Aron, Raymond
Sociologo, filosofo della storia e della politica, analista di politica internazionale e giornalista, A. nacque a Parigi nel 1905. Dopo gli studi presso l’École Normale Supérieure si trasferì a Berlino per approfondire le ricerche sulla fenomenologia e sullo storicismo tedesco; la sua iniziale lettura del machiavellismo, intesa come tecnica di conquista violenta del potere, fu influenzata dall’esperienza degli anni 1930-33, in cui si andava affermando il movimento nazionalsocialista. Dopo la guerra, vissuta dall’esilio londinese accanto a Charles De Gaulle, si dedicò all’insegnamento e all’attività di commentatore politico, divenendo una delle figure chiave della cultura liberale francese ed europea. La sua fama presso il largo pubblico fu determinata dalla pubblicazione nel 1955 del pamphlet L’opium des intellectuels: una dura requisitoria contro i miti ideologici della sinistra marxista (la classe, il proletariato, la rivoluzione). Noto soprattutto per i suoi studi polemologici e sulla costellazione politico-diplomatica della guerra fredda (il suo volume del 1962 Paix et guerre entre les nations divenne ben presto un classico delle relazioni internazionali), A. ha dedicato volumi e saggi ancora oggi molto apprezzati all’evoluzione delle società industriali, alle trasformazioni dei regimi democratico-costituzionali, alla dinamica delle rivoluzioni del 20° sec. e alla storia della sociologia (disciplina tra i cui padri fondatori egli ha inserito, in modo originale, Montesquieu e Tocqueville). Morì a Parigi nel 1983, a poche settimane dalla pubblicazione delle sue voluminose memorie.
Le sue prime riflessioni organiche su M. si trovano nei quattro capitoli di un volume composto tra il 1938 e il maggio 1940: rimasto incompiuto, è stato pubblicato postumo nel 1993. M. viene presentato come l’iniziatore di una tradizione di pensiero politico – appunto il machiavellismo – basata sul primato dell’osservazione empirica, sulla ricerca delle uniformità che caratterizzano le azioni individuali al di là delle epoche storiche e delle motivazioni d’ordine intellettuale elaborate per giustificarle, sul rifiuto dell’idea di progresso, su una concezione pessimistica della natura umana, su una filosofia della storia che postula la fatalità della corruzione e la perennità delle passioni umane e, soprattutto, su una visione radicalmente conflittuale, cinica e in prospettiva nichilista del mondo politico-sociale. L’autore del Principe – un manuale pratico che A. stigmatizza come «la formulazione precisa di una tecnica della tirannia» (Machiavel et les tyrannies modernes, 1993; trad. it. 1998, p. 100) – viene presentato come il fautore di un «realismo razionalista » il cui unico obiettivo intellettuale, sganciato da qualunque preoccupazione d’ordine valoriale, è di «ricondurre il disordine degli eventi a uniformità comprensibili, di generalizzare, sotto forma di consigli di prudenza, le regolarità osservate» (p. 130).
Per A., che nei suoi studi di filosofia della storia aveva criticato tutte quelle dottrine che riducono la condotta umana e l’agire sociale a fattori storici oggettivi o a forze impersonali, una concezione politica come quella attribuita a M., intrisa di naturalismo e determinismo, che aspira a presentarsi come oggettiva neutrale e scientifica e che dunque poco spazio sembra lasciare alla libertà e alle virtù individuali, risulta largamente inaccettabile. Essa infatti propone, secondo A., un’immagine dell’uomo come «essere sempre eguale a sé stesso e sempre vittima e artefice delle stesse calamità (e vicissitudini)» (p. 138) e una visione della storia tutta orientata verso il passato e come tale incapace di proporre una qualunque visione del futuro. È altresì una concezione che sfocia nel conservatorismo sociale e in una forma di accettazione passiva della realtà.
Come lo stesso A. riconosce a distanza di anni quest’interpretazione si basava su una conoscenza dell’opera di M. parziale e approssimativa, nonché troppo condizionata dall’attualità storica. Il suo principale interesse, in effetti, era utilizzare la categoria del «machiavellismo» – ridotto a una sorta di scienza del potere fondata sulla violenza, sull’astuzia e sulla propaganda – come chiave di lettura del fenomeno totalitario, del quale è stato tra i primi e più originali analisti dal punto di vista teorico. Nell’imminenza del conflitto mondiale che sta per esplodere la preoccupazione principale di A. è quella di mettere in guardia le democrazie dai discepoli novecenteschi di M., che egli presenta – forzando il pensiero autentico del Segretario – come politici indifferenti ai valori spirituali, impegnati a manipolare le masse e attratti solo dal potere. A suo giudizio, la radicalizzazione ideologica del realismo «integrale» o «cinico» di M. – i cui tratti salienti (già indicati qui sopra) egli ritrova nell’opera sociologica di Vilfredo Pareto, presentato come il principale ispiratore intellettuale del fascismo – rappresenta la base psicologica e dottrinaria dei movimenti e regimi dittatoriali comparsi in Europa dopo la Grande guerra.
Tuttavia con il modificarsi della congiuntura storica, cambia anche il giudizio di Aron. Una prima e parziale correzione si ha già qualche anno dopo. A Jacques Maritain che, nel saggio del 1942 The end of Machiavellianism, postula una perversa linea evolutiva che va dal realismo di M. al biologismo di Hitler, A. risponde l’anno successivo con uno scritto nel quale, rispetto al recente passato, esprime una posizione meno pregiudiziale nei confronti degli insegnamenti machiavelliani. La critica (legittima) al machiavellismo inteso come inganno e brutalità non può farci dimenticare, scrive A., che la giustizia e il bene comune debbono talvolta essere difesi con la forza, che gli imperativi morali devono fare i conti con l’insuperabile imperfezione della natura umana e che non è sempre facile, specie quando si hanno responsabilità di governo, stabilire un confine netto tra «l’astuzia legittima» e «l’inganno immorale». Rimane merito di M., conclude lo studioso francese, aver messo in luce la tensione drammatica che governa il mondo politico e che si riassume nella dialettica tra successo temporale e visione etica, tra azione efficace e precetti morali.
La strada è così aperta per un confronto più sereno e maturo con M., del quale A. finirà per definirsi, nel saggio del 1969 Machiavel et Marx, un «discepolo liberale», convinto anch’egli – come già il Fiorentino, che da ispiratore dell’autoritarismo finisce così per essere recuperato in una inedita chiave liberale – che non esistendo uomo incapace di abusare del potere assoluto non si possa fare altro che «frenare il potere con il potere» e «preferire l’imperfezione e l’instabilità di regimi che vivono alla luce del sole all’ingannevole tranquillità della tirannia di uno solo o di pochi» (trad. it. in La politica, la guerra, la storia, 1992, pp. 132-33).
Bibliografia: Machiavel et les tyrannies modernes, éd. R. Freymond, Paris 1993 (trad. it. Machiavelli e le tirannie moderne, Roma 1998); Machiavel et Marx (1969), in Id., Études politiques, Paris 1971, pp. 56-74 (trad. it. Machiavelli e Marx, in Id., La politica, la guerra, la storia, Bologna 1992, pp. 115-34).
Per gli studi critici si vedano: S. Freschi, Raymond Aron e Niccolò Machiavelli: le désir de la réalité, «Esercizi filosofici», 2007, 2, pp. 41-65; D. Bronzuoli, Raymond Aron interprete di Pareto e Machiavelli, «Il pensiero politico», 2010, 43, pp. 34-62.