RAYON
. Fibra tessile artificiale ottenuta trasformando, con processi chimici e meccanici, la cellulosa in filamenti atti a essere utilizzati nell'industria tessile.
Per alcuni caratteri esterni, il rayon somiglia alla seta, dalla quale, però, differisce per la composizione chimica, per la resistenza e per altri caratteri fisici. Tale somiglianza consigliò di chiamarlo, durante l'avviamento dell'industria, seta artificiale, nome che cominciò a essere sostituito dall'attuale nel 1924 per evitare confusione e per mettere in evidenza che questa nuova fibra tessile non è solamente un surrogato, ma possiede proprietà e pregi particolari.
Attualmente si distinguono quattro tipi principali di rayon: rayon alla viscosa, all'acetato, al cuprammonio, alla nitrocellulosa (detto anche rayon Chardonnet), i quali differiscono sia per il processo di fabbricazione, sia per i caratteri del prodotto finito.
La materia prima per la fabbricazione del rayon alla viscosa è ordinariamente la cellulosa di legno; per il rayon all'acetato e per quelli al cuprammonio e alla nitrocellulosa si usano invece i "linters" di cotone che sono costituiti da cellulosa quasi pura.
Il processo di fabbricazione nelle sue linee generali consiste nel trasformare la cellulosa di queste materie prime in sostanze che dànno una soluzione più o meno densa e vischiosa dalla quale si formano i filamenti trafilandola traverso fori sottilissimi e immediatamente dopo facendola coagulare per evaporazione del solvente oppure per azione di apposite soluzioni.
Nel processo alla viscosa la cellulosa viene trasformata in una soluzione detta appunto "viscosa" e in quello alla nitrocellulosa in pirossilina, sostanze che, dopo la formazione del filamento, sono trasformate entrambe nuovamente in cellulosa. Nel processo al cuprammonio la cellulosa viene sciolta in idrato di rame ammoniacale; nel processo all'acetato, invece, la si trasforma in acetato di cellulosa (v. appresso).
Oltre al rayon, che è costituito da filamenti lunghissimi e sottili, riuniti insieme in filati, si fabbricano, con gli stessi processi, filamenti di lunghezza variabile fra 25 e 120 mm., che si presentano sotto forma di fiocchi simili a quelli del cotone e vengono chiamati tessili artificiali a fibra corta (ted. Stapel Faser; ingl. staple fibre). Si fabbricano inoltre filamenti di discreta grossezza e non riuniti in filati, come il crine artificiale, la paglia artificiale, ecc.
Cenni storici. - Il primo ad accennare alla possibilità di fabbricazione di una fibra tessile artificiale fu l'inglese R. Hooke (v.) il quale, nel 4° capitolo del suo libro Micrographia (Londra 1665), parla della possibilità di trasformare in fili adatti alla filatura una materia artificiale da lui veduta, somigliante alla seta. Nel 1734 R.-A. F. de Réaumur nei suoi Mémoires pour servir à l'histoire des insectes, osservando che la seta "non è che gomma liquida che si essicca", esprimeva l'idea che si sarebbe potuto imitarla con gomme o resine.
Nel 1842 L. Schwabe, tessitore di seta, in una comunicazione fatta alla riunione della British Association a Manchester, suggeriva di trafilare delle sostanze speciali attraverso fori sottili.
Ma la possibilità di realizzare queste idee sorse solo in seguito alle scoperte della nitrocellulosa (1845) e al suo impiego nella fabbricazione della celluloide (1865).
G. Andemars, di Losanna, nel 1855, prese in Gran Bretagna il primo brevetto per la trasformazione di una soluzione di nitrocellulosa in filamenti denominati "seta artificiale". Egli trasformava la scorza di gelso, per azione dell'acido nitrico, in nitrocellulosa; scioglieva questa in un miscuglio di alcool ed etere, aggiungendovi qualche pezzo di caucciù; infine traendoli con punte d'acciaio otteneva fili che andavano ad avvolgersi in una spola.
Nel 1862 l'Ozanam (Comptes rendus de l'Académie des sciences, 1862) adoperò per la filatura le filiere, ma per semplici esperienze di laboratorio.
J. W. Swan, già noto per le sue invenzioni nei campi della fotografia e dell'illuminazione elettrica, nel 1880 aveva brevettato l'uso, nelle lampade a incandescenza, in luogo dei filamenti ottenuti per carbonizzazione delle fibre di bambù, dei fili di cotone pergamenato per mezzo dell'acido solforico. Nel 1883 egli brevettò un altro processo col quale si ottenevano filamenti utilizzabili nell'industria tessile, trafilando del collodio nell'acido acetico attraverso una filiera simile a quelle dell'Ozanam. Filati e lavori ottenuti con questo processo furono esposti nel 1885 all'esposizione delle invenzioni di Londra. Lo Swan rimediava alla grande infiammabilità della nitrocellulosa denitrificandola con solfidrato ammonico.
Frattanto, nel 1857 E. Schweitzer aveva scoperto che la cellulosa si scioglie nella soluzione cuproammoniacale che ora porta il suo nome (liquido di Schveitzer). Nel 1881 il Crookes propose di preparare dei fili con una soluzione di cellulosa nel liquido di Schweitzer. Il Weston nel 1884 brevettò un processo analogo.
Il merito di aver portato la produzione della seta artificiale dalla fase sperimentale a quella industriale spetta al conte L.-M.-H. Bernigaud de Chardonnet che all'École Polytechnique era stato allievo del Pasteur quando quest'ultimo eseguiva le sue famose ricerche sulle malattie del baco da seta. Come egli stesso racconta, la prima idea sorse in lui quando, in una visita a una fabbrica di cellulosa, osservò che alcuni dei pezzi che uscivano dalle caldaie avevano la lucentezza della seta. Secondo altri, invece, egli avrebbe scoperto la possibilità di produrre una fibra artificiale per semplice caso mentre manipolava del collodio per uso fotografico.
Lo Chardonnet fece i primi tentativi di fabbricazione nel 1878. Dopo sei anni di ricerche, il 12 maggio 1884, egli presentò all'Académie des sciences una memoria, Sur une matière textile artificielle ressemblant à la soie, che riassumeva tutti gli elementi essenziali dei suoi metodi dal doppio punto di vista chimico e industriale. Il 17 novembre dello stesso anno prese il primo brevetto. In esso diceva di sciogliere della pirossilina (cotone fulminante) in un miscuglio di alcool ed etere aggiungendo a questa soluzione dei cloruri metallici, con azione riducente (cloruro stannoso, ferroso, manganoso, ecc.), una piccola quantità di una base organica ossidabile (chinina, anilina, nicotina, morfina, brucina, cinconina, atropina, caffeina) e una sostanza colorante. Facendo passare tale soluzione in un tubo capillare, tuffato in un liquido opportuno (egli indicava a titolo d'esempio l'acqua), solidificava questo getto sottilissimo sotto forma di filo. Il processo aveva un gravissimo difetto: i filamenti erano infiammabili ed esplosivi. Lo Chardonnet, per ridurne l'infiammabilità sottopose il filato a un processo di denitrificazione trasformando la nitrocellulosa nuovamente in cellulosa.
Lo Chardonnet, costituita nel 1884 a Besançon (suo paese nativo) una società anonima con 6 milioni di capitale per la produzione della sua seta artificiale, lavorò tenacemente perfezionando il processo e creando macchine di filatura che furono il prototipo di quelle attualmente in uso. All'esposizione di Parigi del 1889, egli espose la sua prima macchina e i primi campioni della nuova fibra tessile. L'invenzione suscitò molta curiosità e fu oggetto di un rapporto favorevole da parte della giuria.
Le difficoltà tecniche della nuova industria ebbero per riflesso gravi difficoltà finanziarie, che furono superate con grande coraggio. La lavorazione nei primi tempi era passiva: il capitale della società di Besançon nel 1890 si era ridotto a un milione e mezzo, sicché fu necessario investirvi altri 6 milioni; nel 1894 il corso delle azioni da 500 franchi era sceso a 132. Una seconda fabbrica impiantata dallo Chardonnet in Svizzera dovette esser chiusa per qualche tempo. Tuttavia, la produzione nel 1891 era già arrivata a 12 tonnellate. Nel 1895, superate le difficoltà, fu possibile distribuire un dividendo; la fabbrica Svizzera fu riaperta e se ne impiantarono di nuove: a Tubize nel Belgio, in Italia (Padova), in Inghilterra (Wolston), in Ungheria (Sarvar). All'esposizione di Parigi del 1900 la Società Chardonnet fece un'importante e convincente mostra dei suoi prodotti.
Contemporaneamente venivano introdotti altri processi che miravano a eliminare i principali inconvenienti del processo Chardonnet: alto costo di produzione e infiammabilità del prodotto.
Fr. Lehner - che aveva lavorato nelle fabbriche dello Chardonnet - brevettò nel 1890 e nel 1894 un processo che modificava quello Chardonnet sostituendo un bagno coagulante all'evaporazione delle miscele di alcool ed etere e, con capitali inglesi, impiantò nel 1894 la seconda fabbrica svizzera, quella di Glattburg; ma solo nel 1898 riuscì a ottenere buoni risultati. Nel 1900 le due fabbriche svizzere si fusero e dalla loro unione sorse la Vereinigte Kunstseide Fabriken A. G. di Francoforte sul Meno, che impiantò in Germania nuove fabbriche (Bobingen e Kesterbach sul Meno) e venne ad accordi con la società Chardonnet di Besançon, per la ripartizione dei mercati.
Nel 1890, il chimico francese L.-H. Despeissis creò il processo al cuprammonio, simile a quello brevettato nel 1882 dal Weston per la fabbricazione di filamenti per lampade elettriche. Il Despeissis faceva passare dei fili di cotone attraverso il liquido di Schweitzer che ne trasformava e solubilizzava gli strati esterni; questi strati poi venivano coagulati e nuovamente trasformati in cellulosa per mezzo di un bagno acido, diventando lucidi come la seta. Dopo la morte prematura del Despeissis il brevetto cadde in dominio pubblico. Il processo fu ripreso con fortuna da M. Frémery e J. Urban della Rheinische Glühlampen Fabrik Dr. Max Frémery e C. di Oberbruch presso Aquisgrana, i quali trovarono che era necessario operare a bassa temperatura per avere una soluzione stabile di cellulosa nel liquido cuproammoniacale e brevettarono questo e altri perfezionamenti nel 1897 a nome di H. Pauly. Nel 1899 gl'inventori mutarono la ragione sociale della loro società in Vereinigte Glanzstoff Fabriken A. G. Nel 1902 lo stesso gruppo fondò a Parigi la società La soie artificielle con stabilimenti a Givet e Izieux, in Austria (Sankt Pölten) e in Inghilterra (Flint). Per il suo minor costo di produzione, il rayon al cuprammonio fu un serio concorrente della seta Chardonnet finché non venne sul mercato il rayon alla viscosa, ancor più economico.
Dopo essere stato abbandonato dalla Glanzstoff il processo al cuprammonio poté riguadagnare in parte il terreno perduto grazie al metodo di filatura per stiramento, creato da E. Thiele e ai tenaci sforzi di cui lo fece oggetto per 15 anni la società J. P. Bemberg.
Il processo alla viscosa nacque dagli studî compiuti dal 1882 in poi da Ch. Fr. Cross (v.), E. I. Bevan e Cl. Beadle sull'alcalicellulosa e la mercerizzazione. Essi scopersero che l'alcalicellulosa, trattata con solfuro di carbonio, si trasformava in xantogenato di cellulosa, che si scioglieva nell'acqua formando una soluzione molto vischiosa dalla quale si poteva rigenerare la cellulosa. La scoperta della viscosa risale al 1891; i primi brevetti sono degli anni 1892-96. Va ricordato che, secondo il Wurtz, lo Chardonnet fin dal 1892 avrebbe fabbricato dei fili di viscosa. Nel 1895 C. H. Stearn (che nel 1877 era stato collaboratore dello Swan) e C. Topham sperimentarono la filatura della viscosa per la fabbricazione dei filamenti delle lampade elettriche, nell'interesse della Zurich Incandescence Lamp Co., nonché per la fabbricazione di reticelle per incandescenza a gas.
I buoni risultati ottenuti da Cross e Bevan e dallo Stearn aprirono la via allo sfruttamento del processo nell'industria tessile. Venne costituito il Viscose Spinning Syndicate, il cui primo impianto sperimentale sorse a Kew (Londra) presso gl'impianti della fabbrica zurighese di lampade; e fu in questo stabilimento che il Topham creò, nel 1900, la centrifuga di filatura. Lo stabilimento fu acquistato nel 1904 dalla ditta Samuel Courtaulds Ltd., specializzata in affari tessili, che lo trasferì a Coventry. In Germania, invece, nel 1899 G. von Henkel Donnersmark, che era stato il primo acquirente dei brevetti del sindacato, costituì la Kunstseiden und Acetatwerke a Sydowsaue (presso Stettino) che, dopo aver urtato contro grandi difficoltà, nel 1911 cedette lo stabilimento alla Glanzstoff, sotto la quale la fabbricazione prese rapidamente un grande sviluppo.
In Francia, in seguito alla comparsa della viscosa all'esposizione di Parigi del 1900, sorse la Société Française de la Viscose, che fu la prima a produrre con profitto il rayon viscosa. Nel 1903 essa trasformò in fabbrica di viscosa una fabbrica di sedie di Arques-le-Bataille (Dieppe) riuscendo, però, a iniziare la produzione su scala industriale solo nel 1905.
In America i primi tentativi di fabbricazione della viscosa non portarono che a delusioni; sicché nel 1904 la licenza di fabbricazione fu venduta per soli 2500 dollari alla Viscose Co. of America.
Nel 1907 la maggior parte delle fabbriche di rayon alla viscosa era ancora passiva e frattanto il primo brevetto di Cross e Bevan era caduto in dominio pubblico. Poco dopo, però, l'industria divenne enormemente redditizia e nel 1912 il rayon alla viscosa cominciò a essere prodotto in grande quantità.
Il processo all'acetato, che è stato l'ultimo a divenire industriale, ebbe come punto di partenza i lavori dello Schützenberger e del Naudin, i quali ottennero un acetato di cellulosa scaldando della carta da filtro con acido acetico in un tubo ermeticamente chiuso, a temperatura inferiore a 200°. La fabbricazione industriale dell'acetato di cellulosa divenne possibile quando, nel 1879, il Francimont introdusse l'uso dell'acido solforico come catalizzatore. Cross e Bevan, fra il 1890 e il 1894, fecero i primi tentativi di utilizzazione industriale. Nel 1894 essi brevettarono un tetracetato di cellulosa solubile nel cloroformio, che avrebbe potuto, secondo gl'inventori, sostituire il collodio nella maggior parte delle sue applicazioni. I loro brevetti furono ceduti alla società sopra ricordata, di G. Donnersmark, che mise in commercio un prodotto denominato Cellestrom.
Nel 1901 l'Eichengrün riuscì a trasformare la cellulosa non idrolizzata in triacetato di cellulosa solubile nel cloroformio e insolubile nell'acetone. Miles ottenne direttamente un nuovo acetato solubile nell'acetone. Gli acetati ottenuti da Eichengrün e da Miles si distinguevano da quelli fino allora ottenuti per la loro solubilità in solventi a buon mercato e non velenosi e per la grande stabilità. I fratelli Dreyfus di Basilea nel 1911 ottennero per i primi un acetato insolubile nel cloroformio, ma solubile in acetone.
Fino alla guerra mondiale, l'industria del rayon, oltre che dalle difficoltà tecniche, fu ostacolata dalla preferenza dei consumatori per le fibre tessili naturali, le quali oltre a essere più resistenti avevano caratteristiche costanti e perfettamente note. La "seta artificiale" non aveva che pochi sbocchi, particolarmente nella fabbricazione delle trecce per cappelli, delle passamanerie, dei merletti, dei nastri, articoli tutti per i quali la resistenza del tessile non è un requisito di primaria importanza. In queste condizioni, le fabbriche lavoravano quasi tutte su basi più sperimentali che industriali, con produzione limitata e poco costante. Malgrado queste difficoltà, la produzione mondiale, dai 12.000 kg. del 1891, salì a 1.000.000 di kg. nel 1900, a 9.000.000 nel 1912.
Il successo industriale del processo alla viscosa aprì finalmente la via a una grande e rapida estensione della produzione. Ma lo scoppio della guerra si ripercosse sfavorevolmente sulla nuova industria, pur senza arrestarne del tutto l'attività. Alcuni dei migliori impianti furono occupati per fini bellici, altri distrutti, altri ancora trasformati. Contemporaneamente, però, la mancanza di fibre tessili naturali spinse a tentare la fabbricazione di nuove fibre tessili artificiali, fra le quali le "fibre corte" che la Germania utilizzò largamente. In tal modo la produzione, contratta in alcuni paesi, sviluppata in altri, dagli 11.000.000 di kg. del 1913 salì ai 16.000.000 del 1918.
Per l'affinità fra la tecnica delle due lavorazioni, l'esperienza compiuta con abbondanza di mezzi nel periodo bellico nel campo degli esplosivi poté essere utilizzata nella fabbricazione dei tessili artificiali.
Esempio tipico fu la messa a punto del processo all'acetato. Durante la guerra crebbe fortemente il consumo di acetato di cellulosa sotto forma di vernice per le ali degli aeroplani. L'acetato solubile in acetone di H. Dreyfus venne adottato in Inghilterra a preferenza degli altri e quel governo diede modo al Dreyfus d'impiantare a Spondon degli stabilimenti per produrlo su vasta scala. Finita la guerra, per trovare un nuovo sbocco adeguato alla vastità degl'impianti, fu avviata la produzione del rayon all'acetato, e la società si trasformò nella British Celanese.
Contemporaneamente al Dreyfus, la Société Chimique des Usines du Rhône in Francia studiò la fabbricazione del rayon all'acetato, giungendo anch'essa a produrlo con la filatura a secco, cioè per evaporazione del solvente volatile.
Dopo la guerra, nel periodo dell'inflazione monetaria, forti capitali affluirono nell'industria del rayon, attratti dagli alti profitti delle società più vecchie. Sorsero così molti impianti nuovi e la produzione del rayon si sviluppò fortissimamente, superando presto i 100.000.000 di kg. e diventando quintupla di quella della seta naturale, della quale da principio non aveva voluto essere che un surrogato.
Fabbricazione.
Processo alla viscosa. - In questo processo, la cellulosa (C6H10O5)n, che giunge alla fabbrica di rayon sotto forma di cartoni, viene dapprima immersa per 1-2 ore in una soluzione al 18% di soda caustica. In tal modo le emicellulose che accompagnano le cellulose vengono sciolte dalla soda e la cellulosa si trasforma in alcalicellulosa. Questa prima operazione generalmente si compie nelle presse di bagnatura. Quando i fogli sono bene imbevuti di soda, vengono spremuti in una pressa idraulica per eliminare l'eccesso di soda, che viene purificata per dialisi e nuovamente utilizzata. I cartoni, dopo la spremitura, vengono sminuzzati e ridotti in massa fioccosa nei disintegratori. Dopo alcune ore di permanenza in questi apparecchi, l'alcalicellulosa viene portata in camere nelle quali rimane per circa tre giorni a temperatura costante; durante questo riposo subisce la maturazione. A maturazione finita, l'alcalicellulosa viene trattata per 2½-3 ore con solfuro di carbonio nei baratti; in tal modo essa si trasforma in xantogenato di cellulosa, assumendo consistenza e aspetto gelatinoso e color arancione. Lo xantogenato viene trattato con una soluzione di soda caustica nei mescolatori e in tal modo trasformato in viscosa che subisce anch'essa una maturazione, a bassa temperatura; verso la fine della maturazione si pone sotto vuoto per liberarla dall'aria che contiene e di parte del solfuro di carbonio; infine si filtra ripetutamente e si trasforma in filamenti trafilandola attraverso filiere immerse in un bagno di filatura che, generalmente, è costituito da acido solforico, solfato di sodio e magnesio, con piccole aggiunte di solfato di zinco; in qualche caso anche di glucosio.
I filamenti così ottenuti subiscono poi la torcitura; col metodo della filatura centrifuga immediatamente dopo l'uscita dalla filiera, durante il processo di coagulazione del filo da parte del bagno di filatura; col metodo della filatura parallela dopo essere stati avvolti su bobine e su queste lavati ed essiccati. Sia con l'uno sia con l'altro metodo i filati, per mezzo dell'aspatura, vengono messi in matasse, poi liberati dalle ultime tracce di zolfo per mezzo di un bagno di soda e solfuro sodico, lavati ripetutamente, sbiancati e dopo altri trattamenti e lavaggi essiccati e impaccati.
Reaziomi chimiche. - Dal punto di vista chimico, il processo alla viscosa si compendia nelle seguenti reazioni (la cellulosa figura nelle equazioni con la sua formula più semplice):
1. Trasformazioni della cellulosa in alcalicellulosa:
2. Trasformazione dell'alcalicellulosa in xantogenato di cellulosa:
3. Trasformazione dello xantogenato in viscosa:
4. Rigenerazione della cellulosa durante la filatura:
Materia prima. - La massima parte del rayon alla viscosa è fabbricato con cellulosa di legno; in rari casi si usano linters di cotone.
La cellulosa adatta per la fabbricazione del rayon alla viscosa ha questa composizione media: cellulosa 88-89%, emicellulose 10-11%. Le emicellulose non devono superare i limiti indicati; esse infatti debbono essere eliminate, con maggior consumo di soda, nel processo di fabbricazione della viscosa. L'analisi non dà criterî sufficienti per giudicare se una cellulosa è più o meno adatta alla fabbricazione del rayon. Questa attitudine si determina sperimentalmente, dapprima in laboratorî attrezzati come una piccola fabbrica di rayon, poi nella lavorazione su scala industriale; gl'inconvenienti che si riscontrano vengono poco a poco eliminati adattando i metodi di fabbricazione a quel determinato tipo di cellulosa. L'uniformità della cellulosa ha, quindi, una grandissima importanza per le fabbriche di rayon; una volta compiuto il suddetto lavoro di adattamento, che è lungo e costoso, ciascuna fabbrica cerca di approvvigionarsi sempre di cellulosa della stessa provenienza. Inoltre, anche fra le diverse partite di cellulosa della stessa provenienza, le fabbriche fanno tagli e miscele, per raggiungere la massima uniformità possibile.
La cellulosa per rayon arriva alle fabbriche sotto forma di cartoni di 60 × 40 cm., con 2-3 mm. di spessore. Essa è fabbricata con speciali cure da legno di abete o di pino generalmente col processo al solfito, in qualche raro caso col processo alla soda (v. carta).
Si produce anche cellulosa dalla quale, con speciali trattamenti, sono state quasi completamente eliminate le emicellulose.
Si è provato a usare cellulosa di sparto, di paglia, di steli di granturco, ecc.; ma la loro utilizzazione ha urtato contro serie difficoltà.
Fabbricazione dell'alcalicellulosa. - Questa prima fase del processo alla viscosa consiste, come si è visto, nell'immergere per 1-2 ore i fogli di cellulosa in una soluzione al 18% di soda caustica alla temperatura di 18-20°, alla quale si ottiene un prodotto con la viscosità più elevata (come risulta dal diagramma della fig. 1) e poi nello spremere dai fogli l'eccesso di soda. Per ogni 100 kg. di cellulosa, dopo l'imbibizione e la spremitura, si ottengono 320-330 kg. di alcalicellulosa.
Qualche fabbrica si serve ancora di panieri per immergere i fogli di cellulosa nella soluzione di soda caustica. Generalmente, invece, l'operazione si compie in un apparecchio che risulta dalla combinazione della vasca di bagnatura con la pressa di spremitura e si chiama pressa di bagnatura. È sostanzialmente una pressa idraulica orizzontale (vedi tavola CLXXXIX), munita di una serie di piatti di lamiera, disposti verticalmente dentro la vasca che contiene la soluzione di soda, in modo da dividerla in tante piccole camere parallelepipede entro le quali si dispongono, a mano, i fogli di cellulosa. Le lamiere sono sostenute da rulli che scorrono su apposite guide e sono legate l'una all'altra per mezzo di catene. Quando la cellulosa ha assorbito una quantità sufficiente della soluzione di soda, si fa uscire dalla vasca la rimanente soluzione e facendo agire lo stantuffo della pressa si spremono i fogli di cellulosa, spingendo nello stesso tempo fogli e piatti di lamiera in un compartimento dal quale, allontanati i piatti l'uno dall'altro, i fogli di cellulosa si fanno cadere in vagoncini, che li portano ai disintegratori; infine per mezzo delle catene si riportano i piatti alla posizione di caricamento e s'inizia una nuova operazione. Esistono presse nelle quali i piatti coi fogli che contengono possono essere estratti dalla pressa e pesati per assicurarsi che abbiano assorbito la giusta quantità di soluzione e anche presse a scarico automatico, nelle quali i fogli di cellulosa vengono scaricati direttamente nei disintegratori.
La soluzione di soda caustica, che nel trattamento della cellulosa si carica di emicellulosa e di altre impurità, viene purificata e nuovamente utilizzata. Per la purificazione sono stati tentati diversi metodi: è molto usato quello osmotico di L. Cerini. Secondo questo metodo le impurità vengono separate per dialisi, attraverso tele di cotone mercerizzato e trattato a caldo con una soluzione resinosa: queste membrane resistono per 8-12 mesi. Si ricupera così il 90% della soda caustica, sotto forma di soluzione al 10% circa, che contiene solo lo 0,035% di emicellulosa.
Si usa ancora la purificazione della soluzione per precipitazione delle emicellulose. La flocculazione spontanea di queste, che è lentissima, viene accelerata quando la soluzione contiene ossidi di ferro e di alluminio e sali di rame in presenza di soluzione colloidale di cellulosa. Altri invece, trattano la soluzione con acido carbonico; si forma carbonato di soda che cristallizza, mentre le emicellulose restano in soluzione.
Quando, invece di cellulosa, si usano linters di cotone che non contengono emicellulose, l'alcalicellulosa può essere fabbricata molto semplicemente, eliminando le presse di bagnatura e facendo cadere in pioggia la soluzione di soda sui linters nei disintegratori. L'economia che in questo modo si realizza sul costo di lavorazione è molto inferiore, però, al maggior costo della materia prima: sicché questo metodo è usato solo quando si vuole ottenere rayon di alta tenacità (del 25% circa superiore alla normale).
Disintegrazione dell'alcalicellulosa. - Prima di subire la maturazione, l'alcalicellulosa deve essere finemente suddivisa e ridotta in una massa molto porosa e soffice (che non deve pesare più di 225-235 gr. per litro) senza di che si hanno difficoltà nel trattamento con solfuro di carbonio, nella filtrazione e nella filatura della viscosa.
Un tempo per queste operazioni si usava la molazza; attualmente, invece, s'impiegano apparecchi, per molti rispetti simili ad alcuni tipi di impastatrici di pane, chiamati disintegratori (fig. 2). Sono sostanzialmente costituiti di una vasca, munita di coperchio per evitare l'accesso dell'aria e la carbonatazione della soda dell'alcali e di una camicia entro la quale circola della salamoia per il raffreddamento. Dentro la vasca girano con velocità diversa delle braccia o eliche dentate; sul fondo di essa è disposta una sella di acciaio munita di denti a punta di diamante. L'alcalicellulosa passando fra le braccia e la sella, viene sminuzzata e rimescolata; si sviluppa calore che viene assorbito dalla salamoia attraverso le pareti della vasca; e si regola la circolazione della salamoia in modo che la temperatura dell'alcali non aumenti. L'operazione dura circa 3 ore; quando è finita si scarica l'alcalicellulosa nei recipienti di maturazione. La composizione dell'alcalicellulosa è, in generale, la seguente: cellulosa 27%, soda caustica 15%.
Maturazione dell'alcalicellulosa. - La maturazione facilita l'attacco dell'alcalicellulosa da parte del solfuro di carbonio; e anche la dissoluzione dello xantogenato che se ne ottiene. Inoltre, da essa dipende la viscosità della viscosa, che si ottiene dall'alcalicellulosa. La viscosità della viscosa diminuisce col crescere della durata della maturazione dell'alcalicellulosa, come si rileva dal diagramma della figura 3 e con l'aumentare della temperatura a cui l'aleali è mantenuta durante la maturazione stessa.
Non si sa con esattezza quali fenomeni si svolgano durante la maturazione. Secondo il Rassow parte della cellulosa si trasforma in emicellulosa. Altri hanno osservato che l'alcalicellulosa assorbe ossigeno.
Per la maturazione, l'alcalicellulosa viene posta in recipienti di lamiera di forma cilindrica o parallelepipeda, muniti di coperchio, per evitarne la carbonatazione, di capacità variabile, condotti in camere mantenute a temperatura costante, fra i 18° e 20°.
Preparazione dello xantogenato di cellulosa e della viscosa. - Il trattamento con solfuro di carbonio dell'alcalicellulosa, che ha subito la maturazione, si compie ordinariamente nei baratti: lo xantogenato che in essi si forma viene poi sciolto in una soluzione diluita di soda nei mescolatori. Però sono in uso anche altri apparecchi, impastatori-mescolatori, nei quali si compiono le due operazioni.
I baratti (v. tav. CLXXXIX) sono tamburi a sezione circolare oppure esagonale, raffreddati con camicia d'acqua, che ruotano lentamente (2½-3 giri al minuto) e sono dotati di tubazioni per l'introduzione del solfuro di carbonio e l'uscita dei gas. L'alcalicellulosa viene caricata per mezzo di uno sportello, che porta un vetro di spia. Hanno capacità variabile: se ne costruiscono che contengono una, due, quattro e più volte 330 kg. di alcalicellulosa (pari a 100 kg. di cellulosa originaria). Accanto al baratto si trova un misuratore di solfuro di carbonio, dal quale il solfuro scende per gravità nel baratto. Siccome il solfuro di carbonio (che bolle a 46°) sviluppa già a temperatura ordinaria vapori che, con l'aria, formano miscele esplosive, i baratti vengono disposti in locali refrigerati e ben ventilati e il solfuro è immagazzinato in altri locali isolati, entro serbatoi nei quali l'aria è sostituita da azoto oppure da anidride carbonica o da acqua, essendo il solfuro più pesante dell'acqua e praticamente insolubile in essa.
L'alcalicellulosa viene introdotta nel baratto allo stato secco: in queste condizioni la reazione col solfuro di carbonio si compie meglio e il filamento di rayon riesce più tenace. Inoltre, se l'alcalicellulosa contiene dell'acqua, questa può sciogliere lo xantogenato che si forma per primo, ricoprendo la rimanente alcalicellulosa di uno strato vischioso, che ostacola la penetrazione del solfuro. Caricata l'alcalicellulosa e chiusa la porta di caricamento, si mette in moto il baratto facendo circolare l'acqua di raffreddamento, fino a tanto che la temperatura dell'alcalicellulosa è scesa a 16-20°; poi s'introducono lentamente (in circa 20 minuti) 33 kg. (circa 26 l.) di solfuro di carbonio ogni 100 kg. di cellulosa. Alcuni usano estrarre l'aria dal baratto prima dell'introduzione del solfuro di carbonio; altri la spostano introducendovi anidride carbonica oppure azoto. Col procedere dell'operazione, la temperatura della massa si eleva (fino a raggiungere i 27°) mentre le fibre di cellulosa spariscono e si formano grumi che prendono un colore arancione. Dopo 2-3 ore l'operazione è finita; allora si fa uscire l'eccesso di solfuro, spostandolo con un gas inerte oppure facendo il vuoto nel baratto, e si scarica lo xantogenato nei mescolatori, che sono disposti in un locale a livello più basso di quello dei baratti.
I mescolatori più comuni sono cilindri di lamiera ad asse orizzontale oppure verticale muniti di agitatori (figg. 4 e 5). In essi si fa cadere lo xantogenato, dopo avervi introdotto il quantitativo di soluzione di soda (generalmente al 3-4% di NaOH) in cui esso deve essere disciolto. L'operazione si compie alla temperatura di circa 15° e dura 4½-5 ore e anche più. Per abbreviarla, alcuni usano apparecchi del tipo di quelli della fig. 5 che rompono più facilmente i grumi, serviti da pompe-disintegratori che oltre a far circolare le masse rompono anch'esse i grumi. Comunque è molto importante che la soluzione sia spinta al massimo grado; presenza di particelle o disciolte o incompletamente sciolte costituiscono una difficoltà notevole per la filtrazione della viscosa.
Attualmente si preferiscono impastatori-mescolatori (pétrisseurs-dissolveurs, fig. 6), nei quali si compie sia il trattamento dell'alcalicellulosa con solfuro di carbonio sia la dissoluzione dello xantogenato. Sono costituiti da una cassa a chiusura ermetica, provvista di camicia per la circolazione dell'acqua di raffreddamento e dentro la quale sono montate delle braccia a Z girevoli, simili a quelle dei disintegratori, dalle quali però differiscono per la mancanza di denti. Oltre a queste braccia, nella parte superiore della cassa è disposto un agitatore a elica. Per il fatto che il rimescolamento è più energico che nei baratti, la formazione di grumi è molto ridotta e, per conseguenza, il trattamento dell'alcalicellulosa col solfuro richiede un tempo molto minore (ore 2-2½) che può essere ridotto a circa 45 minuti se si tollera che la temperatura salga a 28-30°, come è possibile fare senza danno quando il rimescolamento è energico.
La soluzione ottenuta sciogliendo lo xantogenato nella soda caustica diluita è la viscosa. Per ottenere un prodotto di caratteristiche costanti si mescolano accuratamente insieme parecchie partite di viscosa provenienti da diverse operazioni. Questa operazione si compie in serbatoi, detti omogeneizzatori, per lo più cilindrici, che generalmente hanno volume tale da contenere la quantità di viscosa corrispondente a 2000-3000 kg. di cellulosa, e cioè il prodotto di 20-30 operazioni. I serbatoi sono muniti di camicia, nella quale è posta in circolazione una soluzione refrigerante; essi portano, inoltre, nel loro interno un agitatore a palette.
Maturazione e filtrazione della viscosa. - Prima di trasformarla in filamenti, la viscosa viene fatta maturare, mantenendola per alcuni giorni (3-4) a 12-15° e durante questo tempo la si filtra almeno 2 volte. Tra i fenomeni che avvengono durante la maturazione della viscosa va notata la variazione della viscosità la quale, come si rileva dal diagramma della fig. 7, diminuisce fortemente nei primi due giorni, per tornare ad aumentare lentamente per alcuni giorni e poi rapidamente, quando si approssimi la coagulazione spontanea, la quale avviene (nelle condizioni per le quali è stato tracciato il diagramma) al 16° giorno, ma può anche avvenire dopo un periodo molto più lungo (anche 70 giorni), se variano la concentrazione della soluzione di soda caustica e la temperatura alla quale la maturazione si compie (fig. 8).
Non si conoscono con esattezza i processi chimici che avvengono durante la maturazione della viscosa. L'ipotesi più generalmente ammessa è che avvenga una polimerizzazione della viscosa, la quale passerebbe dalla costituzione più semplice sopra indicata, a costituzioni più complesse:
con liberazione ogni volta di solfuro di carbonio e di soda caustica, che reagirebbero fra loro producendo dei carbonati e solfocarbonati di sodio.
La maturazione della viscosa si compie in serbatoi cilindrici di lamiera muniti di tubi di livello e di tubazioni per l'immissione e lo scarico sia della viscosa sia dell'aria. La viscosa viene introdotta dalla parte superiore del serbatoio sopra un cono che la guida verso le pareti di esso, per evitare l'incameramento d'aria durante il riempimento.
La filtrazione normalmente si compie su ovatta o su spesse tele di cotone in filtri-presse. Le singole filtrazioni avvengono o a mezzo di aria compressa, per cui la viscosa contenuta in un serbatoio viene travasata in un altro, dopo aver attraversato i filtri; o a mezzo di pompe. Le diverse filtrazioni avvengono nel primo periodo della maturazione. Nel secondo periodo, che è anche quello di maggior durata, la viscosa viene conservata in serbatoi, su cui si fa il vuoto (almeno 70 cm. di mercurio) per eliminare le bolle d'aria, che per la viscosità della soluzione, a pressione ordinaria, non verrebbero alla superficie, e il solfuro di carbonio che si libera durante la maturazione.
La viscosa è una soluzione che ha odore caratteristico, peso specifico medio 1,12, colore che varia dal giallo rosso al bruno secondo il metodo di preparazione e la durata della maturazione. La sua caratteristica viscosità dipende dalla natura della cellulosa, dalle condizioni nelle quali è stata preparata l'alcalicellulosa e dalla maturazione sia di questa sia della viscosa, ecc.
Al microscopio si può vedere che essa contiene minutissime particelle di carbonati di calcio e di magnesio, solfuro di ferro, ecc. La composizione della viscosa è generalmente la seguente: cellulosa 7%, soda caustica 6-7%.
Va ricordata però la tendenza moderna di filare viscose provenienti da alcalicellulose non invecchiate (a breve maturazione), ciò che, come si è visto, porta a filare viscose ad alta viscosità. La ragione sta nel fatto, verificato sperimentalmente, che un aumento di viscosità corrisponde a un aumento nella resistenza del filato alla rottura. È ovvio che, d'altra parte, vi sono dei limiti pratici all'aumento della viscosità: infatti la viscosa, per arrivare ad essere trasformata in filo, deve percorrere tubazioni, attraversare strati filtranti, essere infine spremuta dai fori piccolissimi delle filiere, per cui sono necessarie delle pressioni motrici (dovute ad aria compressa o a pompe), che devono essere contenute in limiti non troppo elevati. Si compensa perciò l'aumento di viscosità derivante da una breve maturazione dell'alcali, col diminuire il contenuto di cellulosa nella viscosa (altro elemento da cui dipende la viscosità): e si hanno viscose a basso tenore di cellulosa (5-6%), ma ad alta viscosità specifica.
Ora, se attraverso lo stesso foro di una filiera si fanno passare nell'unità di tempo quantità uguali di due soluzioni di pari viscosità, delle quali, però, la prima contiene una quantità di cellulosa doppia di quella contenuta nella seconda, a coagulazione avvenuta, il filamento fornito dalla prima avrà un peso doppio e la stessa lunghezza (titolo doppio) di quello della seconda.
Si conclude da quanto precede che l'impiego di viscose a basso contenuto di cellulosa e ad alta viscosità è particolarmente adatto per la filatura di filamenti molto fini e ad alta resistenza.
Da quanto precede si deduce anche che la viscosità è uno degli elementi della viscosa, che maggiormente influisce sulla qualità del filato; donde la necessità che nella lavorazione essa sia mantenuta entro limiti molto ristretti: le deviazioni della viscosità dal valore medio stabilito si correggono mediante piccole variazioni nella temperatura delle stufe di maturazione dell'alcalicellulosa.
Filatura della viscosa. - La viscosa viene filata a umido, sia col metodo della filatura parallela, su bobine, sia con quello della filatura centrifuga; quest'ultimo anzi è stato creato appunto per la viscosa. La filatura parallela è applicata sia col metodo delle piccole bobine, sia con quello delle grosse bobine. Per maggiori notizie sui metodi e le macchine di filatura v. oltre.
Bagni di coagulazione. - La soluzione che esce dalla filiera dev'essere dapprima trasformata in una massa plastica, e successivamente trasformata in cellulosa idratata. Se queste trasformazioni non si succedono troppo bruscamente, il filamento può nel primo periodo essere stirato, diventando più brillante e più tenace.
La composizione del bagno di coagulazione ha quindi una grande influenza sulle caratteristiche del filamento.
Il cloruro di sodio e l'alcool coagulano la viscosa, precipitando inalterato lo xantogenato di cellulosa. Invece, gli acidi minerali decompongono la viscosa, dando cellulose e solfuro di carbonio e acido solfidrico. Il solfato di ammonio coagula la viscosa più energicamente del cloruro di sodio, perché reagisce con la soda caustica che sottrae alla viscosa stessa; lo xantogenato coagulato si decompone poi in cellulosa e la decomposizione può essere accelerata aggiungendo al bagno un acido diluito, p. es., acido solforico. Il solfato di zinco, il solfato di magnesio e quello di cadmio dànno xantogenati insolubili.
I primi bagni di coagulazione impiegati nella fabbricazione del rayon viscosa erano soluzioni di cloruro ammonico oppure di solfato ammonico; a questi bagni si faceva seguire un secondo bagno acido. Furono poi introdotte delle soluzioni acquose di solfati, addizionate di acido solforico.
I bagni moderni contengono generalmente solo solfato di sodio, acido solforico e solfato di zinco nelle proporzioni seguenti (riferite ad 1 kg. di bagno):
L'aggiunta di glucosio (oppure di glicerina, ecc.) ha per effetto un aumento della tenacità e del potere ricoprente dei fili e inoltre una riduzione della formazione di zolfo e, igroscopico com'è, ostacola la cristallizzazione del solfato di sodio, che può esser causa di rottura dei filamenti.
Una soluzione di cloruro di sodio a concentrazione dal 3 al 10% si impiega invece per giudicare il grado di maturazione della viscosa.
Le reazioni chimiche che avvengono durante la filatura sono quelle, di cui alla formula 4 di pag. 884.
Se, ad es., consideriamo una viscosa avente la composizione seguente:
per ottenere un kg. di filato secco occorre filare 1000/70 = kg. 14,285 di viscosa.
Questo quantitativo di viscosa è composto di kg. 1 di cellulosa secca, kg. o,928 di soda e kg. 12,357 di acqua e prodotti secondarî.
Se ne deduce che l'introduzione del suddetto quantitativo di viscosa nel bagno distrugge kg. 0,9285•98/80 = kg. 1,137 di acido solforico e produce kg. 1,137•144/80 = kg. 1,647 di solfato di sodio e kg. 0,9285•36/80 = kg. o,418 di acqua; sicché in definitiva l'acqua introdotta nel bagno è data da 12,3565+0,418 = kg. 12,7745.
Durante la filatura intervengono però altre cause di alterazione del bagno; le bobine dopo filate restano imbevute di acido, che, come si vedrà in seguito, viene perduto nel lavaggio del filato stesso, con che viene ad aumentare il consumo di acido solforico; inoltre parte dell'acqua esuberante si evapora spontaneamente dalle bacinelle di filatura, dalle vasche di preparazione del bagno e parte viene trattenuta dalle bobine acide.
Dalle considerazioni precedenti risulta chiara la profonda alterazione che il procedimento di filatura produce nella composizione del bagno di filatura: essa si può riassumere sommariamente come segue:
1. distruzione di parte dell'acido solforico presente nel bagno, con creazione di solfato di sodio stechiometricamente equivalente;
2. diluizione del bagno stesso per la notevole introduzione di acqua. Perché il processo di filatura riesca economicamente conveniente, il bagno una volta impiegato non può essere eliminato; su di esso si devono pertanto eseguire delle correzioni, che riportandolo alla composizione originale, lo rendano atto al reimpiego. Queste correzioni debbono essere effettuate mediante aggiunta dell'acido solforico in difetto e mediante eliminazione del solfato di sodio e dell'acqua eccedenti. Si può eliminare il solfato di sodio, ad es., mediante cristallizzazione con raffreddamento del bagno; e si può eliminare l'acqua mediante evaporazione del bagno in apparecchi a vuoto.
Per contro, si lasciano nei bagni alcuni prodotti secondarî della maturazione della viscosa, che a poco a poco vi si raccolgono e che esercitano un'influenza benefica sulla filatura, come l'esperienza ha dimostrato.
I bagni provenienti dai filatoi, dopo essere stati riportati alla composizione normale e filtrati su fibre o trucioli di legno, vengono pompati in serbatoi di legno rivestiti di piombo e muniti di apparecchi di riscaldamento che li mantengono a 40-50°; da questi serbatoi scendono per gravità ai filatoi, dopo essere stati filtrati su silice oppure su paste di legno in filtri appositi (fig. 9).
Lavaggio, desolforazione, sbiancatura e rifinitura del rayon alla viscosa. - Il rayon alla viscosa, quando esce dal filatoio, è impregnato di bagno di filatura acido ed è giallastro, principalmente perché contiene dello zolfo proveniente dai tiocarbonati e da altri prodotti secondarî che si formano durante il trattamento con solfuro di carbonio e durante la maturazione. Bisogna quiridi lavarlo con acqua, per togliergli l'acidità che in breve tempo rovinerebbe la seta, e desolforarlo. Il lavaggio avviene, nella filatura a bobine, mentre il filato è ancora avvolto sulla bobina di filatura; nella filatura a centrifuga nello stesso cestello in cui il filato è raccolto durante la filatura, o dopo che il filato è stato passato in matassa. Lo zolfo viene eliminato in entrambi i sistemi di filatura generalmente dopo aver messo il rayon in matasse, trattandolo per 15-20 minuti con una soluzione all'1% di solfuro di sodio alla temperatura di 40-50° in vasche di ferro oppure in apparecchi continui. Il solfuro reagendo con lo zolfo forma dei polisolfuri solubili; esso, inoltre, scioglie una parte delle emicellulose contenute nel filo.
All'uscita dal bagno di desolforazione il rayon è brillante, ma di colore grigio-bluastro; lo si lava e poi lo si sbianca con una soluzione di ipoclorito di soda (contenente o,05-0,10% di cloro), poi lo si lava ancora con una soluzione allo 0,5-0,6% di acido cloridrico; e infine con acqua pura. Dopo questi lavaggi, alcuni usano trattare il rayon con una soluzione diluita di sapone di Marsiglia oppure di solforicinato di soda, che serve a raddolcirlo. Infine si elimina dal rayon l'eccesso d'acqua mediante centrifugazione e lo si essicca in essiccatoi a galleria, oppure in camere alla temperatura di 40-50° (v. oltre).
Attualmente, gran parte del rayon viene impiegato semplicemente lavato e desolforato e non sbiancato. In tal caso l'operazione di desolforazione si fa seguire immediatamente al primo lavaggio del filato acido, sia sulla bobina, sia nel cestello di filatura, impiegando soluzioni di solfuro di ammonio e di ammoniaca in luogo del solfuro di sodio.
Processo Lilienfeld. - Con questo processo si ottiene un rayon di resistenza doppia dell'ordinario rayon alla viscosa. Il vantaggio è ancora maggiore se i due tipi di rayon si paragonano allo stato umido: in queste condizioni, il rayon Lilienfeld ha una resistenza quintupla di quello ordinario. Però il processo presenta molte difficoltà pratiche (p. es., quelle dipendenti dalla rapida alterazione dei bagni di filatura) che finora non hanno permesso di applicarlo su vasta scala.
Il processo Lilienfeld differisce da quello normale anche nelle fasi di preparazione della viscosa; ma la differenza sostanziale sta nella composizione dei bagni di filatura, i quali possono conferire le caratteristiche del rayon Lilienfeld anche a viscose preparate nel modo ordinario.
I bagni Lilienfeld sono molto più concentrati di quelli normali; essi infatti contengono il 40-85% di acido solforico, e possono anche contenere solfati di amm0nio, di zinco e di magnesio, bisolfito sodico, glucosio, glicerina, acido lattico, ecc. D'ordinario i bagni vengono impiegati a 20-25°0; l'inventore in certi casi consiglia di usarli a 0°, lasciando però immersa nel bagno una lunghezza molto maggiore (60-150 cm. in confronto con i 15-30 cm. della filatura normale) di filamento. Il filamento viene lavato al più presto possibile; nella filatura parallela tenendo le bobine immerse nell'acqua; nella filatura centrifuga facendo scorrere acqua sul filamento. Se per il lavaggio si usa una soluzione salina invece d'acqua pura, si ottiene un filamento ancora migliore. Lilienfeld ottenne filamenti molto fini con un doppio stiramento (v. oltre) e per realizzare un allungamento ancora maggiore, preconizzò un trattamento ulteriore con soda (mercerizzazione).
Verosimilmente in questo processo la viscosa, scomponendosi, si scioglie nell'acido solforico dando una soluzione molto instabile e molto plastica, la quale può subire un forte stiramento. Lo stiramento, unito all'azione pergamenizzante dell'acido solforico, ha per effetto l'aumento della resistenza del filo.
Processo all'acetato. - In questo processo i linters di cotone, che costituiscono la materia prima, vengono anzitutto purificati, sgrassandoli e sbiancandoli, e successivamente trattati con una miscela di anidride acetica e acido acetico glaciale in presenza di un catalizzatore - generalmente acido solforico - a temperatura determinata. Si ottiene in tal modo una massa pastosa di triacetato di cellulosa (acetato primario) solubile in cloroformio, ma insolubile in acetone. Questo acetato primario viene poi trasformato in un prodotto solubile in acetone (acetato secondario) perché solo questo, in pratica, può essere filato. La trasformazione si compie aggiungendo all'acetato primario delle miscele di acqua, acido acetico, ecc., e mantenendo la massa per diverse ore a temperatura determinata, dopo di che l'acetato viene precipitato diluendo con acqua e poi lavato, essiccato, sciolto nell'acetone oppure in altro solvente e infine filato.
La filatura può compiersi col processo a umido oppure con quello a secco; secondo quest'ultimo che è il più usato, la soluzione, contenente circa il 25% di acetato di cellulosa, viene fatta passare attraverso la filiera in un compartimento chiuso dove il solvente viene fatto evaporare con aria calda. Le condizioni dello scompartimento debbono essere accuratamente controllate perché sia la sezione del filamento sia l'aspetto esterno di esso dipendono dalla temperatura dell'aria e dalla concentrazione dei vapori del solvente. Il filato, raccolto su bobine, viene poi torto e messo su matasse.
Reazioni chimiche. - Dal punto di vista chimico, la formazione dell'acetato primario o triacetato di cellulosa è rappresentata dall'equazione
La reazione è reversibile. In presenza di acqua, il triacetato si scompone e si formano composti meno acetilizzati. Per conseguenza, per acetilare bene la cellulosa, è necessario operare in presenza di anidride, la quale si combina con l'acqua di reazione per dare acido acetico.
L'acetato secondario, che si forma per idrolisi del triacetato, è una miscela di triacetato e diacetato di cellulosa che contiene soltanto il 50-58% di acido acetico, mentre il triacetato ne contiene il 62,5%.
Nella prima fase dell'operazione si formano dei solfoacetati di cellulosa, prodotti nocivi, che vengono saponificati quando si idrata la miscela.
Fabbricazione dell'acetato di cellulosa. - L'acetilazione della cellulosa si compie in apparecchi speciali (v. oltre), muniti di agitatori e di dispositivi per il raffreddamento, nei quali il cotone e i singoli reagenti vengono introdotti in proporzioni molto variabili secondo i diversi fabbricanti. Generalmente s'introduce una miscela di 200-300 kg. di anidride acetica e 700-800 kg. di acido acetico glaciale, aggiungendo 10 ÷ 15 kg. di acido solforico a 66° Bé per ogni 100 kg. di cotone. La miscela viene raffreddata a 15°, poi si mettono in marcia gli agitatori e s'introducono a poco a poco nell'apparecchio i linters di cotone, mantenendo la temperatura per circa un'ora al disotto di 25° e lasciandola poi salire a 34°. Le fibre di cotone dapprima si gonfiano, poi spariscono trasformandosi in una massa gelatinosa. L'operazione è compiuta dopo un tempo che varia da 2 a 6 ore secondo la temperatura iniziale e la quantità di cotone impiegata. Si ottiene una soluzione omogenea, chiara e sciropposa che si lascia nell'apparecchio ancora per un'ora o due. L'operazione è finita quando, versando la soluzione nell'acqua in filetti sottili, si ottengono dei fini flocculi che, essiccati, sono insolubili sia nell'alcool sia nell'acetone.
Per ottenere l'acetato secondario si aggiunge al contenuto dell'apparecchio dell'acido solforico diluito, si agita e si mantiene per alcune ore la temperatura fra 30° e 50°. L'acetato secondario, però, non è stabile. Per poterlo filare, lo si versa nell'acqua e in tal modo lo si precipita; poi lo si lava, eliminandone così i solfoacetati, lo si centrifuga e lo si essicca, preferibilmente nel vuoto. Si ottiene infine l'acetato secondario solubile nell'acetone: sotto forma di flocculi oppure granuli, bianchi e leggieri. Questo acetato è molto stabile fino a 150°; fra 250° e 280° si decompone. Per ogni 70 kg. di linters si ottengono 10o kg. di acetato col 50-58% di acido acetico.
Le operazioni sopra descritte si compiono in impastatori-mescolatori ermeticamente chiusi, simili a quelli usati nella fabbricazione della viscosa, ma rivestiti di bronzo o, meglio ancora, argentati; oppure in apparecchi come quello della fig. 10.
La Societé Chimique des Usines du Rhône ha brevettato un apparecchio continuo, costituito da una colonna verticale provvista di camicia e di tubi per la circolazione di acqua calda o di soluzione refrigerante, entro la quale gira l'asse dell'agitatore. I linters e il liquido di acetilazione introdotti dall'alto, vengono poi presi dalle braccia dell'agitatore, le quali tendono a trascinarli nella loro rotazione, mentre dei pioli sporgenti dal mantello della colonna contrastano il movimento: si ha così un'efficace rimescolamento della massa. Il diametro della colonna può restringersi dove la massa deve avere velocità minore: anche la lama delle braccia dell'agitatore, che sono diverse (semplici ganci in alto, palette in basso), contribuisce a ridurre la sezione di passaggio della miscela.
Dalla precipitazione e lavaggio dell'acetato secondario si ottiene una soluzione diluita di acido acetico, da cui quest'ultimo deve essere ricuperato: fino a pochi anni fa questo ricupero costituiva la maggiore difficoltà di tutto il processo dell'acetato, e ciò ne ritardò lo sviluppo industriale. Attualmente il ricupero dell'acido acetico dalle sue soluzioni acquose è stato felicemente risolto mediante processi di estrazione da parte di solventi organici (acetato di amile, acetato di etile, etere solforico, ecc.), seguiti da distillazione delle soluzioni di acido acetico in tali solventi.
Filatura del rayon all'acetato. - Filatura a secco. - Per questo metodo di filatura (v. oltre) che è quello più generalmente impiegato, come solvente dell'acetato si usa l'acetone, oppure una miscela di acetone e alcool. La soluzione dell'acetato in acetone o simili è detta collodio, il quale deve essere convenientemente filtrato prima di giungere alla filiera. La filatura si compie a grande velocità (fino a 180-200 m. al minuto), in tal modo si ottengono filamenti molto fini. Dopo la filatura non occorrono trattamenti chimici; talvolta, anzi, si omette la torcitura.
Secondo un brevetto della Rhodiaceta si possono ottenere fili cavi molto leggieri (peso specifico 0,9) di rayon all'acetato facendo traversare al filamento, poco dopo l'uscita dalla filiera, una zona a temperatura molto più alta del punto di ebollizione del solvente, i cui vapori fanno gonfiare il filamento.
Filatura a umido. - La velocità di filatura con questo metodo è di 50-60 m. al minuto, e cioè molto più bassa che nella filatura a secco. Si usano bagni di composizione diversa: soluzione di cloruro di calcio o di acetato di sodio, acetone, glicol, glicerina e altri alcali, duodecano, toluene, terpeni, acidi grassi, oleati, ecc.
La filatura a umido è usata da pochissime fabbriche.
Processo al cuprammonio. - In questo processo si usano come materie prime i linters di cotone, in qualche caso mescolati a piccole percentuali di pasta di legno. I linters vengono sgrassati e sbiancati e poi sciolti nell'idrato di rame ammoniacale (liquido di Schweitzer). La soluzione viene filtrata, mantenendola a temperatura non maggiore di 5° per un tempo variabile fra 12 e 72 ore; poi la si fila col metodo della filatura a umido con stiramento. Si ottengono fili colorati in azzurro per la presenza di un composto di rame, che viene eliminato trattando il filo con acido solforico. Il filo viene poi lavato, essiccato, ritorto e messo su matasse.
Reazioni chimiche. - Il liquido di Schweitzer è una soluzione azzurroscura che si ottiene aggiungendo ammoniaca a una soluzione di solfato di rame: precipita CuSO4•Cu(OH)2, insolubile nell'acqua, che si scioglie in un eccesso di ammoniaca. Dopo aggiunta di soda caustica questo liquido scioglie la cellulosa: probabilmente si forma un composto corrispondente alla formula (C5H10O5)•Cu[Cu(NH3)]4.
Trattamento preliminare della materia prima. - Come si è detto, la materia prima normale è costituita dai linters di cotone che vengono dapprima sgrassati trattandoli con soluzioni diluite di soda caustica, preferibilmente fuori dal contatto dell'aria in autoclavi alla temperatura di 120°; poi sbiancati e lavati in una olandese (v. carta). Dopo questi trattamenti la cellulosa è centrifugata, oppure spremuta in presse, in modo che non contenga più del 40-50% di acqua.
La pasta di legno, che alcuni mescolano ai linters, contiene forti quantità di emicellulose, che sono nocive e meno solubili nel liquido di Schweitzer, il quale le depolimerizza in misura maggiore che non la cellulosa di linters.
Preparazione della soluzione. - La cellulosa, preparata come si è detto, viene sciolta in 10-20 volte il proprio peso di soluzione d'idrato di rame ammoniacale, agitandola entro questa per 3-4 ore, alla temperatura di 4° in apparecchi simili ai mescolatori del processo alla viscosa.
Bisogna osservare che la cellulosa si scioglie meno facilmente nel liquido di Schweitzer quando questo contiene del solfato di soda, il quale però, se è aggiunto quando la cellulosa è già sciolta, non ne determina la precipitazione e, d'altra parte, permette di filare in bagni meno caldi, ottenendo un filamento migliore.
Perciò per preparare un liquido cuproammoniacale esente da solfati, un tempo si partiva dal rame metallo anziché dal solfato di rame, sciogliendolo in una soluzione acquosa (al 15-30%) di ammoniaca, raffreddando a 0° e ossidando il rame, facendo gorgogliare nella soluzione dell'aria compressa per 15-20 ore, con qualche intervallo di riposo; si aveva uno sviluppo di calore ed era necessario raffreddare perché la temperatura non superasse mai i 5°.
Per accelerare la dissoluzione della cellulosa si sono aggiunti al liquido solfato di rame e soda caustica.
Secondo un metodo più moderno, si aggiunge la cellulosa al principio della formazione del liquido di Schweitzer. In acqua a 50° si sciolgono 155 kg. di solfato di rame; si raffredda la soluzione a 0° e mantenendola a questa temperatura le si aggiungono 134 kg. di una soluzione al 35% di soda caustica: precipita idrato rameico Ca(OH)2; poi in una olandese, a temperatura inferiore a 30°, si mescola tutto con 100 kg. di cellulosa preventivamente sgrassata e sbiancata nel modo descritto. Si filtra in un filtropressa e si separa dal liquido la cellulosa intimamente mescolata all'idrato di rame, poi si spreme la focaccia in una pressa idraulica per eliminarne il solfato di sodio; il residuo - che pesa 133 kg. per 100 kg. di cellulosa - si sminuzza con un disintegratore e lo si manda in un mescolatore nel quale si aggiungono a poco a poco 340 kg. d'idrato ammonico di peso specifico 0,91, un poco di bisolfito ammonico (NH4)2SO3, kg. 1,800 di tartaro di vino sciolto in ammoniaca e 32 litri d'acqua; si mescola per 5 ore fuori del contatto dell'aria, a temperatura fra 0° e 4°. La soluzione così ottenuta viene poi diluita aggiungendovi kg. 86 d'acqua, kg. 3 d'idrato ammonico e kg. 20 di soda caustica al 35% e poi filtrata traverso fitte reti di filo di nichelio (per le prime filtrazioni si usano reti da 120 maglie il cmq., per le ultime reti di 180 maglie). Nella soluzione si fa poi il vuoto, per eliminare sia l'aria sia l'eccesso di ammoniaca, che ostacolerebbero la filatura: in tal modo la viscosità aumenta e diventa uniforme.
Filatura. - Come bagni di filatura per il rayon al cuprammonio un tempo si usavano soluzioni concentrate di acido solforico; ora invece si usano soluzioni al 5-30% di soda caustica, addizionate di glucosio, a temperature comprese fra 0° e 50°. Le soluzioni più concentrate di soda esercitano un'azione mercerizzante sul filamento. Una parte del rame contenuto nel filamento formatosi che è brillante e trasparente, colorato in azzurro scuro, si scioglie nel bagno e gl'impartisce il suo colore.
Anche l'acqua pura, a temperatura compresa fra 0° e 30°, viene usata come bagno di filatura. Essa scioglie l'ammoniaca contenuta nella soluzione, provocando la precipitazione di una combinazione di cellulosa, rame e alcali, molto plastica che può essere filata col metodo Thiele, facendo in modo che in un primo tempo si abbia una coagulazione appena sufficiente per impedire ai filamenti di incollarsi insieme. In questo caso si usano filiere di vetro, oppure di nichelio o di acciaio, con fori di grande diametro e distanti l'uno dall'altro; stirando il filamento fino a 300-400 volte la sua lunghezza primitiva, si ottengono filati di 0,5 denari.
I filati ottenuti coi bagni alcalini o con l'acqua pura vengono poi trattati con soluzioni al 5-10% di acido solforico, trasformandoli in cellulosa pura e formando solfato di rame. I fili sono poi avvolti su aspi e nuovamente lavati con acido per eliminarne completamente il rame: a questo scopo si fanno girare gli aspi in vasche piene di acido. Sempre sugli aspi, il rayon è poi lavato per togliere l'acido e poi aspato, essiccato, ritorto, messo su matasse e sbiancato.
Ricupero del rame e dell'ammoniaca dai bagni. - Quando si usavano bagni acidi, era facile ricuperarne il solfato ammonico che si formava nella filatura in cui era in soluzione concentrata.
Con i moderni bagni alcalini o neutri, dai bagni si sviluppa ammoniaca, che viene captata con speciali dispositivi - anche per proteggere la salute degli operai - e ricuperata precipitandola sotto forma di fosfato ammonico-magnesiaco MgNH4PO4 o con altri metodi. Il rame viene ricuperato trasformandolo in solfato di rame; in certi casi il solfato di rame viene scomposto trattandolo con ferro e ottenendo solfato di ferro e rame metallico.
Questi ricuperi hanno grande importanza nei riguardi del costo di produzione.
Processo alla nitrocellulosa. - Anche in questo processo servono da materia prima i linters di cotone sgrassati e sbiancati. Il cellulosio del cotone viene trasformato in nitrocellulosa mediante la nitrazione che consiste nel trattarlo, per un tempo variabile fra 20 minuti e 2 ore ed alla temperatura di 3-5°, con una miscela di acidi nitrico e solforico contenente dell'acqua. Il tenore di acqua regola il grado di nitrazione, dal quale dipende la solubilità della nitrocellulosa nei diversi solventi.
La nitrocellulosa viene poi accuratamente lavata, ridotta in piccoli pezzi di circa 1 mm. di lato e nuovamente lavata per eliminarne completamente sia gli acidi sia i prodotti secondarî della nitrazione che sono molto instabili. Occorrendo, la si sbianca e infine la si centrifuga e si essicca. In media 100 kg. di linters dànno 150 kg. di nitrocellulosa.
La nitrocellulosa viene poi sciolta in un solvente volatile. Generalmente si usa una miscela del 40-60% di etere e per il resto di alcool metilico o etilico nella quale si scioglie il 18% di nitrocellulosa; ma si possono anche usare altri solventi (acetone, acido acetico glaciale, benzene, toluene, ecc.). Si ottiene una soluzione molto vischiosa contenente impurità e cellulosa non sufficientemente nitratata, che si eliminano filtrando su ovatta in filtri-presse.
Dopo le filtrazioni, la soluzione viene lasciata in riposo perché se ne sviluppino i gas: il che avviene molto lentamente.
Chardonnet originariamente filava a umido, in un bagno di acqua fredda. Lehner introdusse la filatura con stiramento. Sebbene la filatura a umido consenta un facile ricupero dei solventi, si è poi preferita la filatura a secco, che presenta il vantaggio della maggiore velocità.
Il filato, che è composto di nitrocellulosa e perciò infiammabilissimo, deve essere denitrato, trattandolo, dopo che è stato torto e aspato, con una soluzione d'idrosolfito sodico: in tal modo si rigenera la cellulosa, nella quale non resta che una percentuale minima di azoto (lo 0,05%).
Con la denitrazione però, il filato diventa molto meno resistente, specialmente a umido. Il filato viene poi rifinito in modo simile a quello descritto per gli altri processi.
Il processo alla nitrocellulosa ormai è pochissimo usato. Per le fabbricazioni della nitrocellulosa, v. questa voce.
Acqua per le fabbriche di rayon.
Le fabbriche di rayon consumano fortissime quantità di acqua, che arrivano ad 1,5-2 mc. per kg. di rayon prodotto per il processo al cuprammonio e a 2-3 mc. per il processo alla viscosa. Per la maggior parte delle operazioni occorre che l'acqua sia pura e non dura; p. es., le acque dure formano nella viscosa dei precipitati che è difficile eliminare e che danneggiano la qualità del filo. Inoltre, il rayon lavorato con acque dure presenta difficoltà nella tintura e richiede una maggior quantità di sapone nel trattamento che segue la sbianca.
L'acqua per le fabbriche di rayon viene, quindi, anzitutto filtrata, generalmente in filtri a sabbia e in seguito epurata con calce e soda, oppure con permutite: con quest'ultimo processo si ottiene acqua neutra e di durezza 0°.
Filatura.
Il filamento di rayon si ottiene, come si è detto, forzando la soluzione di cellulosa attraverso i fori della filiera. Il diametro del filamento e il titolo del filato dipendono, quindi, dalla velocità di efflusso della soluzione e dalla velocità delle bobine sulle quali si avvolge il filamento (o, nella filatura centrifuga, dalla velocità delle centrifughe). La seconda è sempre maggiore della prima, e il rapporto fra le due velocità (in generale uguale a circa 1,5) costituisce lo stiro di cui si è parlato precedentemente.
La velocità di efflusso della soluzione dalla filiera dipende dalla pressione che si esercita sulla soluzione stessa, pressione che in pratica non potrebbe essere eguale su tutte le filiere di uno stesso filatoio, se fosse regolata per tutte le filiere a troppa distanza dalle filiere stesse. Inoltre la velocità può variare anche per effetto di variazioni nella viscosità della soluzione ed è chiaro che può abbassarsi bruscamente in seguito all'ostruzione di tubi o delle filiere da parte di sostanze solide, oppure di bolle d'aria.
Per ovvie ragioni commerciali, è necessario produrre filamenti di titolo rigorosamente uniforme. Perciò si usa inserire nella tubazione che porta la soluzione alla filiera e nelle immediate prossimità di questa, una piccola pompa di tipo speciale la quale ha l'ufficio di erogare quantità eguali di soluzione per ogni unità di tempo, in modo da mantenere costante l'erogazione della filiera. Inoltre, si filtra accuratamente la soluzione stessa, generalmente per mezzo di piccoli filtri individuali inseriti fra la pompa e la filiera, in alcuni casi per mezzo di filtri all'entrata della soluzione nel banco di filatura, in altri casi ancora abbinando i due metodi.
La formazione del filamento può compiersi con due metodi diversi: a) con la filatura a secco, e cioè facendolo passare, all'uscita della filiera, in un compartimento chiuso nel quale se ne fa evaporare il solvente per mezzo di una corrente d'aria; b) con la filatura a umido, e cioè facendolo formare in seno a un bagno di coagulazione.
Da ciascuna filiera si formano contemporaneamente molti filamenti, i quali debbono essere poi torti insieme per formare un filo di rayon. Si hanno due metodi diversi di filatura:
a) filatura parallela: i filamenti che escono dalla filiera vengono semplicemente avvolti su bobine per essere poi torti facendo girare rapidamente le bobine mentre il filato si svolge ed è avvolto su rocchetti;
b) filatura centrifuga: i filamenti vengono introdotti in una piccola centrifuga speciale che gira a grande velocità: in questa centrifuga essi vengono torti e si dispongono secondo eliche sovrapposte, che formano una focaccia.
Filtri. - Si usano filtri a candela e filtri di testa di filatoio.
Il primo modello di filtro a candela, creato dal Topham nel 1900, è fatto di ebanite, e costituito da tre pezzi (fig. 11): un supporto inferiore D, una candela F ed un tubo H, questi ultimi due avvitati su D. La soluzione da filtrare entra nel filtro attraverso una valvola regolatrice e per i canali c, d ed f sale fino a metà altezza della candela F; poi si distribuisce sulla superficie esterna di F, che è scanalata e circondata da ovatta, tenuta a posto da batista o da altro simile tessute fine; traversando questo strato filtrante, arriva nello spazio anulare fra F e H ed esce per il tubo di vetro I.
Nel filtro Dreaper la circolazione si compie in senso inverso e lo strato filtrante è meglio sostenuto, sicché consente una filtrazione migliore.
Alcuni filtri a candela sono fatti di vetro, con la candela filtrante di quarzo poroso che non richiede altro materiale filtrante e può essere pulita facilmente; inoltre, la trasparenza del vetro rende facile la sorveglianza.
I filtri di testa sono costituiti da diversi elementi filtranti a candela montati sopra un'unica incastellatura; ciascun elemento, nella sua parte superiore, ha un rubinetto di scarico e può essere escluso dal circuito per la pulizia.
Filiere. - Le filiere attualmente usate sono capsule, generalmente metalliche, che portano piccolissimi fori disposti secondo cerchi concentrici (fig. 12).
Nel processo alla viscosa le filiere debbono essere inattaccabili dagli acidi, e insieme molto resistenti e sufficientemente elastiche. Meglio di ogni altra lega risponderebbe a questi requisiti il platino, puro o iridiato, il quale, però, non è sempre usato perché troppo costoso e presenta difficoltà nella foratura. Lo si sostituisce quindi talvolta con leghe di oro e platino, oppure di oro, platino e palladio, col 70-90% di oro (una lega usata in Belgio contiene l'80% di oro, il 15% di palladio e il 5% di platino); si è usata anche una lega col 95% di oro e il 5% di nichelio. Con speciali accorgimenti si ottengono leghe di resistenze molto elevate.
Il diametro dei fori varia secondo il titolo dei filati, da 0,06 a 0,12 mm. (il foro di 0,06 corrisponde a un filato viscosa di 2 denari per bava o filamento). I fori distano l'uno dall'altro di 1,5 mm: in direzione radiale e di 1 mm. lungo i cerchi. Una filiera di media grandezza porta da 18 a 60 fori e ha le seguenti dimensioni: diametro esterno 18 mm.; diametro del fondo perforato 12-13 mm.; altezza 9 mm.; spessore 0,2-0,4 mm., e pesa 2-3 gr. Per maggior numero di fori si usano filiere più grandi: da 60 a 100 fori, pesano 4-5 gr.; da 500 a 1000 fori arrivano a pesare 12 gr.
La perforazione di queste filiere è difficile e delicata. I fori debbono essere perpendicolari al fondo e di calibro esatto (la tolleranza è di soli o,002 mm. in più o in meno); se un foro fosse più piccolo degli altri, darebbe un filamento più oggetto a rompersi. Si comincia col segnare sulla capsula i centri dei fori per mezzo di una macchina speciale, poi si procede alla foratura con punte che girano alla velocità di 10-12.000 giri al minuto. Dapprima s'intacca il metallo con una punta più grande; poi si apre il foro con una punta più piccola, poi lo si calibra con una fresa, lo si pulisce con utensile apposito e infine si tolgono le sbavature dalle due estremità del foro.
Con l'uso, i fori si ovalizzano (anche perché alcune soluzioni attaccano i metalli); però di quando in quando esse vengono verificate anche con microscopî disposti in apparecchi speciali e, se è necessario, si rettificano i fori; quando ciò non è più possibile si fondono per formare nuove filiere.
Oltre a quelle metalliche, si usano filiere di porcellana e anche di vetro. In queste ultime si praticano i fori introducendo nel vetro, quando è ancora malleabile, dei fili metallici, che poi si asportano completamente attaccandoli con acidi. Si sono pure usate filiere di resine sintetiche, però con poco successo.
Pompe di filatura. - Le pompe attualmente usate si possono dividere in due gruppi principali: pompe a stantuffo e pompe a ingranaggi. Il primo gruppo, alla sua volta, si può dividere in due sottogruppi: pompe a stantuffi assiali; pompe a stantuffi radiali.
Una pompa perfetta dovrebbe dare una portata assolutamente costante. In pratica, invece, si hanno variazioni nel volume dell'erogazione, che si traducono - come si è detto - in variazioni nel diametro del filamento di rayon. Si possono distinguere due ordini di variazioni: (1) variazioni rispetto al titolo medio di un breve tratto (pochi metri) di filamento; (2) variazioni fra il titolo medio di un lungo tratto di filamento (p. es., una matassa) e il titolo medio di un altro tratto altrettanto lungo, prodotto successivamente con la stessa filiera e la stessa pompa. Le variazioni (1) sono determinate dal modo di funzionare della pompa: il filamento presenta alternativamente delle sezioni minime (nodi) e delle sezioni massime (ventri); p. es., se con una pompa a 5 stantuffi che fa 25 giri al minuto si produce un filamento alla velocità di 50 m. al minuto, ogni giro della pompa corrisponde a 2 m. di filamento: in questo tratto vi saranno 5 nodi e altrettanti ventri, cioè uno ogni 40 cm. Queste variazioni, però, possono essere quasi completamente eliminate con l'uso di speciali apparecchi compensatori. Le variazioni (2) non hanno un periodo costante e sono determinate, per es., da fughe di soluzione.
Pompe a stantuffi assiali multipli. - Il prototipo di queste pompe è la pompa a due stantuffi di Tetley e Clayton. Essa è costituita (fig. 13) da un cilindro A comandato da un pignone B, che ruota di moto uniforme entro la cavità cilindrica C. Internamente al cilindro A sono praticate due piccole camere cilindriche D, diametralmente opposte l'una all'altra, entro le quali scorrono due stantuffi E. Le teste di questi stantuffi sono collegate da un bilanciere H, mobile intorno a un perno e scorrono sopra una camma G, la quale, ruotando sul piano inclinato fisso I, fa spostare gli stantuffi stessi, spingendone uno dentro la sua camera mentre l'altro è richiamato indietro dal bilanciere H. Le due camere D sono in comunicazione con due canali praticati nel corpo fisso della pompa e comunicanti, alla loro volta, l'uno con la condotta di arrivo, l'altro con la condotta di uscita della soluzione. Le camere D costituiscono, in tal modo, due piccoli corpi di pompa; gli stantuffi chiudono alternativamente la luce di entrata e la luce di scarico della soluzione sicché questa viene alternativamente aspirata dalla condotta di alimentazione e compressa verso la filiera.
Se invece di 2, si vogliono comandare 30 più stantuffi, il comando deve essere affidato a organi più complessi.
Nella pompa Tavannes (fig. 14) le teste degli stantuffi sono fissate, mediante un giunto articolato (fig. 15), a una camma girevole (detta gabbia) che è guidata da una calotta sferica, alla quale, per mezzo di viti, si può dare l'inclinazione che si vuole, facendo variare così la corsa degli stantuffi e la portata della pompa.
Nella pompa A. M. C., invece, le teste degli stantuffi (fig. 16) traversando i fori di una camma, terminano con una sfera, la quale poggia sopra una seconda camma. Le sfere di testa degli stantuffi hanno un diametro tale da essere costrette a rimanere nello spazio fra le due camme e mantengono queste camme sempre parallele l'una all'altra. L'inclinazione delle due camme può essere modificata per mezzo di una vite: in tal modo si può far variare la corsa degli stantuffi, e, per conseguenza, la portata della pompa.
Nella pompa Amepa (fig. 17) le teste degli stantuffi sono comandate da una camma h; i piccoli corpi di pompa e, portati dal disco rotante d, hanno esternamente superficie sferica, sicché possono spostarsi rispetto al disco d. Modificando l'inclinazione della camma h per mezzo di r si fa variare la corsa degli stantuffi e la portata della pompa.
Nella pompa Borletti (tipo 1934; fig. 18) gli stantuffi sono comandati per mezzo di molle di contrasto contro una camma, la quale, a sua volta, per mezzo di una vite di regolazione comandata dall'esterno, può variare l'inclinazione entro limiti prestabiliti, modificando la corsa degli stantuffi. In tale pompa, l'entrata e l'uscita della soluzione avviene attraverso canali ricavati sul piano d'appoggio del corpo rotante e inoltre tale soluzione lubrifica i varî organi rotanti.
Nelle pompe a un solo cilindro, per poco meno della metà del periodo di rotazione, l'erogazione varia fra zero e un massimo, per il resto del periodo l'erogazione è zero. Nelle pompe a 3 e a 5 stantuffi l'erogazione massima di ciaseun cilindro cade nel periodo in cui l'erogazione degli altri cilindri è piccola o nulla: così l'erogazione della pompa è quasi costante. Le variazioni nell'erogazione di una pompa a 3 cilindri non superano il 12% della massima erogazione istantanea. L'aumento del numero degli stantuffi permette, quindi, di ottenere un'erogazione quasi costante; ma, per difficoltà costruttive, raramente si va oltre i 7 stantuffi. L'erogazione, però, può essere resa più regolare intercalando, nella condotta di compressione, un apparecchio compensatore (fr. godet régulateur o bouteille), il quale è sostanzialmente costituito da una camera chiusa contenente dell'aria, che funziona come un cuscino elastico: quando la pressione nella condotta supera un certo limite, la soluzione vincendo la resistenza dell'aria entra nella camera; quando la pressione nella condotta scende al disotto di un altro limite, la pressione dell'aria spinge la soluzione nuovamente nella condotta stessa. Nella fig. 19 è illustrato un tipo di bottiglia nella quale la circolazione della viscosa è regolata in modo da impedire che stagni e si coaguli.
Pompe a stantuffi radiali. - In queste pompe gli stantuffi sono disposti radialmente dentro un cilindro girevole, simile a quello delle pompe a stantuffi assiali.
Nella fig. 20 è illustrata la pompa A. M. C. a 5 stantuffi. Questi stantuffi scorrono dentro camere cilindriche praticate in un cilindro, il quale ruota comandato da un pignone. Le teste degli stantuffi corrono su un perno centrale, la cui eccentricità può essere modificata per mezzo di una vite micrometrica, facendo variare così la corsa degli stantuffi e la portata della pompa. Gli stantuffi sono richiamati indietro da una corona, la quale penetra in scanalature praticate nella testa degli stantuffi. Le condotte di aspirazione e di compressione della pompa sono praticate nel corpo fisso della pompa; dalla fig. 20 (a destra) si vede che ciascuna camera comunica alternativamente ora con l'una, ora con l'altra condotta.
Pompe a ingranaggi. - Le pompe di questo tipo (fig. 21) sono costituite da due ruote dentate sempre in presa, una delle quali è calettata sull'albero di comando, e che si muovono tutte e due in camere cilindriche. La soluzione entra da una camera e, presa fra i denti delle ruote, viene trascinata nell'altra camera dalla quale esce. Le due camere sono sempre isolate l'una dall'altra, perché le due ruote sono sempre in contatto per una o più generatrici.
L'erogazione di una pompa a ingranaggi è rappresentata da una curva molto vicina a una retta; le variazioni, normalmente, non superano il 2% della massima erogazione istantanea. Però, quando hanno lavorato per un certo tempo, in queste pompe si hanno delle fughe, dipendenti principalmente dalla corrosione degl'ingranaggi, e per conseguenza delle variazioni nel titolo del filato.
Per questa ragione esse stavano per essere abbandonate; ma negli ultimi anni hanno riguadagnato terreno, perché si sono trovati acciai speciali che resistono alle soluzioni.
Bobine. - Si usano solo per la filatura parallela, con entrambi i processi di filatura a secco e a umido. Sono generalmente di alluminio bakelizzato, smaltato o verniciato per le filature a umido, oppure di legno o di cartone, per le filature a secco; in qualche raro caso di vetro, di porcellana, di celluloide, di ebanite, ecc. Hanno forma cilindrica, con diametro 7-9 cm. e lunghezza 13-16 cm., forate e rinforzate con bordi alle due estremità. Esse sono montate su portabobine. In certi casi le bobine sono comandate esternamente, per frizione. La velocità delle bobine è, in media, di 50-100 m. per minuto per la filatura a umido; fino a 200 m. per minuto per la filatura a secco.
Filatura a secco. - Secondo questo metodo, ciascuna filiera è montata all'estremità superiore di una cella chiusa ed i filamenti di rayon si svolgono dall'alto al basso, mentre una corrente d'aria calda circola in senso opposto, facendo evaporare il solvente e trascinandone i vapori fuori delle celle.
Nella fig. 22 è illustrata schematicamente la cella Bouffé, costituita da una camera cilindrica che ha per fondo un imbuto conico, il quale termina con l'orifizio b. La soluzione entra dal tubo traverso la filiera a e i filamenti che si formano scendono all'orifizio b, per il quale escono dalla cellula e vanno ad avvolgersi su una bobina. Le pareti interne dell'imbuto sono perfettamente lisce, sicché anche i filamenti rotti vengono guidati verso l'uscita. Al disopra dell'imbuto la cella è riscaldata per mezzo di una camicia di acqua calda (l'acqua entra da d ed esce da e) e superiormente a questa camicia è dotata di un rivestimento coibente. L'aria entra da b e dopo essersi riscaldata esce dal tubo c insieme con i vapori.
Nella fig. 23 è illustrata la sezione trasversale del filatoio a secco Haubold, per seta all'acetato. Esso è costituito da due schiere simmetriche di elementi eguali. Le pompe e le filiere sono montate sulla parte superiore dell'incastellatura; le due celle comunicano con un canale longitudinale, entro il quale corrono i tubi in cui circola vapore; l'aria, che entra in questo canale da finestre praticate nella sua parete inferiore, si riscalda a contatto dei tubi e passa nelle celle, scaricandosi dalla parte superiore di esse. Inferiormente alle celle sono disposte le bobine sulle quali si avvolgono i filamenti. Le bobine, appena riempite, vengono portate in basso da un dispositivo automatico e gli operai possono facilmente toglierle.
Un metodo di filatura a secco alquanto diverso e che ha analogia col principio del ring (v. cotone), è quello detto dagl'Inglesi capspinning, realizzato dall'apparecchio illustrato schematicamente nella fig. 24. Al disopra della bobina I, montata sul portabobina J, è disposto un cappuccio a fungo G, la cui asta K corre lungo il canale assiale del portabobina, e viene alternativamente sollevata ed abbassata dalla leva L, fulcrata in M e comandata dall'eccentrico O. I filamenti E, che escono dalla cella A, sono rinviati dalla puleggia F, che si muove verticalmente di moto alternativo, poi si avvolgono sulla bobina I strisciando lungo l'orlo inferiore del cappuccio G; l'attrito contro questo orlo ritarda il movimento degli strati esterni del filo, e per conseguenza esso viene ritorto.
Per l'economia della produzione, nella filatura a secco è necessario ricuperare i solventi che sono impiegati in grandi quantità e sono costosi. Il ricupero può compiersi con diversi metodi:
1. facendo condensare i vapori di solvente su una parete fredda; 2. comprimendo e raffreddando l'aria carica di vapori; 3. facendo sciogliere i vapori nell'acqua, oppure in altri liquidi (generalmente idrocarburi), dai quali si separano per distillazione; 4. facendoli assorbire da carbone attivato, oppure da silica-gel o altre sostanze adsorbenti e poi ricuperandoli per distillazione in corrente di vapore.
Il metodo (1) è applicato, p. es., nelle celle Viviani, nelle quali la parete fredda è quella di un tubo, disposto in prossimità dei filamenti di rayon e nel quale circola una soluzione refrigerante. La cella Melitta Klein differisce dalla precedente per il fatto che la parete fredda, raffreddata da una soluzione incongelabile che circola in una camicia, è disposta esternamente alla cella: in tal modo si realizza una eccellente circolazione dell'aria. Questo metodo di ricupero, però, riesce costoso, perché è necessario raffreddare artificialmente l'aria dopo averla riscaldata per far evaporare il solvente dai filamenti.
Il metodo (3) si realizza, p. es., facendo gorgogliare l'aria carica di vapori di acetone in acqua a 0°, che scioglie l'acetone, il quale, poi, viene ricuperato riscaldando l'acqua. Nel processo Brégeat, invece di acque si usano creosoli, che scorrono dentro torri nelle quali circola in senso inverso l'aria carica dei vapori da ricuperare. Con questo processo il ricupero è quasi completo e riesce economico.
Il metodo (4) si realizza facendo circolare l'aria carica di vapori dentro strati di 2-3 metri di carbone attivato, dal quale poi si ricuperano facendovi passare del vapor d'acqua; il ricupero riesce un poco meno completo, però più comodo che col metodo Brégeat.
Con questi processi l'aria, aspirata da ventilatori, passa per apposite tubazioni dalle cellule di filatura all'apparecchio di assorbimento e di qui, dopo aver abbandonato i vapori di solvente, torna alle cellule, seguendo un ciclo chiuso.
Nelle fabbriche di rayon all'acetato l'aria che esce dalle cellule di filatura contiene 20-30 gr. di acetone per mc., talvolta anche 100 gr. Dopo il ricupero con carbone attivo, non restano che 2-3 gr. di acetone al mc. Si consumano 3,5-4 kg. di vapore e 0,2 kWh di energia per kg. di acetone ricuperato.
Filatura a umido (parallela). - Secondo questo metodo, le filiere sono disposte entro vasche piene del bagno di coagulazione; i filamenti, dopo essersi svolti per un certo tratto entro il bagno stesso, salgono verticalmente, e vanno ad avvolgersi su aspi oppure su bobine, mentre il liquido che trascinano con sé ricade nel bagno. Il bagno è continuamente rinnovato, in modo da fargli conservare una composizione costante. In certi casi, per tenere più a lungo i filamenti sotto l'azione del bagno, per mezzo di guidafili si fanno svolgere orizzontalmente per un certo tratto, dentro canali pieni del bagno stesso (è questa la cosiddetta filatura orizzontale). Quando, come spesso accade, il bagno è acido, le vasche e i canali sono rivestiti di piombo.
I banchi di filatura sono provvisti di impianti di aspirazione dei gas nocivi che (specialmente nel processo alla viscosa) si svolgono dai bagni.
Nella fig. 25 è illustrato, in sezione trasversale, un filatoio a bobine. Le bobine sono disposte nella parte superiore dell'incastellatura, dentro vasche piene di un bagno diluito, che serve a completare la coagulazione dei filamenti e, nel processo alla viscosa, anche a sciogliere una parte del solfato di soda che si forma in seno al bagno. L'asse delle bobine è normale all'asse dell'incastellatura: il filamento è guidato su di esse da due guidafili di vetro, il cui moto di va e vieni è comandato da una camma a cuore. In altri tipi di banchi di filatura, si usano grandi bobine con l'asse parallelo a quello dell'incastellatura; in tal modo si usa un solo guida-fili invece di due, e il pericolo di rottura dei filamenti è minore; però si ha un maggiore ingombro a parità di produzione.
Filatura centrifuga. - Secondo questo metodo, i filamenti, all'uscita della filiera, sono guidati dentro un tamburo ad asse verticale che gira ad alta velocità: la forza centrifuga li lancia contro le pareti del tamburo e queste, per attrito, li trascinano torcendoli. Nella fig. 26 è illustrata schematicamente una centrifuga. La soluzione che arriva da A, traversando la filiera B e il bagno coagulante, si trasforma in un fascio di filamenti che, guidati dalla puleggia di rinvio C e dall'imbuto D (il quale è dotato di un movimento verticale di va e vieni) entra nella centrifuga F, dove viene torto e si dispone lungo eliche sulle pareti interne del tamburo; si hanno così le focacce che si vedono nella fig. 27. Lo spessore di queste focacce non deve superare i 2 cm.
Nella fig. 28 è rappresentata la sezione trasversale di un filatoio a centrifuga, formato da due file parallele di elementi eguali. Si vedono le filiere con le loro pompe, i bagni di filatura, le centrifughe a comando elettrico e il meccanismo di comando del movimento dei portaimbuti.
I tamburi sono ordinariamente di alluminio rivestito di bakelite, oppure di bakelite massiccia; hanno diametro esterno di 16-20 cm. e pesano in media kg. 1,600. Si usano anche tamburi di alpax (lega dell'87% di alluminio puro col 13% di silicio); e ne sono stati introdotti di molti altri materiali: fra gli altri, di bakelite e tessuto di canapa, in parecchi strati pressati insieme. Hanno forma di un vaso cilindrico ad asse verticale e sono portati da un albero dal quale ricevono il moto e dal quale possono esser facilmente tolti per vuotarli. Portano un coperchio mobile, che ha nel centro un foro, per il quale passa l'imbuto, il quale, alzandosi ed abbassandosi dentro il tamburo, dispone il filo secondo eliche coassiali.
Le centrifughe fanno 5000-7500 giri al minuto; generalmente 6000 giri; se ne sono costruite anche più veloci (fino a 15.000 giri).
Le prime centrifughe erano comandate meccanicamente, e cioè per mezzo di vite senza fine; si tentò anche il comando con piccole turbine idrauliche. Ormai si preferisce il comando elettrico individuale, per mezzo di motori ad alta velocità.
Se il tamburo col suo contenuto potesse essere sempre in perfetto equilibrio dinamico, l'accoppiamento col motore non presenterebbe nessuna difficoltà. In pratica, invece, si hanno squilibrî relativamente forti, che portano il centro di gravità fuori dell'asse di simmetria della centrifuga, e ciò avrebbe per conseguenza di far descrivere all'asse una superficie conica, esercitando notevoli spinte sui supporti dell'albero stesso e tendendo a rovesciare il tamburo. Per mantenere verticale l'asse del tamburo, scartata la vecchia soluzione che consisteva semplicemente nel rinforzare motore e albero (il che porta ad un forte aumento nel consumo di energia) ora si collega l'asse del motore all'albero della centrifuga con un giunto flessibile (appartiene a questo tipo la centrifuga Patay illustrata nella fig. 29); oppure si fa l'asse del rotore mobile ed il rotore del motore stesso sferico anziché cilindrico con un supporto elastico (appartiene a questo tipo la centrifuga AEG della fig. 30); per grandi centrifughe (360 mm.) il tamburo è montato direttamente sull'albero del motore, che ha rotore esterno e statore interno (fig. 31).
Gl'imbuti sono di vetro e montati su porta-imbuti i quali hanno un movimento alternativo verticale di va e vieni.
I porta-imbuti dei due lati dell'incastellatura sono comandati dallo stesso albero, che si vede in fig. 28 nella parte superiore dell'incastellatura, al di sotto delle pulegge di rinvio; il loro movimento è sfasato, sicché quelli di un lato si sollevano mentre quelli dell'altro lato si abbassano.
Le pulegge di rinvio sono di vetro oppure di alluminio bakelizzato o verniciato; e spesso sono scanalate per evitare lo slittamento del filo, che si tradurrebbe in una variazione nella velocità di uscita della soluzione delle filiere e, per conseguenza, in variazioni sia del titolo sia della torsione del filato. Si usano anche pulegge di porcellana non smaltata e perni a superficie scabra che consente di far a meno della scanalatura.
Filatura con stiramento. - Lo stiramento del filo mentre è ancora plastico, e cioè a mano mano che esce dalla filiera, serve a ridurne la sezione e contemporaneamente ad accrescerne la tenacità diminuendone l'elasticità. Infatti, la tenacità e l'elasticità del filamento variano con la tensione alla quale esso è sottoposto durante la filatura.
Nella filatura a secco lo stiramento si realizza in modo abbastanza semplice. Il filamento che esce dal foro della filiera a piccola distanza dal foro stesso, per il noto fenomeno della contrazione naturale della vena fluida, assume una sezione minore di quella del foro; esercitando una trazione sul filamento tale contrazione è maggiore; mentre la sezione è ulteriormente ridotta per l'evaporazione del solvente. Così, per es., (fig. 32) il filamento che esce da un foro di 0,1 mm. di diametro, nella sezione AB ha un diametro medio di 0,07 mm. e nella sezione CD di soli o,03 mm. Spesso il filamento stirato ha sezione diversa dalla circolare, per effetto di differenze di temperatura che determinano una essiccazione più rapida di una parte della superficie esterna, la quale finisce col piegarsi mentre vi si aprono delle fenditure. Si cerca anzi di ottenere sezioni con pieghe disposte in modo da assorbire parte dei raggi riflessi, diminuendo così la brillantezza del filamento.
Nella filatura a umido del rayon al cuprammonio, la cui soluzione è molto plastica, per ottenere un forte stiramento basta una leggiera trazione, che è data principalmente dal peso stesso del filamento che si va formando e dal trascinamento da parte del bagno di coagulazione. A questo scopo la filiera è montata nella parte superiore di un imbuto, ed è qui che arriva continuamente il bagno, il quale si scarica dall'orificio inferiore dell'imbuto stesso.
Per effetto della diminuzione della sezione dell'imbuto, la velocità del bagno va crescendo dall'alto al basso. In tal modo il trascinamento nei diversi punti del filamento è tanto maggiore, quanto più i punti stessi distano dalla filiera; per conseguenza è minore il rischio di rottura del filamento in quel punto in cui esso risulta meno resistente e cioè all'uscita dalla filiera.
Nella fig. 33 è illustrato un dispositivo del genere di quello sopra cennato. La filiera E è montata nella parte superiore di un cilindro D nel quale il bagno di filatura entra per A. Internamente al cilindro è disposto l'imbuto G, dal cui orificio escono i filamenti insieme a parte del bagno; gli uni e l'altro cadono nella vasca H; di qui il liquido viene aspirato da una pompa e mandato nel cilindro D, mentre i filamenti, opportunamente guidati, salgono in un bagno di coagulazione I più energico del primo e poi passando sulle puleggie di rinvio, vanno nel tamburo T di ma centrifuga. Beninteso, anziché nella centrifuga possono andare ad avvolgersi su bobine.
Nella fig. 34 è illustrato un filatoio a stiramento per rayon al cuprammonio.
Per questo metodo di filatura del rayon al cuprammonio si usano bagni molto diluiti e filiere con grossi fori (0,25-0,75 mm. di diametro, contro i 0,06-0,08 delle filiere per rayon viscosa); stirando il filamento fino a 300-400 volte la sua lunghezza primitiva, si ottengono fili di o,5 denari. Però la velocità di produzione è molto minore di quella del rayon viscosa.
Nel processo alla viscosa in certi casi si stira il filamento facendolo passare su due pulegge di rinvio, la seconda delle quali ha una velocità periferica maggiore di quella della prima e perciò esercita una trazione sul filamento. Con lo stiramento, la tenacità del filamento aumenta del 20-50%; ma la sua elasticità diminuisce.
Rifinitura.
Le operazioni di rifinitura del filato di rayon, come proviene dalla filatura, si possono così riassumere: lavaggio, essiccazione, torcitura, aspatura, desolforazione e candeggio. Queste operazioni finali non sono comuni ai filati provenienti dai due sistemi di filatura (parallela e centrifuga), rispetto ai quali non solo possono venire intramezzate da altre operazioni di minore importanza, ma cambiano di ordine le une rispetto alle altre.
Per il rayon alla viscosa lo schema normale di rifinitura per i due metodi è il seguente:
Attualmente si tende a eliminare alcune delle operazioni elencate nello schema: p. es., la soppressione dell'essiccazione per matasse in greggio nella filatura centrifuga è già in atto in molte fabbriche e presenta notevoli vantaggi, particolarmente l'economia di vapore e di mano d'opera e l'aumento della resistenza del filato, il quale però, presenta un aspetto meno brillante, che, male apprezzato per molto tempo, è ora diventato di moda.
Lavaggio. - È un'operazione necessaria perché il filato proveniente dalla filatura è impregnato di acidi. Per il filato raccolto su bobine, il lavaggio si compie o per immersione, o per sgocciolamento o per circolazione forzata d'acqua. Col primo sistema, che è il più primitivo, le bobine vengono immerse per circa 8 ore nell'acqua corrente o per circa 20 ore in acqua frequentemente rinnovata: per quanto il sistema sia ottimo nei riguardi del lavaggio, occorrendo grandi quantità d'acqua, le fabbriche l'hanno ormai sostituito con altri.
Nel sistema per sgocciolamento, le bobine, attaccate a una catena senza fine che le fa muovere dal basso all'alto, vengono lavate dall'acqua che scende su esse da uno sgocciolatoio; le bobine, mentre salgono, sono generalmente dotate di un moto di rotazione in modo da presentare tutta la superficie al lavaggio. In luogo dello sgocciolatoio si può usare un polverizzatore.
Attualmente il sistema per circolazione forzata sembra debba sostituire gli altri due sia per il minor tempo occorrente sia per la minore quantità d'acqua necessaria. Si fonda sul principio di forzare l'acqua a passare dall'esterno della bobina all'interno, dove si è formato il vuoto: le bobine sono fissate agli orifici di un doppio fondo di una vasca di legno; gli orifici comunicano, a tenuta perfetta, con i fori praticati nelle bobine e a un primo piano di bobine se ne può aggiungere un secondo, essendo le bobine collegate fra loro a tenuta perfetta. Nel doppio fondo si fa il vuoto, che si propaga all'interno delle bobine, mentre al disopra circola l'acqua che, aspirata nell'interno delle bobine, lava il filo.
Nella filatura a centrifuga il lavaggio si eseguiva un tempo dopo che il filato era già stato messo in matassa nell'aspatura (v. oltre) ed esso si eseguiva o per immersione o a pioggia. Recentemente si è ricorsi al lavaggio nel cestello stesso di filatura, nel quale si fa pervenire l'acqua per mezzo di un polverizzatore.
Essiccazione. - Gli essiccatoi si possono classificare in essiccatoi a temperatura costante, essiccatoi a galleria metodici, essiccatoi a celle indipendenti, ed essiccatoi multicellulari a riscaldamento intermedio.
Gli essiccatoi a temperatura costante, troppo ingombranti e di cattivo rendimento, non sono ormai più usati; quelli a galleria metodici, un tempo molto usati e che trovano ancora applicazione in piccole fabbriche, servono solo per matasse in greggio o in bianco. Le matasse, infilate in un dispositivo tenditore su carrelli e trasportate nell'interno dell'essiccatoio, sono messe inizialmente a contatto con aria a temperatura bassa e grado igrometrico elevato; a mano a mano che progredisce l'essiccazione, l'aria che entra è sempre più calda e secca. Malgrado dispositivi per il ricupero del calore, tali essiccatoi hanno un rendimento piuttosto basso.
Gli essiccatoi a celle indipendenti, anch'essi usati solo in piccole fabbriche, sono costituiti da celle in cui si pongono le matasse o le bobine a grado diverso di umidità: l'aria si riscalda sopra una batteria e passa nella prima cella dove vi è del materiale già quasi secco; poi, dopo un nuovo riscaldamento, passa nella seconda cella dove vi è materiale più umido e così via fino all'ultima cella dove vi è materiale appena arrivato dal lavaggio.
Tali essiccatoi hanno l'inconveniente che occorre una massa d'aria molto grande per effettuare un essiccamento normale.
A questo si è ovviato negli essiccatoi multicellulari a galleria, nei quali il materiale, anziché fisso, come nei precedenti, è mobile e percorre tutta la galleria o per mezzo di carrelli o di catene senza fine. Una corrente d'aria calda penetra a una estremità e lambendo tutto il materiale esce all'altra estremità: il suo riscaldamento intermedio è effettuato da altra aria che penetra trasversalmente lambendo delle batterie di riscaldamento piazzate a distanze convenienti.
Torcitura. - Prima di passare alla torcitura, le bobine vengono inumidite, perché il filo si svolga facilmente: tale inumidimento può essere compiuto o in celle poste all'estremità d'uscita dagli essiccatoi, attraversate da correnti d'aria umida, o in camere apposite mantenute a un grado idrometrico vicino alla saturazione.
La torcitura ha lo scopo di dare al filato la torsione necessaria al suo uso, sia come filo di catena (200-300 giri al metro), sia come filo di trama (100-150 giri), sia come filo di organzino (1000-1500 e più giri). Le bobine s'infilano, perfettamente centrate, in sostegni verticali animati da un movimento rapido di rotazione: il filo si svolge, e si riavvolge su rocchetti di cartone girevoli ad asse orizzontale assumendo una data torsione.
Aspatura. - Allo scopo di permettere le ulteriori operazioni di desolforazione e candeggio, il filato deve essere messo in matasse, operazione che si compie su aspi, ogni aspo di legno svolgendo una dozzina di rocchetti.
Quando il filato proviene dalla filatura centrifuga e non è lavato nel cestello stesso di filatura, trascorre l'intervallo di tempo che passa prima di iniziare l'aspatura in "camere di umidificazione" o di "maturazione" la cui temperatura è tenuta sui 20-25° e il grado idrometrico vicino alla saturazione, allo scopo d'impedire la cristallizzazione delle focacce. Il filo delle focacce, essendo ancora impregnato di acido e molto umido, è notevolmente fragile e poco resistente, tanto che l'aspatura è operazione assai delicata che non si può compiere con gli aspi precedenti che sottoporrebbero il filo a tensioni pericolose, ma con aspi individuali, svolgenti cioè ciascuno una sola focaccia, o al massimo due. Dispositivi speciali sono inoltre disposti per eliminare ogni tensione del filo. Le matasse infilate in bastoni di alluminio subiscono il lavaggio passando su carrelli sotto una pioggia d'acqua abbondante e poi vengono essiccate coi metodi più sopra accennati.
Quando invece, il filato proveniente dalla filatura centrifuga subisce il lavaggio nel cestello stesso di filatura, come si è detto sopra, a questo lavaggio si fa seguire subito l'essiccamento, estraendo dal cestello le focacce di filato lavato e essiccandole in un essiccatoio. In tal caso l'aspatura non occorre più sia fatta su macchine ad aspini singoli, ma sui comuni aspatoi come per la seta su bobine.
Desolforazione e candeggio. - Le matasse così ottenute, secondo i due metodi di filatura, vengono riunite in gruppi di 10 o 12 e immerse nei bagni di desolforazione e poi di candeggio infilandole in due bacchette di vetro riunite assieme da guarniture di legno e poggianti sul bordo della vasca: il lavaggio avviene facendo girare a mano le guide.
La desolforazione del greggio si compie in un bagno di monosolfuro di sodio o di soda; la concentrazione è di 25 gr. per litro, la temperatura di 70° circa, la durata d'immersione di 10-12 minuti. Il bagno viene continuamente rinnovato a mezzo di una pompa che porta il liquido in una vasca dove viene rititolato.
Se il filato deve essere messo in commercio senza candeggio, si procede a due successivi bagni in acqua purissima a 25-30° di temperatura, della durata di 10 minuti e ulteriormente a uno di sapone di Marsiglia o di solforicinato di soda e poi si essicca.
Il candeggio, preceduto sempre da un lavaggio in acqua pura, avviene normalmente in un bagno di acqua di Javel (1 gr. di cloro libero in 1 litro d'acqua), a 30-35°, per dieci minuti. Generalmente, per avere filo molto bianco, si procede a un doppio candeggio intramezzando i due bagni con lavaggi acidi (200-300 gr. di acido solforico a 66° Bé per 1000 litri d'acqua), che vengono ripetuti dopo il candeggio, per eliminare le tracce di cloro rimaste sul filato, seguiti infine da due successivi lavaggi in acqua pura e da un bagno al sapone di Marsiglia o al solforicinato di soda.
Il candeggio si può fare, inoltre, con acqua ossigenata o con l'ozono; quest'ultimo sistema permette di eliminare un gran numero d'immersioni che sempre deteriorano il filato.
Il procedimento a mano, più sopra descritto, è stato attualmente sostituito in moltissime fabbriche da procedimenti meccanici che si possono raggruppare in tre principali: per immersione, per pioggia, per immersione e pioggia combinati.
Nel procedimento per immersione il lavaggio si compie per movimento di rotazione meccanico di coppie di aspi, in cui sono infilate le matasse, e sporgenti ai lati di una macchina che poggia sulla vasca contenente il bagno.
Nel secondo sistema a pioggia, le matasse infilate in aspi o in bastoni passano con lento movimento sotto delle docce da cui gocciola la miscela occorrente per il lavaggio. I bastoni stessi sono dotati di un movimento di rotazione che fa sì che tutta la matassa venga sottoposta alla pioggia. Il liquido dopo il lavaggio è convogliato in recipienti dove viene rititolato.
Nel sistema combinato, il liquido ripreso dalla vasca, in cui sono immerse le matasse, viene rititolato a rinviato in tubi a doccia da cui ricade sulle matasse.
Dopo il candeggio, si avvolgono le matasse in pezzi di tela e se ne estrae per mezzo di idroestrattori (v. centrifugazione) la maggior parte dell'acqua che contengono; poi si infilano su bastoni di alluminio e si portano nell'essiccatoio.
Scelta e impaccatura delle matasse. - Le matasse che hanno subito l'essiccazione vengono dapprima rammorbidite e regolarizzate, infilandole sopra una caviglia e dando loro, con la mano, dei leggieri colpi dall'interno verso l'esterno; in tal modo tornano al loro posto quei fili che si erano spostati nei diversi trattamenti. L'operazione può anche essere eseguita con macchine speciali.
Dopo questa operazione, le matasse sono scelte e divise in tre classi da operaie esperte. Per la classificazione si tiene conto dei fili rotti, di quelli arruffati, dei nodi, delle macchie, delle variazioni nella lucentezza del filo, ecc.
Infine le matasse sono messe in pacchi di 5 kg. ciascuno, comprimendole con una apposita pressa.
Titolo dei filati.
La misura internazionale del titolo dei filati di rayon è il denaro. Esso è proporzionale al rapporto fra il peso e la lunghezza del filato e precisamente corrisponde al peso, in grammi, di 9000 m. di filato. Così, p. es., un filato che pesa 100 grammi per ogni 9000 m. di lunghezza viene indicato come filato di 100 denari.
Caratteristiche dei diversi tipi di rayon.
La tenacità dei fili di rayon è misurata dal rapporto fra il carico sotto il quale avviene la rottura e l'area della sezione; quindi è espresso in grammi per denaro. Altra caratteristica importante è l'allungamento che il filo può subire senza rompersi e cioè il rapporto fra la lunghezza che il filo ha al momento della rottura e quella che aveva quando non era sotto tensione. Questo allungamento è molto superiore al limite di elasticità e cioè a quell'allungamento al disotto del quale il filo torna alla lunghezza originaria non appena la tensione cessa. Così, p. es., un rayon all'acetato può avere un allungamento del 30% e un limite di elasticità del 3% soltanto. Perché il filo non si rompa troppo facilmente nella tessitura occorre che l'allungamento non sia inferiore al 10%; ma per evitare difetti nel tessuto, è bene che non superi il 20%.
Nella tabella I sono riportati la tenacità e l'allungamento del rayon di qualità normale fabbricato coi diversi processi.
Il rayon fabbricato con il processo Lilienfeld ha una tenacità di 3-4 gr. per denaro e cioè superiore anche a quella della seta.
Il rayon all'acetato si distingue dagli altri perché, allo stato umido, perde una percentuale minore della tenacità che ha allo stato secco. Però, allo stato secco gli altri tipi di rayon sono più resistenti.
Forma della sezione e lucentezza del filamento. - I filamenti di rayon hanno sezione molto irregolare perché i loro strati esterni, che si coagulano e induriscono per primi, si raggrinzano quando gli strati interni passano alla loro volta allo stato solido, contraendosi.
La forma della sezione varia secondo la composizione del bagno, come si vede dalla fig. 35 che si riferisce a sezioni di filamenti di rayon all'acetato preparati con bagni diversi (la fig. 36 rappresenta le sezioni di filamenti di rayon al cuprammonio). I filamenti di ciascuna fabbrica hanno una sezione caratteristica, che si cerca di mantenere costante anche perché ogni variazione di essa si traduce in un differente comportamento del filato alla tintura.
Per la differenza di forma della sezione, nella tessitura si osserva che filamenti di rayon di titolo eguale possono avere un diverso potere ricoprente.
La forma della sezione, inoltre, influisce sulla lucentezza del filo. Un filamento liscio e a forma di nastro, come quello della fig. 37 (a sinistra), appare molto lucido perché riflette nella medesima direzione tutti i raggi di luce. Un filamento come quello a destra, invece, è meno lucido perché riflette i raggi in molte direzioni.
I consumatori preferiscono fili non lucidi e la cui opacità si avvicini a quella dei filati di cotone. A questo scopo si attenua la lucentezza naturale del rayon con diversi metodi, nessuno dei quali, però, dà risultati perfetti, e che, inoltre, presentano lo svantaggio di far diminuire la resistenza del filamento: a) incorporando al rayon delle altre sostanze come sali di bario e di titanio; b) desolforando incompletamente il filamento di rayon alla viscosa; c) modificando la superficie del filamento per via meccanica o chimica; p. es., il rayon all'acetato può essere trattato con alcali oppute con vapore; negli altri processi i fili possono essere trattati con olî oppure con cere.
Filamenti cavi. - Per accrescerne il potere ricoprente e abbassarne il peso specifico si fabbricano filamenti di rayon che contengono delle bolle di gas, possibilmente riunite in modo da formare un canale interno. Queste bolle si ottengono mescolando alla soluzione da filare delle sostanze (p. es., bicarbonato di sodio) che sviluppano gas che non attaccano il rayon, oppure passano allo stato di vapore quando si riscalda il filamento (come alcuni derivati del petrolio).
Nel processo all'acetato, si ottiene lo stesso risultato filando in bagni che sciolgono il solvente, lasciando dei vuoti.
Nella filatura a secco si ottengono filamenti cavi sottoponendoli, all'uscita dalla filiera, a una temperatura molto superiore al punto di ebollizione del solvente.
Industria.
Nei primi anni, la produzione del rayon si sviluppò principalmente in Francia, in Inghilterra, in Germania e nel Belgio, cioè nei paesi degli inventori dei diversi processi e dei primi finanziatori dell'industria. In questi paesi l'industria aveva trovato condizioni favorevoli: una progredita industria chimica, che permetteva di compiere tutti gli studî e gli esperimenti necessarî; tecnici e operai che potevano con relativa facilità specializzarsi nella nuova lavorazione, perché già esperti di lavorazioni affini, e una fortissima industria tessile, capace di assorbire le nuove fibre tessili.
Nel 1906 esistevano 23 fabbriche di rayon, delle quali 7 in Germania, 6 in Francia, 4 in Svizzera, 3 in Italia, 2 in Inghilterra, 1 in America. Allo scoppio della guerra mondiale il numero delle fabbriche era salito a 40.
Fino alla vigilia della guerra mondiale, l'industria del rayon fu dominata da tre gruppi: l'inglese Courtaulds, il tedesco Glanzstoff, e il francese Comptoir des Textiles Artificiels (quest'ultimo costituito nel 1911), i quali nel 1911 fornivano l'85% della produzione mondiale. Nei riguardi della politica generale dell'industria, essi seguivano quasi sempre le stesse direttive.
La guerra mondiale spezzò o indebolì i legami fra le diverse imprese e fece contrarre fortemente gli scambî internazionali, aprendo la via al sorgere di produzioni nazionali; mentre la difficoltà dell'approvvigionamento di fibre tessili naturali rendeva più interessanti quelle artificiali. Frattanto si perfezionava la tecnica e si stabiliva un nuovo equilibrio fra i prezzi delle fibre tessili naturali e delle artificiali: equilibrio più favorevole a queste ultime, le quali erano ulteriormente avvantaggiate da un mutamento dei gusti dei consumatori.
A guerra finita, la richiesta intensissima e la deficiente produzione portarono allo sviluppo dei vecchi gruppi, e anehe al sorgere di nuove iniziative, stimolate dalla speculazione finanziaria, che sopperivano alla mancanza di esperienza contendendosi i tecnici delle vecchie fabbriche. Il numero delle imprese, che alla fine della guerra era di qualche decina, salì a oltre 200 in pochi anni. I capitali investiti nell'industria presto sommarono a più di 20 miliardi di lire. Gli Stati Uniti, che avevano il vantaggio di un vastissimo mercato interno, diventarono grandissimi produttori e l'Italia impiantò anch'essa una grande industria del rayon, principalmente per l'esportazione. In questo periodo di febbrile espansione, ogni contatto fra i gruppi fu trascurato.
I segni precursori della depressione mondiale indussero a riallacciare le relazioni. Nel 1927-28 i quattro grandi gruppi, Courtaulds, Glanzstoff, Comptoir e Snia Viscosa, che controllavano il 75% della produzione mondiale, cercarono di regolare i prezzi, associandosi in una Convenzione internazionale e fondando, insieme alla olandese Enka e alla Emmenbrücke, il BISFA (Bureau International pour la Standardisation des Fibres Artificielles) con sede a Basilea, che aveva lo scopo di stabilire norme uniformi per il commercio delle fibre tessili artificiali. Ma l'azione dei gruppi minori, alcuni dei quali avevano possibilità finanziarie e tecniche tutt'altro che trascurabili, fece fallire il tentativo. Nel 1929 la Convenzione internazionale del rayon dovette rinunziare a ogni reale attività di regolazione dei mercati. Oltre alle relazioni dirette fra i grandi gruppi, rimasero, però, e si rafforzarono i sindacati nazionali, come l'italiano Italrayon.
Nel 1929 la Glanzstoff operò uno scambio di azioni con l'olandese Enka che assunse il nome di A. K. U.
Tramontata l'illusione di poter sistemare l'industria mediante grandi concentrazioni, la crisi mondiale, accentuando la concorrenza determinò un processo di selezione delle imprese. Questa selezione si tradusse in una riduzione del costo di produzione che, secondo alcuni competenti, nel 1934 era sceso al 50% di quello del 1928.
Però, i prezzi precipitavano, riducendosi nel 1934 al 25% circa di quelli che erano stati nel 1924, mentre ribassavano pure i prezzi delle concorrenti fibre tessili naturali.
Merita rilievo il fatto che, anche in queste condizioni, l'esportazione del rayon dai paesi produttori, che nel 1930 si calcolava in 55 milioni di kg., poté salire a 66 milioni nel 1934.
Raggiuntasi ormai una relativa stabilità nei riguardi del progresso tecnico - al quale si doveva la massima parte delle economie realizzate fino allora sul costo di produzione - l'industria cominciò a svilupparsi più rapidamente in paesi che dispongono di mano d'opera più a buon mercato. Per questa ragione, negli ultimi anni il Giappone ha potuto compiere progressi rapidissimi, portandosi al secondo posto fra i paesi produttori. Ma questa tendenza è stata energicamente contrastata dai governi, ciascuno dei quali ha protetto l'industria nazionale - e non soltanto con dazî doganali - sicché la produzione del rayon nei maggiori mercati di consumo (p. es., negli Stati Uniti) è rimasta forte.
I dati sulla produzione mondiale (sia complessiva sia distinta per paesi) e sul consumo, sono indicati nelle tabelle II, III e IV. Va ricordato, però, che le cifre ivi riportate, sebbene siano quelle accettate dai competenti, non sono fondate su rilevazioni ufficiali, perché queste mancano, fuorché in pochissimi paesi (uno dei quali è l'Italia). Inoltre è dubbio se i dati comprendano oppur no la produzione di fibre corte.
Per l'esportazione, primo fra tutti gli stati è l'Italia con circa 21 milioni di kg. (1934); seguono il Giappone e la Francia (10 milioni a testa), l'Olanda (8 milioni), la Germania (5 milioni), la Gran Bretagna (4,7 milioni), la Svizzera (4,4 milioni), il Belgio (3,5 milioni).
La distribuzione percentuale della produzione fra i diversi processi e per diversi anni è data dalla tab. V. Si rileva il grandissimo sviluppo della produzione del rayon alla viscosa e più recentemente di quello all'acetato. La produzione del rayon al cuprammonio, che aveva perduto terreno dopo l'affermazione del processo alla viscosa, aveva avuto una ripresa dopo la guerra; ma lo sviluppo del rayon all'acetato ha portato a un nuovo regresso. La produzione di rayon alla nitrocellulosa ormai è quasi trascurabile.
Nel 1932 le società per la produzione delle fibre tessili artificiali erano circa 100 e gli stabilimenti circa 200, sparsi in 16 paesi d'Europa, d'America e d'Asia.
I capitali investiti nell'industria sommavano a 16 miliardi di lire e, tenuto conto del valore degl'impianti eseguiti con le riserve delle diverse imprese, l'investimento complessivo poteva calcolarsi in 29,5 miliardi di lire. Circa i ¾ di questo capitale spettavano agli Stati Uniti (che, però, per questa industria erano stati in gran parte finanziati dall'Europa), all'Inghilterra e all'Olanda.
Per quel che riguarda i prezzi, si ricorda che una libbra inglese di rayon viscosa, 1ª qualità, titolo 150 denari, negli Stati Uniti costava $ 1,85 nel novembre 1914; $ 6 nel febbraio 1920; 1,15 nel giugno 1929 e soli $ o,50 nell'aprile 1933. Da questo minimo, il prezzo era risalito a soli $ 0,60 nel gennaio 1935, mentre, contemporaneamente, il dollaro veniva svalutato.
Industria italiana. - Nell'industria mondiale delle fibre tessili artificiali l'Italia ha una posizione preminente. Fino al 1933 era, infatti, al secondo posto fra i paesi produttori ed è tuttora al primo posto fra i paesi esportatori.
L'affermazione e lo sviluppo della produzione delle fibre tessili artificiali in Italia hanno trovato la loro base principale nell'esportazione; perché il consumo interno del paese non avrebbe richiesto che impianti di modesta capacità.
I primi impianti per la produzione del rayon in Italia furono fatti nel 1905. Alcuni anni dopo ne sorsero altri; ma si trattò sempre di impianti sperimentali, i quali non diedero che piccole quantità di prodotto utilizzabile industrialmente. La produzione nel 1913 fu valutata in kg. 150.000. La guerra mondiale disorganizzò questo embrione di industria, ma nel periodo successivo, essa risorse con rinnovata vitalità e, per il forte sviluppo dell'esportazione, non tardò ad attrezzarsi con stabilimenti grandiosi, di alta capacità produttiva e dotati degl'impianti più perfezionati.
L'esistenza di mano d'opera pratica delle lavorazioni tessili e richiedente salarî minori di quelli corrisposti in altri paesi, l'abbondanza di energia elettrica e di materie prime - la cellulosa esclusa - furono altrettanti elementi favorevoli al progresso dell'industria. Per di più, il fatto che tutti i paesi produttori di rayon sono egualmente costretti a importare la cellulosa dai paesi del nord metteva l'Italia allo stesso loro livello sotto questo punto di vista. E poiché questa materia prima incide assai poco sul costo di produzione - essenzialmente dominato dalle spese di trasformazione - l'industria dei tessili artificiali in Italia si presentava fin dall'inizio come un'attività favorita da elementi assai propizî per il suo sviluppo.
Nel 1920 la produzione italiana raggiunse quasi 1.500.000 kg., ma l'espansione dell'attività produttiva si compì specialmente a partire dal 1925, nel periodo cioè di più intensa domanda internazionale del nuovo tessile e quando la svalutazione della lira agevolava il lavoro d'esportazione.
Gl'impianti costruiti in periodi di alti prezzi divennero però eccessivamente pesanti al momento della rivalutazione della moneta e del progressivo abbassamento dei prezzi internazionali del prodotto. Le aziende più sane e più forti quindi, compirono una revisione, quelle finanziariamente deboli o tecnicamente male attrezzate furono eliminate o assorbite dalle maggiori, gl'investimenti che avevano superato i due miliardi di lire vennero svalutati a poco più di 800 milioni di lire e tutta l'organizzazione industriale e commerciale del rayon in Italia si adeguò al nuovo stato di cose.
Per avere un'idea dei risultati conseguiti nella razionalizzazione dell'industria basta osseriare che mentre dal 1929 al 1934 la produzione dei tessili artificiali è aumentata da kg. 32.342.000 a kg. 48.251.600, comprese in quest'ultime cifre anche le fibre corte (fiocco) e il numero delle filiere attive da 89.857 a 105.626, il numero degli operai è diminuito da circa 40.000 a poco più di 20.000.
L'eccezionale rapidità dello sviluppo dell'industria delle fibre tessili artificiali in Italia è documentata dalle cifre della tab. III. Da questa tabella risulta che l'Italia si trova al primo posto in Europa per la produzione del rayon e al terzo rispetto al mondo, essendo preceduta solo dagli Stati Uniti e dal Giappone. E risulta inoltre che dal 1924, anno in cui essa era al terzo posto in Europa e al quarto nel mondo, la sua produzione si è sestuplicata.
Occorre tener presente che circa il 94,5% della produzione di filato continuo è costituito da rayon viscosa, mentre il 4,5% è di rayon acetato e l'1,5% di rayon cuprammonio. Le cifre fino a tutto il 1933 sono al netto della produzione di fibre corte le quali sono tutte fino a ora fatte secondo il procedimento alla viscosa.
Alla produzione del rayon in Italia concorrono tre gruppi principali: la Snia Viscosa, con sede in Milano, la Società generale italiana della viscosa, con sede a Roma e la Châtillon, con sede a Milano, oltre a gruppi minori.
Esiste inoltre un consorzio fra tutte le fabbriche italiane, l'Italrayon, con sede a Milano, che ha lo scopo di controllare il commercio interno ed estero del rayon.
Il consumo del ravon in Italia, come abbiamo già accennato, non è notevole. Per il consumo industriale vedi tab. IV.
Difficile è una valutazione della distribuzione di questo consumo nei varî rami dell'industria manifatturiera; una stima approssimativa è la seguente: tessitura (prevalentemente tessuti misti), 80%; maglieria e calzetteria, 12%; passamanerie, 7%; altri, 1%.
Non tutto il rayon impiegato dall'industria manifatturiera costituisce un reale assorbimento della popolazione italiana, perché hanno notevole importanza anche le esportazioni di manufatti interamente o parzialmente di rayon. È probabile che il consumo reale italiano sia di ca. 12 mil. di kg.
Considerando gli scambî di rayon fra l'Italia e l'estero (tab. VI), si nota innanzi tutto che le importazioni non hanno grande importanza. Esse sono soprattutto costituite da filati temporaneamente importati in Italia, trasformati e successivamente riesportati all'estero.
I principali paesi fornitori sono la Svizzera (kg. 343.673 nel 1934), la Germania (kg. 357.380, nel 1934), la Gran Bretagna (kg. 161.931, nel 1934), la Francia, l'Olanda.
Per quanto riguarda i manufatti, il grosso delle importazioni è costituito da tessuti interamente di rayon, che sono forniti prevalentemente dalla Svizzera e dalla Francia e da tulli e crespi interamente o parzialmente di rayon provenienti soprattutto dalla Svizzera.
La tab. VII dà un'idea della distribuzione delle esportazioni negli anni 1932-34. Alle esportazioni di filati vanno aggiunte le esportazioni di cascami e di fibre corte che si sono dirette negli ultimi anni soprattutto verso la Germania e la Spagna.
Quanto alle esportazioni di manufatti, i tessuti interamente di fibre artificiali trovano smercio soprattutto in Gran Bretagna, Olanda, Svizzera, Belgio, India, Egitto, Stati Uniti e Uruguay, mentre i tessuti misti si vendono specialmente in Gran Bretagna, nelle Indie Britanniche, in Egitto, nel Marocco, in Argentina, e negli Stati Uniti.
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