ARDUINO, re d'Italia
Nacque intorno all'anno 955 da Dadone, conte di Pombia, e da una figlia di Arduino III Glabrione (v. arduinici). Ebbe in moglie Berta, figlia del marchese Oberto lI della Liguria orientale, e fu padre di tre figli: Arduino II, detto anche Ardicino, Ottone e Guiberto. Prima conte di Pombia, succedette intorno all'anno 989 al cugino Corrado Conone nel governo della marca d'Ivrea; e tosto intese a rialzarvi il prestigio del potere marchionale e a rivendicarne i diritti, che erano man mano passati ai vescovi. Di qui, i suoi vivaci conflitti con i vescovi stessi, e specialmente con quelli di Vercelli e di Ivrea, entrambi della sua marca. Il primo conflitto sorse col vescovo di Vercelli: e ne fu occasione, secondo il Gabotto, la donazione della corte di Caresana, fatta nel 995 dall'imperatrice Adelaide ai canonici vercellesi, e la successiva rinuncia del marchese Ugo a favore del vescovo Pietro dei diritti a lui spettanti su quella corte. Il contrasto divenne tosto assai aspro: A. s'impadronì con la forza della città; nel tumulto, il vescovo Pietro fu ucciso, e il suo corpo, insieme con la chiesa, dato alle fiamme (13 febbraio-17 marzo 997). Sulla sedia vercellese salirono allora, prima Raginfredo, poi Adalberto; entrambi, a quanto sembra, favorevoli ad A. Analoghi conflitti avvenivano intanto col vescovo d'Ivrea, Warmondo, quantunque di essi ci manchino particolari notizie. Solo sappiamo della scomunica due volte lanciata da Warmondo contro Arduino, e di una lettera sua e di altri vescovi al pontefice Gregorio V, per chiederne l'intervento. Il pontefice scrive ad Arduino (sembra nell'autunno 998), minacciandolo di anatema per la prossima Pasqua, se egli non desista dai propositi e non emendi il mal fatto. Se non che il pontefice muore prima della Pasqua 999, e a lui succede l'arcivescovo di Ravenna, Gerberto. Anche la sede di Vercelli, rimasta nel frattempo vacante, viene concessa a un deciso oppositore di A., e cioè al monaco tedesco Leone, addetto alla curia imperiale. In queste lotte, A. trova molti partigiani nella piccola nobiltà campagnola e, insieme, cittadina, i cosiddetti secondi militi; quelli stessi che spesso si trovavano in conflitto con i vescovi, loro signori. Nonostante il mutamento dei personaggi, A. compare ugualmente in Roma, alla sinodo tenuta dal pontefice Silvestro II e dall'imperatore Ottone III, e vi presenta le sue difese. Ma la sinodo pronuncia contro di lui sentenza di condanna. I suoi poteri passano al figlio Ardicino; e i suoi beni sono dati al vescovo Leone, al quale inoltre sono concessi i due comitati di Ivrea e Vercelli, con tutti i poteri sino allora esercitati dai conti. La condanna non piega A., il quale, anzi, secondo una ipotesi formulata dal Vesme e accolta dal Gabotto, riesce a riaffermare siffattamente i suoi poteri che, già nella primavera dell'anno 1000, vien proclamato una prima volta re d'italia. Di questa prima regia proclamazione sono argomento, secondo il Vesme, la lettera del vescovo d'Ivrea Warmondo "ai Re e ai Principi dei regni", dove si parla, pare con riferimento all'anno 1000, di A. "che ha usurpato le insegne del pubblico potere"; poi, secondo il Gabotto, il diploma di A. del 27 febbraio 1004 a un habitator di Gassino, nel qual diploma quest'anno 1004 è indicato come il quarto del regno di A. E ciò riporta al 1000 il primo anno di regno di lui. Certo, l'ipotesi vale a meglio spiegare la "incredibile prestezza", al dir del Giulini, con cui poté poi aver luogo la seconda incoronazione di A., quella del 15 febbraio 1002, a soli ventidue giorni di distanza dalla morte di Ottone III. Morto infatti Ottone in Paterno, il 23 gennaio 1002, A. viene tosto incoronato re in Pavia, il 15 febbraio, dai grandi del regno. Suo arcicancelliere è Pietro, vescovo di Como, che lo stesso ufficio aveva già tenuto con Ottone. Egli è tosto riconosciuto non solo nell'Italia superiore, ma anche nella centrale; del che è prova il suo diploma al monastero del Salvatore di Lucca, del 22 agosto 1002. Ma, purtroppo, per breve durata. Gli avversarî si ricongiungono presto ai suoi danni, e ricorrono al nuovo re di Germania, Enrico II, il quale, prima che finisca l'anno, manda Oddone, duca di Carinzia e conte di Verona, contro A.; questi lo batte al Campo della Fabbrica (fine del dicembre 1002-primi del gennaio 1003) e lo costringe a ripassare le Alpi. Ma, con la primavera del 1004, le cose mutano. Enrico discende in Italia con un forte esercito; i partigiani di A. si sbandano; il re tedesco riceve in Pavia la corona regia; un tentativo di rivolta, scoppiato nella città la notte stessa dell'incoronazione, è soffocato nel sangue.
A. si ritrae nella sua marca e si afforza nella rocca di Sparone, dove sostiene, senza piegare, un aspro assedio durato tutto un anno. Poi, partito Enrico, riprende man mano i poteri, da prima nell'Italia occidentale, poi, per quanto sembra, anche in Pavia, la capitale del regno; del che è sicuro argomento, secondo il Provana, la moneta che egli vi avrebbe fatto battere nel 1005, e che è una delle poche del suo regno che possediamo; inoltre il suo diploma alla chiesa di S. Siro di Pavia, del 30 marzo 1011, di cui il Savio ha dimostrata la genuinità. Sono tuttavia scarse le notizie che abbiamo di lui in questo periodo, sino alla seconda calata di Enrico in Italia, alla fine del 1013, per ricevere in Roma dal pontefice Benedetto VII, il 14 febbraio 1014, la corona imperiale. Secondo Ditmaro, A. offerse al rivale accordi di pace, che dai consiglieri di Enrico furono respinti. Nuovo sdegno accese perciò gli animi dei partigiani di A., che troviamo infatti largamente partecipi al conflitto verificatosi in Roma, otto giorni dopo l'incoronazione di Enrico, contro gli Enriciani. La lotta fu dalle due parti assai aspra; e la notte soltanto, secondo Ditmaro, divise i combattenti. Infine, gli Enriciani prevalsero. Ma l'imperatore dovette comprendere quanto gli animi in Roma gli fossero avversi: sì che lo vediamo riprendere, già nei primi del marzo, la via della Toscana per ricondursi in Germania, non senza dover superare gravi difficoltà sulla via del ritorno. Risorgevano le fortune di A., che stabiliva rapidamente il suo potere in tutta l'Italia superiore, impadronendosi dei luoghi che gli erano stati più accanitamente nemici. A lui aderiva anche il vescovo di Vicenza, Geronimo, sino allora legato alla parte imperiale. Se non che, mentre pareva che egli dovesse ricondurre tutto il regno in sua mano, le sue fortune presero improvvisamente a mutare. Gli avversarî si ricongiunsero, sembra, intorno a Bonifacio marchese della Toscana e all'arcivescovo Arnolfo di Milano, e A. si ritrasse sfiduciato nella sua marca, dove, per maggior sciagura, lo colse grave morbo. Allora, affranto dalle lunghe lotte e dal male, più che vinto dalle armi, depose sull'altare dell'abbazia di Fruttuaria le insegne regali e vestì l'abito monastico. Né più abbandonò la quiete del monastero sino alla sua morte, che fu il 14 dicembre dell'anno successivo 1015.
Ben rilevata si presenta la figura di questo re sullo sfondo della vita italiana attorno al mille. Assai notevole la sua azione, in un'epoca di profondo travaglio della società medievale nella valle del Po. Trovandosi egli spesso solidale con la piccola nobiltà contro i vecchi signori, ne aiutò indirettamente l'ascesa: e si sa qual parte quella classe sociale ebbe nella prima organizzazione del comune. Insofferente di dominio straniero, vagheggiò un regno indipendente nell'alta Italia, nella regione stessa in cui questa aspirazione si sarebbe poi più volte ripresentata e in cui essa, mutate le condizioni d'Italia e d'Europa, si sarebbe infine realizzata. E questo ci spiega come nel sec. XIX gli uomini del Risorgimento si siano riconosciuti in Arduino ed abbiano visto in lui un precursore. Certo, si deve ammettere che, attraverso i contrasti suoi con i Tedeschi, contrasti che mettevano di fronte principi e milizie di nazionalità diverse, si venne concretando nelle popolazioni italiane un proprio sentimento nazionale: sentimento, del resto, che aveva una sua base già nella tradizione
non mai spenta delle lotte fra Impero romano e Germani, e delle invasioni barbariche.
Bibl.: Provana, Studi critici sovra la storia d'Italia ai tempi del re Arduino, Torino 1844; D. Carutti, Il conte Umberto I e il re Arduino, Roma 1888; B. Di Vesme, Il re Arduino e la riscossa italica contro Ottone III ed Arrigo I, in Biblioteca della Soc. stor. Subalp., VII, Pinerolo 1900; F. Gabotto, Un millennio di storia eporediese, in Biblioteca, cit., IV, Pinerolo 1900, pp. 18-34; S. Pivano, Stato e Chiesa da Berengario I ad Arduino, Torino 1908, pp. 222 segg., 248; G. Romano, Le domin. barbariche in Italia (395-1024), Milano [1910].