ARDUINO, re d'Italia
Nacque verso il 955 da Dadone, conte di Pombia, figlio - forse - di un fratello del re Berengario Il (Anscario II, secondo il Carutti; Amedeo I, secondo il Baudi di Vesme). Il suo nome ripeteva quello dell'avo matemo, Arduino III Giabrione, marchese di Torino. Sposò una Berta, molto probabilmente la figlia di Oberto II, marchese della Liguria orientale, dalla quale ebbe tre figli: Arduino (detto anche Ardicino), Ottone e Guiberto. Dal nostro A. discende il ceppo dei conti di Ivrea, detti più tardi di Castellamonte, Agliè, Brosso, Rivarolo e Front; da un suo fratello, Guiberto, discendono invece i conti dì Pombia, indi Bíandrate, San Martino, Vaiperga e Masino.
Il comitato di Pombia si estendeva all'alto e medio Novarese, inclusa la città di Novara. Ma, intorno al 990, A. successe al cugino Corrado Conone nel governo della marca d'Ivrea, non sappiamo se per designazione imperiale o in seguito ad adozione da parte dello stesso Corrado, che era legato ad A. da un duplice vincolo di parentela (terzogenito di Berengario Il, aveva sposato un'altra delle figlie di Arduino III Glabrione). La marca d'Ivrea, dopo il ridimensionamento cui l'aveva sottoposta Berengario Il verso il 950, comprendeva tuttora i comitati di Ivrea, Vercelli, Pombia, Ossola, Stazzona, Bulgaria e Lomello, cioè a dire un territorio corrispondente alle attuali diocesi di Ivrea, Vercelli, Novara, Vigevano, e a parte di quella di Pavia e forse anche di Milano.
La lotta che A. condusse in particolare contro i vescovi dì Vercelli e di Ivrea costituisce la trama intorno alla quale si dispongono gli eventi, spesso clamorosi, di cui fu intessuta la sua vita almeno fino al momento in cui fu eletto re d'Italia; e lo spazio che si dedica qui alla discussione di singoli punti controversi relativi a questo primo periodo è anche in ragione del rilievo che la storiografia italiana dell'Ottocento ha dato ad A., presentandolo alquanto tendenziosamente come precursore di re nazionali in guerra contro sovram tedeschi.
Dapprima, negli anni 996-997, A. entrò in conflitto con Pietro, vescovo di Vercelli, che, reduce dall'Egitto, dove era stato condotto in prigionia dai musulmani vincitori a Stilo di Ottone Il (982), si stava adoperando a rimettere in sesto il patrìmonio della sua Chiesa, dissipato da predecessori concubinari, come il vescovo Ingone.
Dal Gabotto, lo scontro di A. con Pietro è stato messo in rapporto con la donazione della corte di Caresana fatta ai canonici di S. Eusebio di Vercelli dall'iinperatrice Adelaide (Francoforte, novembre 995; il documento relativo fu prodotto in un placito tenuto a Pavia nell'aprile 996) e ripetuta poi dal marchese Ugo di Tuscia, a Sale (Tortona), nel settembre del 996 (anche questa chartula offersionis fu subito prodotta in un placito, in pari data e luogo). Restando incerto il perché della nuova donazione, che ha lo stesso oggetto della precedente, ai nostri fini interessa piuttosto sapere che, nel 987, la medesima corte di Caresana era stata donata sempre al canonici di S. Eusebio, dal marchese Corrado Conone. In questo caso, la ripetizione dell'atto da parte di Adelaide trova la suaspiegazione nel fatto che Corrado, in seguito alla confisca dei beni di Berengario Il operata da Ottone I, e alla successiva donazione di tali beni disposta dall'imperatore a favore della moglie, non era più il legittimo proprietario della corte e non poteva quindi disporne liberamente: risulta così precisata la causa dell'attrito fra A., erede di Corrado Conone, e tendente a rientrare in possesso di Caresana, e la Chiesa di Vercelli, preoccupata di ottenere un nuovo, più sicuro titolo di proprietà sulla corte stessa (cfr. C. Manaresi, Le tre donazioni della corte di Caresana alla canonica di Vercelli..., in Rendic. del R. Ist. lombardo di scienze e lettere, classe di lettere, LXXIV, 1 [1940-41], pp. 39-55, che chiarisce l'enigma delle tre donazioni, senza per altro far cenno all'ìpotesi del Gabotto e ad Arduino).
In più di questa incerta ipotesi sulle origini del contrasto fra A. e il vescovo Pietro, siamo informati soltanto, e in via retrospettiva ed indiretta, sulla drammatica conclusione di esso. (Il sospetto di falso che grava sul documento di cui ci serviamo, non pregiudica, come vedremo, la sua utilizzazione in questo contesto).
Il 7 maggio 999, Ottone III, nell'atto che avrebbe concesso al vescovo Leone e, per lui, in perpetuo alla Chiesa di S. Eusebio la città e l'intero comitato di Vercelli (Ottonis III. Diplomata, a cura di T. v. Sickel, in Mon. Germ. hist., Diplomata regum et imperatorum Gertnaniae, II, 2, Hannoverae 1893, n. 324), avrebbe anche confermato alla Chiesa suddetta il possesso del suo patrimonio, che veniva accresciuto per l'occasione delle proprietà confiscate ad A. e ai suoi seguaci, di cui si precisano le responsabilità negli avvenimenti che avevano avuto luogo due anni prima (Ottonis III. Diplomata, n. 323): "Damus omnia predia Ardoini filii Daidonis, quia hostis publicus adiudicatus episcopum Petrum Vercellensem interfecit et interfectum incendere non expavit, et predia eoruin qui exploratu (sic 1) armis et ipsis manibus huic crudelitati interfuerunt, id est etc." (seguono i nomi). L'uccisione di un vescovo e la successiva distruzione, mediante il fuoco, del suo cadavere sono un dato essenziale della biografia di A., in quanto i suoi avversari ne approfittarono per imprimere su di lui un indelebile marchio d'infamia: nel 998, scrivendo a papa Gregorio V, i vescovi della marca d'Ivrea provvedevano a generalizzare l'episodio di Vercelli, come se A. usasse per abitudine di dare fuoco ai cadaveri dei nemici vinti (cfr. Provana, doc. 10, p. 342). Ma, mentre non è da escludersi che il cadavere di Pietro ardesse nell'incendio della cattedrale, lo stesso testo del diploma, oltre che la motivazione della condanna pronunciata contro, A dal sinodo romano della primavera del 999, separano la responsabilità del marchese da quella di coloro che avevano compiuto materialmente la strage. Per l'episodio di Vercelli, si danno di solito due date: il 13 febbraio e il 17 marzo 997, che qualche studioso intende come se fossero i termini entro i quali va posta l'impresa di A., dall'irruzione in città alla morte del vescovo (cfr. K. e M. Uhlirz, Yahrbúcher des Deutschen Reiches unter Otto II. und Otto III., Berlin 1954, p. 235). Ma se l'anno è ' ricavabile dal fatto che, nel dicembre 997, sulla cattedra di Vercelli sedeva il vescovo Ragínfredo successore di Pietro, le due indicazioni di mese e di giorno rispecchiano soltanto l'incertezza della tradizione circa la data della morte dello stesso Pietro: 17 marzo, secondo il necrologio della Chiesa vercellese; 13 febbraio, se si tiene conto dell'uso, prevalso a Vercelli, di celebrame la festa in tale giorno (cfr. Savio, p. 460). L'identificazione di A. col comes palacii che tenne un placito a Limite (iuditiaria Brisiensis) il 22 maggio 996, è da respingersi (cfr. I placiti del "Regnum Italiae ", 11,1, a cura di C. Manaresi, Roma 1957, in Fonti per la storia d'Italia, XCVI, pp. 337-339, e Mor, I, p. 510 n. 60).
Ma più importante dei dettagli sui fatti accaduti a Vercelli è l'elenco, che lo stesso diploma di Ottone ci offre, dei fautori di Arduino. In attesa di ricerche esaurienti che definiscano la struttura sociale del mondo in cui si verificarono questi conflitti, e trattandosi di una fase della carriera di A. per la quale non è ancora pos~ sibile invocare una spiegazione di tipo - per cosi dire - nazionale, i dati che il diploma del 999 riporta, circa coloro i quali si trovarono allora schierati al fianco del marchese d'Ivrea, costituiscono uno dei pochi elementi sulla cui base si può tentare di dare un senso a questa storia. Servi che erano stati alle dipendenze di S. Eusebio; sacerdoti della stessa Chiesa, come l'arcidiacono Gisalberto (egli stesso un antico servo di S. Eusebio, ricordato qui col suo seguito di generi e di parenti, fra i quali ultimi sono nominati un giudice e due "servi fugitivi") e l'arciprete Cuniberto; e uno stuolo di altri personaggi, appartenenti con ogni probabilità a quella classe di "secundi milites" che rappresentava la zona più mossa della società di allora: non andiamo certo lontani dal vero affermando che per tutti c'era almeno questo in comune, di avere, ciascuno a suo modo, approfittato del malgoverno della Chiesa di Vercelli da parte degli "uxorati antecessores" di Pietro (l'espressione è tolta da Ottonis III, Diplomata, n. 383, altro privilegio imperiale a favore della Chiesa di Vercelli). Taluni ci avevano positivamente guadagnato in ricchezze ed in autorità per sé e per i propri congiunti (di Gisalberto il diploma n. 323 dice che era "inflatus divitiis ecclesie"), altri, quando non erano gli stessi, si erano invece anzitutto sottratti a onerose servitù che gravavano-sui propri beni o sulla propria persona;, ma, sia nell'un caso sia nell'altro, la causa che li accomunava aveva un contenuto in primo luogo negativo, cioè a dire volto a far sì che fallisse l'opera di restaurazione del patrimonio ecclesiastico, avviata dal vescovo in conformità alle direttive generali della politica imperiale ottoniana.
Quanto ad A., la molla che lo spinse ad agire viene indicata di solito nel proposito di operare "la ricostituzione integrale della posizione politica, economica e giuridica del marchesato" (Mor, I, p. 451), in assoluto contrasto, quindi, con l'aumento del potere dei vescovi soprattutto all'interno delle mura cittadine. Ma resta ancora da precisare in nome di quale comunanza di interessi il marchese d'Ivrea abbia potuto raggruppare e dirigere le forze elencate qui sopra. Al di là della constatazione, ovvia, secondo cui, per tutti, il nemico da battere era il vescovo di osservanza imperiale, e dell'apprezzamento, che pure si impone, dell'ascendente personale di cui doveva essere fornito A., il Violante ritiene che l'essenza del suo programma non consistesse nell'appoggiare - come si è spesso ripetuto - i vecchi conti in crisi contro i vescovi che tentavano di spodestarli, ma piuttosto nel favorire la progressiva ripartizione del territorio comitale e il conseguente moltiplicarsi di circoscrizioni feudali minori, cfr. C.- Violante, in Storia d'Italia coordinata da N. Valeri, I, Torino 1959, pp. 55 s.; per una efficace sintesi della posizione più comunemente accettata, cfr. invece dello stesso Violante, La società milanese nell'età precomunale, Bari 1953, pp. 218 s.).
Il due diplomi di Ottone per la Chiesa di Vercelli (Ottonis III. Diplomata, nn. 323 e 324) sono datati al maggio 999; gli avvenimenti cui si fa riferimento nel primo dei due si svolsero, come s'è visto, nel febbraio-marzo 997. I due anni intermedi erano trascorsi senza che A. fosse chiamato a rendere conto dell'accaduto. Localmente, la situazione sotto i successori di Pietro, Raginfredo ed Adalberto (per la cronologìa, cfr. Bloch, Beitrdge, pp. 79-81), sembra essere tornata al punto di partenza, di quando cioè sulla cattedra vercellese non sedevano vescovi animati da propositi di restaurazione patrimoniale: il diploma che Ottone III concesse il 31 dicembre 997 ai canonici di S. Eusebio, su richiesta del vescovo Raginfredo, era un semplice documento di conferma di beni (Ottonis III. Diplomata, n. 264), che veniva a sancire uno stato di cose del quale A. ed i suoi potevano forse non considerarsi ancora paghi, ma che era pur sempre quello in cui aveva potuto maturare il colpo di mano vittorioso di pochi mesi prima. Non sappiamo se l'imperatore si sia regolato così solo perché non era stato messo al corrente dei fatti, o perché il "partito" di A. fosse abbastanza forte da fare sentire il suo peso alla stessa corte imperiale.
Tra l'episodio di Vercelli e la condanna romana trova posto lo scontro, altrettanto violento, di A. col vescovo Varmondo d'Ivrea. Tranne forse che per la priorità cronologica del primo rispetto al secondo, le connessioni fra i due episodi non sono sempre chiare. Per esempio, non è facile dire fino a che punto l'eco del conflitto con Varmondo abbia contribuito a provocare la così tardiva incriminazione di A. per l'uccisione del vescovo Pietro. Anche in questo caso, almeno in un primo momento, papa ed imperatore dettero l'impressione di volere restare fuori dalla contesa.
Gli sviluppi dei contrasto fra A. e Varmondo ci sono noti attraverso un gruppo di documenti tratti da due codici dell'Archivio Capitolare d'Ivrea, e pubblicati in appendice dal Provana (pp. 334-345). Nella Allocutio episcopi Ipporediensis ad plebem (Provana, doc. 9, pp. 340 s.), accanto ad A. viene indicato alla pubblica esecrazione suo fratello Amedeo. Fra i loro complici nell'opera di devastazione della Chiesa d'Ivrea sono anzitutto menzionati i secundi milites ("milites terram Sanctae Mariae Iporiensis tenentes": diretti vassalli della Chiesa stessa, e quindi non valvassori come a torto si ripete), colpevoli sia per avere positivamente prestato consiglio ed aiuto agli usurpatori, sia per avere omesso di adempiere questo medesimo obbligo, cui erano tenuti nei confronti del loro legittimo signore; ma anche, subito dopo, "omnes cives in Eporeria civitate habitantes", che avessero abbracciato il partito dei nemici della Chiesa: segno, questo, che, a differenza di ciò che s'è visto per l'episodio vercellese, A. qui aveva potuto reclutare una parte dei suoi aderenti anche all'intemo della città.
Sempre in relativo contrasto con quello che s'è detto per Vercelli i servi della Chiesa eporediese, più che avere una funzione attiva nel conflítto, sembrano essere nelle condizioni, essi stessi, di vittime della violenza altrui (cfr. Provana, docc. 9, p. 340 e s., p. 338): ma la contraddizione è solo apparente, in quanto se è vero che la liberazione dei servi dal vincolo che li legava alle chiese era una conseguenza della "ventata di libertà" suscitata dall'azione dei valvassori, è però naturale che, in un primo momento, tale azione assumesse la forma di una maggiore pressione che i nuovi venuti esercitavano nei confronti delle classi inferiori (Violante, La società milanese, p. 156).
Prima di arrivare alla misura estrema di una scomunica formale, Varmondo - secondo l'uso - cercò a più riprese ed in varia forma di indurre A. a desistere dal suo atteggiamento di ostilità verso la Chiesa d'Ivrea (cfr. Provana, docc. 3, pp. 334 s. 4, p. 336, e 10, p. 343). Ma l'interessato non se ne diede per inteso e andò incontro a una prima e a una seconda scomunica, sotto l'accusa di avere recato grave offesa a tale Chiesa, per averla colpita nei beni e nei dipendenti, oltre che nella persona stessa del suo pastore: "episcopum a sede propria soepe violenter expulit" (Provana, docc. 6, p. 338 e 10, p. 343).
La solenne pubblicità del cerimoniale che accompagnava la pronuncia della scomunica ("debent autem duodecim sacerdotes episcopum circumstare et lucemas ardentes in manibus tenere..."), e la spiegazione dell'avvenimento che il vescovo avrebbe fornita communibus verbis al popolo adunato nella cattedrale, e che sarebbe stata poi ripetuta capifiarmente nelle singole parrocchie la domenica successiva (Provana, doc. 7, pp. 338 s.), dovevano far si che la notizia della condanna arrivasse a tutti i fedeli della Chiesa eporediese, fra cui A. contava evidentemente numerosi seguaci sparsi un po' dappertutto.
Ma le sanzioni spirituali non sortirono l'effetto sperato. In una lettera a Gregorio V, scritta dopo il suo ritorno a Roma (febbraio 998), un non meglio precisato "coetus episcoporum", probabilmente i vescovi della marca d'Ivrea, facevano presente al papa la insostenibile situazione in cui si trovavano, sempre per colpa di A., individuo "nihil in se divinum nichil humanum habens", manifestando al tempo stesso una certa delusione per lo scarso impegno dimostrato da chi istituzionalmente avrebbe dovuto sostenere la loro causa: l'imperatore finora non aveva voluto prendere posizione in merito, e da Roma si attendeva ancora un cenno di convalida delle due sentenze di scomunica (Provana, doc. 10, pp. 341-343). Che l'impressione dei vescovi fosse esatta, ce lo conferma la sostanza della lettera che Gregorio V, proprio sotto quella spinta, si decise a scrivere ad A.: se in essa certamente non mancano severe espressioni di rimprovero per il destinatario, qualificato come "christianae fidei expugnator", tutto si risolve poi in una semplice esortazione rivolta ad A. perché torni sul retto cammino, differendosi ancora fino alla Pasqua successiva la sua punizione, per il caso che nel frattempo non si fosse ravveduto (Provana, doc. II, p. 343; la lettera va posta fra la fine del 998 e l'inizio dell'anno seguente: cfr. P. F. Kehr, Italia Pontificia, VI, 2, Berolini 1914, p. 144).
Ma, quando Gregorio scriveva, il meccanismo da cui sarebbe scaturita la reazione contro A. era stato in parte già montato. Proprio nel momento in cui, sul piano locale, a Ivrea come a Vercelli, A. si rivelava il più forte, e le posizioni conquistate da lui e dai suoi seguaci tendevano a consolidarsi, si produsse infatti un mutamento nell'atteggiamento della corte imperiale: nel conflitto fra A. e i vescovi della marca d'Ivrea, prese finalmente posizione Ottone III, schierandosi - come è naturale - dalla parte dei vescovi.
Tale svolta può dirsi già avvenuta il 20 sett. 998, data della promulgazione dei Capitulare Ticinense de praediis ecclesiarum, un provvedimento che, annullando le concessioni di terre ecclesiastiche che non fossero espressamente limitate alla durata della vita del concedente (cfr. Mon. Germ. hist., Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, 1, Hannoverae 1893, a cura di L. Weíland, n. 23, pp. 49-51), colpiva in pieno interessi che avevano trovato protezione all'ombra del marchese d'Ivrea. E lo stesso vale anche per il Capitulare de servis libertatem anhelantibus con cui l'imperatore si opponeva risolutamente alla liberazione dei servi soprattutto ecclesiastici (ibid., n. 21, pp.47 s.), sempre che questo secondo capitolare, di datazione incerta, sia davvero da considerarsi in rapporto molto stretto col primo, (cfr. Mor, I, pp. 46ss., e K. e M. Uhlìrz, Yahrbacher, p. 278). Erano ancora provvedimenti di carattere generale, ma l'attacco frontale contro A. ormai non si sarebbe fatto attendere.
Secondo il Bloch (Beitrage, pp. 61 s.), il testo di entrambi i capitolari fu redatto dall'arcidìacono e "logotheta" Leone, soprannominato per celia "episcopus palatii" in considerazione del grande prestigio di cui godeva a corte, e in via di diventare - se non lo era già diventato - vescovo di Vercelli (la nomina non poté avere luogo prima della primavera-estate 998, ma era certamente avvenuta il 7 maggio dell'anno successivo). E al medesimo Leone il Bloch attribuisce anche la stesura dell'intero manipolo di dìplomi imperiali per la Chiesa di Vercelli, compreso il n. 323 di cui s'è detto più sopra. Da notare che tale ipotesi è accolta anche dal Manaresi, il quale però, sulla base di considerazioni che lasciano talvolta perplessi, pensava che si trattasse di falsi, prodotti da Leone a Corrado II nel 1025, al fine di ottenere un diploma originale di conferma dei beni e dei diritti di cui godeva la sua Chiesa (per la questione dell'autenticità di questi diplomi, cfr. F. Gabotto, Intorno ai diplomi regi ed imperiali per la chiesa di Vercelli, in Arch. stor. ital., s.s, XXI [18981, pp. 1-53, e C. Manaresi, Alle origini del potere dei vescovi sul territorto esterno delle città', in Bullett. d. Ist. stor. ital. per il M.E., LVIII [19441, pp. 285-313).
Quale che fosse stata l'eco immediata delle lotte fra A. e i vescovi Pietro e Varmondo, è certo che tali conflitti, e soprattutto l'esito sanguinoso del primo dei due, acquistarono rilievo su piano nazionale solo a partire dal momento in cui, con la nomina di Leone a vescovo di Vercelli, la politica dell'Impero in Italia si propose il compito di instaurare il nuovo ordine "ottoniano" in quelle marche occidentali, dove, anche per il fatto che esse adempivano tuttora l'ufficio origmario di guardia della frontiera, la " compagine dell'organismo laico " si manteneva più salda che altrove (cfr. Mor, Il p. 468). Guardando per un istante al futuro, si direbbe che qualcosa della stessa grandezza di A. vada ascritta anche alla circostanza di essersi trovato davanti, per di più in casa propria a Vercelli, un avversario della statura di Leone. Con una evidente sfasatura di tempi, ma cogliendo nel giusto per quanto attiene all'importanza del ruolo giuocato dai vari protagonisti, Benzone d'Alba, in alcuni versi scritti in lode - si badi bene - di Varmondo d'Ivrea, esalta quest'ultimo come "Leonis Vercellensis [ ... ] assecula" - come gregario, dunque, del grande Leone, il "leo fortis, leo ammirabilis, Poliphemum qui prostravit" (Benzone, Ad Heinricum IV imp. libri VII, in Mon. Germ. hist., Scriptores, XI, Hannoverae 1854, pp. 637-639; assai diversamente, il Gabotto si basa sul passo di Benzone per riportare la lotta fra A. e Varmondo a un'epoca successiva all'elezione di Leone a vescovo di Vercelli: cfr. Un millennio.., pp. 23 S.).
Per colpire A., Leone puntò sull'accusa di assassinio, con riferimento all'episodio vercellese del febbraio-marzo 997. In un pubblico giudizio, i reati contro la proprietà ecclesiastica, anche dopo il capitolare del settembre 998, non avrebbero mai potuto assumere la corposa evidenza di un "episcopicidio". Alla presenza dell'imperatore e dei nuovo papa Silvestro II (consacrato il 9 aprile), un sinodo si riunì in S. Pietro fra la seconda metà di aprile e i primi di maggio del 999, per giudicare A., venuto a difendersi di persona. Nella confessione resa innanzi al sinodo, A. ammise di "avere condotto quegli uomini che uccisero il vescovo Pietro di Vercelli e di avere assistito alla sua uccisione, e di avere ricondotto e trattenuto con sé quei medesimi uomini, continuando in seguito ad avere relazioni con loro"; il sinodo, riconoscendolo colpevole, si attenne alla sua versione, ma per l'aggravante di avere continuato a mantenere rapporti con quegli assassini, solo in parte compensata dal fatto di avere reso pubblica confessione della sua colpa, la pena che gli venne inflitta fu eguale a quella che gli sarebbe spettata "si secreto confiteretur, manu sua episcopum interfecisse" (cfr. Mon. Germ. hist., Constitutiones, I, p. 53): una finzione giuridica, il cui risultato era di configurare come omicidio il reato di Arduino. E nell'epitaffio del vescovo Pietro, composto verosimilmente da Leone, la vecchia accusa infatti ritoma, nella sua formulazione più radicale, messi ormai da parte il dire e il disdire della sentenza romana: "occidit Petrum, truncat et assat eum" (cfr. H. Bloch, Zú den Gedichten Leo's von Vercelli, in Neues Archiv, XXVII [1901], p. 753).
Né la censura canonica inflittagli dal sinodo romano, né la successiva messa al bando di A. come "hostis publicus", cui tenne dietro - come s'è visto - la confisca dei suoi beni e di quelli dei suoi seguaci (cfr. Ottonis III. Diplomata, n. 323), valsero però a liquidare definitivamente il marchese d'Ivrea: se infatti l'ipotesi secondo la quale egli sarebbe stato formalmente eletto re d'Italia già nel iooo è risultata senza fondamento (cfr. Baudi di Vesme, p. 9, e Gabotto, Un millennio..., p. 25, n. 1; ma cfr. Holtzmann, pp. 485, s.), resterebbe sempre la testimonianza contenuta nell'Epistola regibus regnorumque principibus dei vescovi della marca, là dove si rendeva noto che lo scomunicato A., oltre ad insístere nella persecuzione contro i vescovi e nell'opera di sobillazione dei secundi milites, era adesso in stato di aperta ribellione contro lo stesso potere regio, avendo usurpato le insegne della pubblica autorítà "ad totius regni detrimentum" (Provana, doc. 12; per la datazione della lettera, cfr. Mor, I, pp. 479 e 519 n. 106).
Incerta appare invece, ad un accurato esame delle fonti, la sorte che sarebbe toccata in questo frattempo alla dignità marchionale eporediese. Qualche autore afferma che, subito dopo la condanna di A., la marca fu attribuita ad Ardicino, suo figlio, per poi esserne in breve spodestato anche lui a favore di Olderico Manfredi, marchese di Torino: ma si tratta forse di una semplice illazíone da un passo di un diploma di Ottone III (Ottonis III, Diplomata, n. 383), dove si dice che, avendo Ottone convocato Ardicino "ad palacium Papiense ut legem faceret" questi non rispose all'intimazione, ma si diede alla fuga col favore delle tenebre (per la controversa datazíone dell'episodio, cfr. M. Uhlirz, Die Regesten des Kaiserreiches unter Otto III., Il, Graz-Kóln 1957, p. 767). Con maggiore aderenza alla situazione reale, il Mor osserva che, in seguito alle concessioni di varia natura di cui l'imperatore colmò, fra il 1000 e il 1001, le Chiese di Novara, Ivrea e Vercelli (cfr. Ottonis III, Diplomata, nn. 374, 376, 383, 384 e 388), il marchesato d'Ivrea, almeno sulla carta, non esisteva praticamente più come forza unitaria.
In attesa di una congiuntura più favorevole, A. deve essersi allora ridotto nelle valli canavesane. La presenza di suo fratello Guiberto, conte di Pombia, a un placito tenuto da Ottone III a Milano il 14 ott. 1001 è stata interpretata come un sintomo dello sgretolamento del suo partito; ma ancora alla fine dell'anno precedente, il vescovo di Asti, Pietro, era stato aspramente ripreso da Silvestro Il per la sua costante fedeltà alla causa di Arduino (cfr. K. e M. Uhlirz, Yahrbilcher, pp. 564 s.). Si noti che, per una coincidenza che non credo casuale, questo transfuga dal fronte comune dei vescovi era titolare della sede, che, prima fra tutte le altre della regione, addirittura nell'anno 962, si era vista attribuire dall'imperatore il "districtus" sulla città e sul territorio circostante.
La morte di Ottone III (23 genn. 1002)apri la strada alla riscossa di A.: appena ventidue giorni dopo la scomparsa dell'imperatore, il 15 febbraio, l'ex marchese di Ivrea fu eletto re d'Italia nella chiesa di S. Michele a Pavia, "et vocatus caesar ab omnibus regnum perambulat universum, regio iure cuncta pertractans" (Arnolfo, Gesta archiepiscoporum Mediolanensium, in Mon. Germ. hist., Scriptores, VIII, Hannoverae 1848, 1, 1 c. 14, p. 10). La designazione all'Impero, se davvero ci fu, ebbe il semplice valore di un auspicio cui dava forza il ricordo di Guido, di Lamberto, di Berengario I, forse non del tutto svanito in un mezzo secolo di dominazione ottoniana. Ma se non diventò imperatore a Roma, questo re eletto con un colpo di mano e per consenso di pochi, nello sbandamento seguìto a quella morte improvvisa ("paucis consentientibus Italiae primatibus, Ottone iam mortuo quasi furtim in regem surrexerat": Landoffo Seniore, Mediolanensis historiae libri quatuor, in Rer. Italic. Script., 2 ed., IV, 2, a cura di A. Cutolo, Bologna 1942, 1. Il C. 19, p. 54), si rivelò subito molto più legato alla tradizione, anche a quella recentissima degli imperatori sassoni, di quanto i suoi trascorsi avrebbero lasciato prevedere. I diplomi che sono rimasti, tutti dei primi quattro anni di regno, contengono le solite concessioni a chiese e a monasteri: conferma dei beni, dei diritto di libera elezione dell'abate e dell'immunità al monastero del Salvatore di Pavia, che era stato fondato dall'imperatrice Adelaide (Arduini Diplomata, a cura di H. Bresslau, in Monumenta Germ. hist., Diplomata regum et impìratorum Germaniae, III, Hannoverae 1900-1903, n. 1); per la Chiesa vescovile di Como, conferma globale dei diritti immunitari di cui godeva, altra conferma del possesso delle chiuse, del ponte e del comitato di Chiavenna, e donazione di una quota del castello di Bellinzona (Arduini Diplomata, nn. 2, 3, 4); concessione alla Chiesa vescovile di Lodi del reddito delle sabbie aurifere dell'Adda, per il tratto corrispondente al territorio dei castelli di Cavenago e Galgagnano (Arduini Diplomata, n. 5); conferma dei beni e del diritto di libera elezione della badessa al monastero del Salvatore di Lucca, dipendente da S. Giulia di Brescia (Arduini Diplomata, n. 7).
Dal gruppo dei diplomi emerge abbastanza chiaramente se non altro il proposito di A. di costituire ai piedi delle Alpi, fra i passi dello Spluga e del Lucomagno, una piccola marca ecclesiastica, mediante lo stesso procedimento che era stato usato altrove da Ottone III. Del resto, la persona medesima del vescovo di Como, arcicancelliere per l'Italia dell'imperatore scomparso, e rimasto in carica anche con il nuovo sovrano (Arduini Diplomata,nn. 1-9), è il simbolo vivente della continuità che, almeno sul piano di certi uffìci, si voleva affermare fra i due regimi.
Ma, con significativo contrappunto, negli stessi diplomi 1-9, la "recognitio" è di mano del cancelliere Cuniberto, che sottoscrive a nome dell'arcicancewere Pietro. Cuniberto è quefl'atciprete della Chiesa di Vercelli che abbiamo visto schierato accanto ad A. nel 997 e quindi coinvolto nel provvedimento di confisca dei beni. E a questo suo fedele di vecchia data, esponente dei gruppi che lo avevano portato al potere, il re conferma il possesso della corte di Desana, generosamente arrotondato dei diritti pubblici connessi alla corte stessa e al territorio circostante, per il raggio di un miglio - il tutto a spese del comitato di Vercelli (Arduini Diplomata, n. 6). Un'altra piccola circoscrizione feu~ dale venne creata da A. a favore del diacono Teudeverto, della Chiesa d'Ivrea (Arduini Diplomata, n. 8). Quanto basta per individuare - accanto a una prima direttiva, più conservatrice, e rispettosa dei diritti acquistati dai vescovi - una seconda direttiva del nuovo sovrano, favorevole piuttosto allo spezzettamento delle vecchie giurisdizioni comitali.
L'arcivescovo di Milano e i vescovi di Cremona, Piacenza, Pavia, Brescia, oltre che quello di Como, anche se controvoglia, riconobbero A.; su di una posizione di aperta ostilità si schierarono invece il marchese Tebaldo di Canossa, l'arcivescovo di Ravenna, i vescovi di Verona, Modena e (naturalmente) Vercelli (Adalboldo, Vita Heinrici II imperatoris, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. hist. Scriptores, IV, Hannoverae 1841, c. 15, p. 687). In pratica, tutta la parte centro-orientale della pianura padana e l'Italia transappenninica sfuggirono fin dal principio al controllo di Arduino. La notizia di Landolfo Seniore circa un'assemblea di grandi italiani che avrebbe avuto luogo a Roncaglia, con la partecipazione dell'arcivescovo di Milano, Arnolfo, e che si sarebbe conclusa con l'elezione a re d'Italia di Enrico di Baviera, è ritenuta priva di fondamento dalla maggior parte degli studiosi.
Gli oppositori di A., con alla testa Leone di Vercelli, non persero tempo. Sia personalmente, come nel caso di Leone e del vescovo di Verona, sia attraverso ambascerie o messaggi segreti, esercitarono pressioni su Enrico (re di Germania dal giugno 1002), perché scendesse in Italia a combattere l'usurpatore. "Heinrice, curre, propera (esclamava nei suoi versi d'occasione il vescovo di Vercelli), te expectant omnia. "Numquam sinas te principe Arduinum vivere" (cfr. Bloch, Beitrdge, p. 121). Ma Enrico, per il momento, si vide costretto a rifiutare, limitandosi ad organizzare una piccola spedizione, concepita come semplice rinforzo alle opposizioni locali. Tale spedizione, alla testa della quale fu posto il, duca Ottone di Carinzia, discese la valle dell'Adige prima del Natale del 1002, prevenuta da A. che occupò la Chiusa di Verona. Un tentativo degli invasori di aggirare la posizione, passando attraverso la Val Sugana, fu neutralizzato dal re d'Italia che ripiegò sulla pianura fra Verona e Vicenza, dove avvenne infine lo scontro, nelle condizioni più favorevoli per A., che colse di sorpresa l'avversario, sconfiggendolo (per la località,in cui fu combattuta questa battaglia - Campo di Fabbrica o Monte Ungarico, a seconda delle fonti (cfr. Hartmann, p. 19 1 n. 3).
Ma, dopo un anno di respiro, A. fu costretto ad affrontare una nuova e più grave minaccia: all'inizio della primavera del 1004, cedendo anche alle ripetute pressioni dei più attivi esponenti della coalizione anti-arduinica, il re di Germania in persona mosse in direzione delle Alpi, A. si precipitò, come l'altra volta, alle chiuse di Val d'Adige, ed Enrico ordinò ai suoi Carinziani, che evidentemente muovevano lungo la vallata superiore del Piave, di operare una diversione sulle chiuse di Brenta, anch'esse presidiate da fedeli di Arduino. Il diversivo riuscì, e la settimana di Pasqua (13-18 aprile) trovò l'esercito di Enrico accampato nella pianura vicentina fra Bassano e Cittadellaa, in procinto ormai di avanzare su Verona, mentre la cospirazione segreta degli avversari interni di A. si trasformava ovunque in aperta rivolta. Non ci fu nemmeno una vera e propria battaglia, perché l'esercito del re d'Italia si dissolse improvvisamente: "Langobardorum unanimitas seiungitur, et ad resistendum discordes, omnes ad propria redire festinant" (Adalboldo, c. 36' p. 692). Il 12 maggio, Enrico era eletto re a Pavia.
La storia di A. negli anni 1004-1013 è difficilmente ricostruibile, data l'estrema scarsezza delle fonti a nostra disposizione (cfr. Hartmann, p. 191 n. 6). Lo stesso episodio dell'assedio della rocca di Sparone (valle di Locana), dove A. si sarebbe rifugiato dopo la sconfitta, è avvolto nell'oscurità più completa. Circa la data e la durata dell'assedio vigono tuttora fra gli studiosi le opinioni più discordanti (cfr. Mor, I, p. 584, n. 21). Ma, vista sullo sfondo della assai meglio conosciuta rivolta pavese del maggio 1004, la difesa di Sparone ha finito coll'occupare, nella seconda parte della vita di A., lo stesso posto predominante che l'uccisione di Pietro di Vercelli aveva avuto nella prima: il mito storiografico risorgimentale di A. ultimo sovrano del regno italico indipendente ha qui il suo vero fondamento (cfr. Gabotto, Un millennio..., pp.26 s.).
Nel gennaio 1005, A. emanò un diploma a favore del monastero di Fruttuaria, che Guglielmo di Volpiano stava allora costruendo (Arduini Diplomata, n. 9, il penultimo, in ordine di tempo, dei suoi diplomi autentici, e l'ultimo che rispecchi un ordinato andamento della sua cancelleria (cfr. Holtzmann, p. 478).
Quando Enrico, dopo un decennio, tornò in Italia, A. non fu in condizione di opporgli resistenza. Suoi legati avrebbero raggiunto il re di Germania a Pavia, sullo scorcio del 1013, per offrirgli la rinuncia definitiva alla corona regia, in nome proprio e dei figli, in cambio della concessione di un comitato (cfr. Thietmar, Chronicon, in Mon. Germ. hist., Scriptores rer. Germanic. in usum schol., Hannoverae 1889, 1. VII, C. 33, p. 188). La proposta non fu accolta e, appena il novello imperatore ebbe varcate le Alpi sulla via del ritorno in patria, A. tentò un'ultima riscossa, assalendo con estrema violenza Vercelli e Novara. Il fronte imperiale in Italia sembrò per un momento vacillare, ma si ricompose rapidamente. Della repressione si incaricarono, questa volta, i grandi italiani rimasti fedeli ad Enrico, mentre da oltr'Alpe giungevano, a sostegno della loro azione, i soliti diplomi di confisca di beni e di redistribuzione degli stessi.
Definitivamente sconfitto, A., " labore confectus et morbo ", si ritirò nel monastero di Fruttuaria, dove morì nel dicembre 1015.
Bibl.: L. G. Provana, Studi critici sovra la storia d'Italia a' tempi del re Ardoino,Torino 1844; H. Pabst, Arduins Geschlecht und Familienverbindungen, in Yahrbiicher des Deutschen Reiches unter Heinrich II, II, Berlin 1864, pp. 458-461 (v. contra, Holtzmann, p. 472); D. Carutti, Della contessa Adelaide, di re Ardoino e delle origini umbertine, in Archivio Storico Italiano, s. 4, X (1882), pp. 293-299; Id., Il conte Umberto I (Biancamano) e il re Ardoino, Roma 1884, pp. 213297 e passim; H. Bloch, Beitràge zur Geschichte des Bischofs Leo von Vercelli und seiner Zeit, in Neues Archiv, XXII (1896), pp. 13-136; F. Savio, Gli antichi vescovi d'Italia dalle origini al 1300 descritti per regioni. Il Piemonte,Torino 1898; R. Holtzmann, Die Urkunden Kónig Arduins, in Neues Archiv, XXV (1899), pp. 455-479; F. Gabotto, Un millennio di storia eporediese (356-1357), in Eporediensia, Pinerolo 1900, pp. 18-31; B. Baudi di Vesme, Il re Ardoino e la riscossa italica contro Ottone III ed Arrigo I, in Studi Eporediesi, Pinerolo 1900, pp. 1 -20; S. Pivano, Stato e Chiesa da Berengario I ad Arduino (888-1075), Torino 1908, pp. 222 ss.; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, IV, 1, Gotha 1916, pp. 127-132 C 160-189; G. Graf, Die weltlichen Widerstdnde in Reichsitalien gegen die Herrschaft der Ottonen und der ersten beiden Salier (951-1056), Erlangen 1936, pp. 23-25, 69 s. e 73-79; G. Falco, A. d'Ivrea, in Albori d'Europa, Roma 1947, pp. 389-406; C. G. Mor, L'età feudale, I, Milano 1952, pp. 450 ss.; Enciclopedia Italiana, IV, pp.143 s.