succedette come re dei Longobardi, sotto la tutela di un nobile, Ansprando. Una sorella di C., Vighelinda, aveva sposato il duca di Benevento Grimoaldo II, figlio di quel Grimoaldo che nel 661 aveva detronizzato Perctarit. Nel corso del suo regno C. aveva onorevolmente ospitato il re anglosassone Cedoal, che si recava in pellegrinaggio a Roma.
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