ARIOALDO, re dei Longobardi
Duca di Torino, ariano, appartenente alla nobile stirpe di Caupo, aveva sposato, nel secondo decennio del sec. VII (non dopo il 615-616 comunque), la figlia del re Agilulfo, Gundeperga, nata, assai prima del fratello Adaloaldo, intorno al 601. Con questo matrimonio A. venne ad acquistare una posizione di particolare rilievo tra i maggiorenti del regno, posizione che accrebbe di peso e importanza dopo la morte di Agilulfo (615 o 616), quando A., di fronte ai nuovi sovrani, si atteggiò a capo delle correnti interne di opposizione, legate alle tradizioni germaniche ed ariane.
A questo proposito il vivace biografo di s. Colombano, Giona di Bobbio, riferisce un episodio avvenuto a Pavia, sotto il regno di Adaloaldo (615-625). Durante il governo ab9àziale di s. Atala (succeduto a s. Colombano nel novembre 615) venne inviato proprio nella capitale del regno, a Pavia, un monaco bobbiese, Blidulfo, probabilmente per predicarvi contro gli ariani. Incontrato per la strada il monaco, A., che si trovava a Pavia e procedeva attorniato dai suoi gasindii, e cui era ben nota l'abituale insolenza dei monaci, esclamò: "Questo è uno di quei monaci di Colombano, che si rifiutano di rispondere quando vengono salutati!" e, passando oltre, lo salutò per primo. Blidulfo allora, con zelo eccessivo e fuor di luogo, replicò rinfacciando al duca l'appartenenza ad una setta eretica. Uno dei gasindii di A., cogliendo una sua esclamazione di stizza, si fece premura di venire incontro ai desideri del suo signore: calata la notte, attese ad un crocevia solitario l'intemperante predicatore e gli dette una buona lezione, lasciandolo per morto sulla strada. Da questo punto il racconto di Giona segue i consueti schemi edificanti di ogni agiografia (il risveglio del monaco come da un sonno, perfettamente sano nonostante le percosse; la punizione del suo persecutore, tormentato dal, demonio, sino a quando non viene liberato per le preghiere di s. Atala e dei suoi monaci ...); quello che èinteressante notare (e che risponde con ogni probabilità al vero) è come A. si risolva a presentare le sue scuse a s. Atala, spinto dall'indignazione popolare, e come sia indotto ad offrire, a riparazione dell'offesa, beni al monastero di Bobbio, beni che vennero rifiutati in quanto provenienti da un eretico.
L'accentuarsi, dopo la morte di Agilulfo, della politica dei nuovi sovrani longobardi, Teodelinda e Adaloaldo, in senso nettamente filo-cattolico; l'influenza nei pubblici affari acquistata da dignitari italici, il numero sempre maggiore di conversioni al cattolicesimo (certo non dovute soltanto a meditate convinzioni), tuttociò non poteva non mettere in allarme quella parte del popolo longobardo che era rimasta maggiormente legata alle tradizioni nazionali, germaniche ed ariane, e che vedeva sempre, dietro la crescente potenza della Chiesa di Roma, un possibile pericolo bizantino. Tale allarme, divenuto decisa opposizione interna quando i sovrani cercarono l'appoggio delle autorità imperiali di Ravenna (appoggio che dovette apparire, specie dopo il trionfo d'Eraelio, come una minaccia alla libertà stessa del regno), sfociò sul finire del 625 nell'aperta rivolta del suo capo, A., il quale, per essere genero del defunto Agilulfo, poteva rivendicare legittimamente diritti al trono. là della fine del 625 (13 dicembre), infatti, la lettera in cui papa Onorio I sollecitava l'esarco d'Italia, il patricius Isacio, a sostenere contro il ribelle A. la fazione del legittimo re Adaloaldo e lo pregava di far venire a Roma, affinché vi fossero giudicati, quei vescovi Transpadani (probabilmente i vescovi del Piemonte e di parte dell'attuale Lombardia) i quali, riuniti in un sinodo, avevano in tutti i modi cercato di convincere il vir gloriosus Pietro di Paolo (un italico, già uomo di fiducia di Teodelinda e di Adaloaldo e, come tale, depositario di informazioni preziose per A.) ad accordarsi con "Ariopalto tyranno", passando sopra il giuramento di fedeltà prestato ad Agilulfo. P, dunque evidente, anche se il partito di A. sembrava avere il sopravvento che in quest'anno il conflitto tra il re legittimo e l'usurpatore non si era ancora risolto; ed è evidente che il papa sperava nell'aiuto bizantino per veder confermato sul trono Adaloaldo. Le vicende della lotta, che si concluse nel 626 con la vittoria di A., non ci sono purtroppo note; come non ci sono note né le circostanze né il modo in cui Adaloaldo incontrò la morte.
L'avvento dell'ariano A. non segnò soltanto la ripresa di quelle correnti tradizionalistiche germaniche che il Bognetti chiama "arimanniche"' ma significò anche, per i cattolici dell'Italia settentrionale, l'occasione per tornare alle tesi dello scisma dei Tre Capitoli da poco abbandonate. All'annunzio dell'intronizzazione di A., infatti, il patriarca Fortunato, che rappresentava a Grado le due sedi patriarcali da poco riunitesi nell'ortodossia romana, ripudiò quest'ultima e, nel timore di una rappresaglia o di un colpo di mano bizantino, fuggì in territorio longobardo, a Cormons, portandosi dietro i tesori della sua Chiesa. La reazione del papa Onorio I fu pronta: scomunicato come scimastico Fortunato nel 627, egli inviava "universis episcopis per Venetiam et Istriam constitutis" - ai vescovi suffraganei di Grado, cioè - una lettera in cui li invitava a dare un successore al condannato e deposto patriarca, eleggendo al suo posto un uomo di degna vita; mandava loro inoltre un suo candidato, il diacono regionario romano Primigenio, che fu eletto patriarca ad onta delle tradizioni autonomistiche della Chiesa di Grado. Il papa affermava moltre di essersi rivolto al re dei Longobardi, ad A. quindi, per avere la restituzione di quanto Fortunato si era portato via nella fuga. E' ciò che testimonia la mutata posizione del papa nei confronti dell'usurpatore e che è nello stesso tempo interessante ai fini di una valutazione generale di quei dieci anni del regno di A., a proposito dei quali Paolo Diacono afferma di non sapere quasi nufla, in quella lettera dei febbraio 628 ad A. Onorio I riconosce i titoli spettanti ad un sovrano legittimo: "excellentissimuni Langobardoruni regem". La partita tra Adaloaldo ed A., a poco più di un anno di distanza, poteva dirsi dunque definitivamente chiusa ed il papa non aveva avuto da lamentarsi dei nuovo re.
Le poche notizie su A., che Giona ci ha conservato nella sua Vita Columbani abbatis, servono a delineare, se inserite nel quadro generale delle vicende politiche di quel tempo, la figura di questo re, secondo il Bognetti, saggio, tollerante, pacificatore, alieno da grandi sogni, capace di preservare dalle guerre un regno sproporzionatamente debole di fronte allo impero bizantino. Ed infatti, per quanto ci è dato di sapere, A. si mantenne in una posizione mediatrice ed, evitando di prendere posizioni ben definite - specie riguardo alle questioni religiose -, riuscì a conservare l'equilibrio delle forze che giocavano allora nella politica italiana: i gruppi arimannici maggiormente tradizionalistici; i cattolici, cui doveva essere lasciata piena libertà di culto; l'attivo centro di predicazione antiariana e anti-pagana, quale era Bobbio, che, per i suoi stretti rapporti con paesi transalpini - quali la Irlanda e, in ispecie, la Francia dei cui re godeva i favori -, si trovava in una posizione di forza nei confronti della Corona longobarda. L'appartenenza all'arianesimo tuttavia non impedì ad A. di giudicare secondo giustizia anche in materia di giurisdizione ecclesiastica cattolica, quando fu il caso.
Venuto in urto con l'abate Bertulfo di Bobbio per questioni giurisdizionali, il vescovo di Tortona Probo - il quale rivendicava la sottomissione di quel monastero alla sua autorità - si era rivolto ad A. perché diruinesse la questione. Ma il re, nonostante le pressioni ed imaneggi di cortigiani e di ecclesiastici guadagnati alla causa di Probo, tenne a dichiarare a quest'ultimo che non intendeva assolutamente usurpare poteri spettanti solo all'autorità ecclesiastica. E poiché Probo insisteva nelle sue pressioni, A. si risolse a mandare a Roma, a sue spese, l'abate Bertulfo ed a deferire la questione al pontefice. Onorio I, l'11 giugno 628, dichiarando che il monastero di Bobbio dipendeva in via gerarchica direttamente dal pontefice, concedeva all'abate l'autonomia più completa.
A. morì, secondo i calcoli più attendibili, nel 636. Ci rimane notizia d'un suo giudicato, con cui definì una lite fra il gastaldato di Parma e quello di Piacenza, sorta per contestazioni di confine.
Della moglie di A., Gundeperga, donna pia e religiosa come sua madre Teodelinda (a Gundeperga è dovuta la costruzione in Pavia della chiesa di S. Giovanni Battista, da lei riccamente dotata), gli Annales del cosiddetto Fredegario raccontano che, in seguito alle accuse di un certo Ataulfò - di cui aveva rifiutato le profferte amorose -, cadde in disgrazia del re e fu da lui relegata a Lumello, dove rimase per tre anni finché un giudizio di Dio non ebbe provato la sua innocenza.
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