RAVENNA (A. T., 24-25-26)
Città dell'Emilia, capoluogo di provincia; sorge a 4 m. s. m. e a 6 km., in linea retta, dall'Adriatico, in una pianura uniforme; a S. della città sono i Fiumi Uniti, Montone e Ronco, mentre lungo il lato settentrionale e quello orientale corre oggi la ferrovia; solo ad ovest si stende la campagna aperta. La forma di Ravenna può essere avvicinata a un rettangolo con un ingrossamento a occidente. Il corso Garibaldi, che rappresenta la maggior lunghezza della città da N. a S., termina con due porte, la porta Serrata a N. e la Porta Garibaldi o Nuova, che conduce nel sobborgo o borgo Garibaldi, a S. Nella parte verso terra altre porte si aprono nelle mura: Porta Saffi o Porta Adriana che conduce al sobborgo Saffi o S. Biagio e immette nella via Faentina, Porta Aurea o Porta Gaza, nella parte di SO., Porta S. Mamante e Porta Sisi, a S., vicinissime, che limitano il sobborgo Fratti, e finalmente, dalla parte verso mare la Barriera Alberoni che porta verso la darsena del Canale Corsini.
Pare che la parte più antica della città si debba ricercare in quel rettangolo di case che le mura del Torrione e le mura di Porta Aurea o di Porta Gaza limitano parzialmente e che è completato da altre due linee, l'una delle quali parallela alla prima, passante per la Torre dei Preti e per la Porta Gaza e collegantesi con l'altra là dove ora è S. Domenico; qui giungeva l'altra parallela, includente lo spazio in cui adesso si eleva la chiesa di S. Vitale.
Successivamente la città s'è ampliata verso N., giungendo alla chiesa di S. Vittore, nelle vicinanze di Porta Serrata, e verso S. fino a Porta Nuova. Ma il giro attuale delle mura è dei primi tempi del Medioevo. In tempi più recenti, oltre a modificazioni interne, ché molti spazî vuoti si sono popolati di edifici, si sono costituiti i sobborghi e, tutt'intorno, Ravenna s'è popolata di case e di villini. Il sobborgo S. Biagio o Saffi, lungo la strada Faentina, è per oltre 500 m. fiancheggiato da case, le quali continuano numerose fino al Foro Boario: quindi si diradano per tornare poi frequenti verso il sobborgo di S. Rocco o Fratti, dove la strada Ravegnana, nel suo primo tratto, è folta di edifici.
Anche la parte suburbana rivolta al mare ha visto svilupparsi le abitazioni a scapito dei campi e dei prati. Pur tuttavia restano ancora numerose le plaghe vuote nell'interno della città, specialmente a E., fra Via Garibaldi e la linea ferroviaria, e nell'angolo a SO., fra Via Mazzini e Via Cavour.
Il centro di Ravenna è sempre costituito dalla piazza principale, Piazza Vittorio Emanuele, dove sorgono il municipio ed il Palazzo del Governo, e dalla Piazza Alighieri, entrambe poste nelle vicinanze del Campidoglio dell'antica Ravenna quadrata.
A Ravenna fu dato l'epiteto di "silenziosa", e realmente è città che si differenzia da tutte le sue consorelle romagnole ed emiliane per il silenzio che abitualmente vi regna. Solo nei giorni di mercato la città è affollata e quasi rumorosa; del resto tutta la sua vita commerciale s'aduna là dove comincia il Canale Corsini o alla Marina: nelle strade interne regna la quiete; onde a chi la vede per la prima volta può sembrare che la città abbia scarse risorse e non presenti altro interesse che quello inerente ai suoi monumenti insigni. Eppure è città piena di attività: le sue campagne intorno sono fiorenti, i suoi commerci sono vivaci ed il suo porto-canale è il maggiore di tutta l'Emilia ed ha buon movimento di navi e di merci. Nuoce a Ravenna il non essere legata a Bologna da una ferrovia diretta, la quale faciliterebbe i commerci e le relazioni.
La popolazione della città era nel 1921 di 23.063 ab. nel centro e 5770 in case isolate; 27.521 nel 1931; ma la popolazione dell'ampio comune di Ravenna è quasi tre volte quella del centro urbano (vedi sotto).
Fra le istituzioni culturali di Ravenna è principalissima la Biblioteca Classense, di proprietà del comune. Sorta al principio del Settecento (1707-11), la Classense divenne municipale nel 1804.
Essa s'è via via accresciuta per lasciti o soppressione di congregazioni religiose, quali quelle di Porto, di Classe, di S. Vitale e di S. Andrea. Migliaia di volumi, numerosi incunabuli, manoscritti e pergamene contiene la Classense, che è in edifizio dignitoso ed ha anche una sala dedicata al divino poeta, nella quale sono raccolte le edizioni dantesche e tutte le pubblicazioni relative a Dante e alla sua opera.
Ravenna ha anche un'accademia di belle arti che ormai ha un secolo di vita e che è mantenuta dal comune e dalla provincia, e una pinacoteca, dove si adunano tavole di diversa provenienza, dovute a lasciti, a trasferimenti da chiese e da altri luoghi, e dove è possibile studiare le scuole della pittura romagnola e le scuole emiliane.
Degno di ricordo, perché assai ricco di carte preziose, è l'archivio arcivescovile, che contiene oltre 11 mila pergamene, alcune delle quali risalenti alla prima metà del sec. IX.
Né qui si fermano le istituzioni di carattere culturale di Ravenna: tre teatri sono aperti nella città, e di essi il Teatro Alighieri, costruito verso la metà del secolo XIX, ha scene dovute a distinti scenografi e due siparî famosi.
Tutti gli ordini di scuole sono rappresentati in Ravenna, che ha un liceo classico, un liceo scientifico, un istituto tecnico, un istituto magistrale e molte scuole di avviamento. Inoltre vi è un seminario areivescovile, ché Ravenna è sede di arcivescovo, e un istituto salesiano.
Nel campo dell'assistenza sono da ricordare due orfanotrofî, uno per i maschi, l'altro per le fanciulle, un conservatorio femminile, quello Galletti-Abbiosi, l'educandato delle Tavelle, l'Ospizio Pallavicino-Baronio per i vecchi. Vanta poi una congregazione di carità, assai ricca, e un ospedale civile, dovuto ai lasciti di generosi cittadini.
Il comune di Ravenna è uno dei più vasti dell'Italia; si stende su una superficie di 646,84 kmq. e su questa vivevano, nel 1921, 71.877 ab. (111 per kmq.) e nel 1931, 78.143 ab. (120 per kmq.). Oltre al capoluogo il comune comprende 35 frazioni delle quali solo 13 hanno popolazione raccolta in centri oltreché disseminata nelle case sparse, mentre 22 hanno soltanto case sparse.
Ciò che per Ravenna ha maggior importanza, e che costituisce per essa il mezzo più atto per sviluppare le sue energie economiche, è indubbiamente il porto-canale Corsini.
Un tempo Ravenna ebbe due porti, quello di Primaro e l'altro di Classe, ed in entrambi trovavano sicuro rifugio le navi romane. Il decadimento della città ebbe come conseguenza la trascuranza dei porti e delle opere inerenti, onde i fiumi del vicino litorale colmarono le lagune e i loro accessi, e fu resa necessaria l'escavazione di canali attraverso i quali la città mantenesse il suo contatto col mare. L'ultimo di questi canali fu aperto nel 1652 dal pontefice Innocenzo X, e da lui ebbe il nome di Canale Candiano; ma già al principio del Settecento pessime erano le sue condizioni, sicché, quando fu compiuta la diversione dei fiumi Ronco e Montone, il che avvenne nel 1737, esso fu soppresso e si diede principio a scavare l'attuale naviglio, chiamato Canale Corsini dal nome del papa Clemente XII. La sua costruzione presentò non piccole difficoltà; e più volte il tracciato fu modificato e corretto fra gli anni 1754-1860. La foce fu armata di palafitte, fu approfondito fino a m. 1,50 sotto l'alta marea ordinaria; fu ristretto lo sbocco, furono prolungati i moli e lateralmente scavati dei canali così detti animatori. Risale a questo primo periodo di vita del canale la costruzione presso la città, a SE., di una darsena, lunga 300 m. e larga 25; e sono del Settecento i magazzini della darsena.
Passata Ravenna sotto il governo italiano, vennero compiute nuove opere, che accrebbero la potenzialità del canale: nuove palafitte furono costruite, nuovi canali aperti lateralmente: fu aggiunta una darsena a NE. e fu approfondito il canale.
Il porto di Ravenna è quindi costituito ora di tre parti distinte: le darsene, presso la città, che si possono considerare come il vero porto di Ravenna, il Canale Corsini, tra la città e il mare, e il porto allo sbocco del canale, detto Porto Corsini. Le due darsene misurano ha. 3,6 di superficie, il canale è lungo km. 11,200, e i due moli insieme misurano 1760 m. Anche le banchine, dapprima di minore sviluppo, si sono accresciute fino ad abbracciare 2610 m. Notevoli furono i lavori portuali compiuti dal 1860 al 1905, e le migliorie arrecate nel venticinquennio 1905-30; dal 1905 al 1914, soprattutto si diede opera all'ampliamento della Darsena Baccarini, al prolungamento dei moli ed all'escavazione di canali; poi, dopo il periodo bellico che rallentò ogni sorta di lavori, dal 1919 al '22, funzionò l'Ente portuale di Ravenna, e dal 1923 al 1930, si ripresero e intensificarono tutti i lavori di miglioramento e di rammodernamento.
Gli effetti si videro nei traffici accresciuti: nel 1921 il porto di Ravenna aveva un complesso, tra merci uscite e merci entrate, di 72.521 tonnellate; e il movimento saliva, a 260.202 tonn. nel 1925, a 423.042 nel 1930, a 430.351 nel 1931. È vero che l'anno dopo segnava un regresso e che questo diminuire è continuato anche nel 1933, ma ciò è stato effetto della crisi mondiale. Numerose fabbriche sono situate nella zona del porto e si servono direttamente delle calate di operazione: una raffineria di zolfi, due fabbriche di laterizî e calce, una fabbrica di cementi Portland e di calce idraulica, uno stabilimento della Società Montecatini, a sinistra della Nuova Darsena; una fabbrica di concimi chimici della "Società interconsorziale romagnola per prodotti chimici", a destra; quattro officine meccaniche, quattro magazzini di legname da costruzione a Porto Corsini.
Ma altri lavori si stanno attuando o sono in progetto: il canale non offre ancora sufficiente profondità, le sponde devono essere più stabilmente sistemate, si vuole rendere possibile l'ingresso e l'uscita, anche di notte, a navi di grosso tonnellaggio; e poiché sono sorti vasti magazzini moderni, capaci di 300 mila quintali di merce e con mezzi rapidi di scarico e d'immagazzinamento, e poiché un servizio rapido di navigazione toccherà settimanalmente Ravenna, e si pensa a un'autostrada che metta in comunicazione Bologna con Ravenna, appare chiaro il destino della vecchia città, ormai consacrata a divenire il porto dell'Emilia.
Monumenti e arte. - Fra il corso del Padenna, una delle ultime derivazioni del Po e della valle Padusa, e quello di un suo affluente, s'incuneava l'oppido municipale romano, cinto dalle mura che ancora oggi in parte sussistono; a levante si stendeva come un grande sobborgo la regione cesarea, attraversata dalla via omonima che si prolungava fino al porto di Classe; a nord-ovest la regione della domus Augusta, o palazzo imperiale del sec. V: tale il circuito dell'antica Ravenna, non di molto ampliato dalle posteriori accessioni.
Nessuna traccia dei monumenti che abbellivano la primitiva città municipale, Campidoglio, anfiteatro, circo, templi. Non restano che gli avanzi della porta aurea, che sorgeva all'inizio del cardine principale. L'epigrafe dedicatoria, nota per la tradizione manoscritta e confermata dai frammenti rinvenuti, la dice eretta nel 43 al tempo dell'imperatore Claudio, al quale forse si dovette la sistemazione delle mura. Rimasta interrata con l'abbassamento del suolo ravennate, fu distrutta nel 1582, e i suoi travertini o andarono dispersi o passarono a ornare altre porte della città. Nel 1907-08 si fece uno scavo per isolarne gli avanzi incorporati nell'elevazione veneziana delle mura o esistenti sotterra, e furono scoperte allora le basi delle due torri laterali, cornici, stipiti e altre parti, che con gli eleganti capitelli, con un pezzo di sottarco a cassettoni, con le due patere a volute e palmette e coi frammenti dell'iscrizione si conservano nel R. Museo. Porta Aurea fu riprodotta come monumento rappresentativo nei sigilli medievali di Ravenna, e studiata e disegnata nel Rinascimento da A. da Sangallo il giovane, dal Palladio e da altri artisti.
Di grande importanza archeologica e artistica è nello stesso museo il rilievo marmoreo che va sotto il nome di Apoteosi d'Augusto, e che rappresenta personaggi della famiglia Giulio-Claudia, nei quali sono da riconoscere con buona probabilità Livia, Tiberio eroizzato, Druso, Agrippa e Giulia identificata con la Dea Roma. Le figure, come in altri rilievi del primo periodo imperiale, staccano quasi per intero dal marmo, come statue a tutto tondo. Questa scultura apparteneva ad una più vasta rappresentazione, alla quale è da connettere anche il gruppo sacrificale dei suovetaurilia di cui rimane solamente il toro coi vittimarî.
Nelle raccolte archeologiche ravennati si conservano parecchi rilievi ellenistici di finissimo lavoro e un gran numero di epigrafi dei marinai della flotta di Classe (v.), fra le quali le stele funerarie dei Longidieni e della famiglia Firmia-Latronia, coi ritratti dei defunti, nei quali si rivela un'arte locale provincialeggiante, ma d'un forte carattere romano.
Da un documento del sec. VII abbiamo indizio che appartenessero al Campidoglio, certo provengono da un unico insigne monumento, i rilievi dei Troni, in cui graziosi puttini su sfondi architettonici di tipo ellenistico portano gli attributi delle principali deità pagane. Questi rilievi si trovano sparsi nei musei di Venezia, di Milano, di Firenze, di Parigi, e a Ravenna ne restano due, incastrati per ornamento nei pilastri esterni del presbiterio di San Vitale e rappresentanti il Trono di Nettuno.
Pezzi architettonici dei primi secoli dell'impero furono impiegati nelle costruzioni posteriori, e fra i mattoni di queste ne sono stati trovati molti che hanno i bolli di fabbriche romane. Sul rovescio di epigrafi pagane furono incisi titoli della comunità cristiana formatasi a Classe circa alla fine del sec. II.
Così al vecchio mondo sottentrava lentamente la nuova vita. La trasformazione è simboleggiata nel gesto di Sant'Apollinare che abbatte gli idoli e accetta il martirio.
Dopo la pace costantiniana i primi edifizî sacri sorsero a Classe. In Ravenna soltanto sullo scorcio del sec. IV, se non addirittura nell'esordio del V, fu costruita, a ridosso della cinta muraria municipale, secondo la consuetudine più antica, la cattedrale che dal suo fondatore ebbe il nome di Ursiana. Essa segna l'inizio di quei cicli costruttivi che si aprirono col trasferimento della sede imperiale in Ravenna.
La Basilica Ursiana fu intitolata alla Santa Anastasi o Resurrezione di Cristo. Costruita forse fino dall'origine a cinque navate, rialzata nel sec. XII, fu del tutto rifatta nel Settecento. Per tal modo e per colpa del nefasto architetto Francesco Buonamici scomparve uno dei più importanti capisaldi dell'arte costruttiva ravennate. Non rimasero di notevole che pochi capitelli lavorati a tralci di vite o foglie d'acanto e figure d'animali, d'un tipo commerciale che vediamo diffuso in tutto il Mediterraneo, e alcuni frammenti del musaico che adornò l'abside nel sec. XII.
Nella regione cesarea, Galla Placidia eresse la chiesa del suo voto, che fu ad un tempo l'affermazione del principio legittimistico della successione imperiale nella famiglia teodosiana. Rimaneggiata nell'epoca postplacidiana e privata più tardi de' suoi musaici (dei quali abbiamo la descrizione nei testi e un riflesso episodico nella miniatura di un codice trecentesco), la chiesa di San Giovanni Evangelista presenta nelle sue nobili linee basilicali i due filari di colonne di bigio antico coi sovrapposti capitelli classicheggianti e coi pulvini a croci e foglie d'acanto spinoso.
Dall'oppido municipale per il ponte di Augusto, che scavalca ancora sotterra il ramo secondario del Padenna, si entrava nella regione della domus Augusta. Quivi, oltre al palazzo imperiale con l'annessa chiesa palatina di Santa Croce (oggi mutila e spogliata), sorsero non meno di nove piccole chiese od oratorî o monasteria, come si dissero nella terminologia locale quando passarono a cura monastica. All'estremità del quartiere imperiale, di là dal Padenna, fu costruita la chiesa di San Vittore, forse dallo stesso Onorio che al patrocinio di questo santo attribuiva la vittoria di Pollenzo su Alarico: la ricostruzione attuale va assegnata ai secoli IX-X. Ad altri edifizî si lega il nome e il fervore religioso di Galla Placidia. Uno di essi è il sacello primitivo di San Vitale, rimasto poi incluso nella grande basilica giustinianea. Un altro è quello che, congiunto al pronao di Santa Croce, e dedicato a San Lorenzo come la chiesa cimiteriale fuori le mura, fu molto probabilmente destinato a sepolcro di Costanzo (morto nel 421) e della stessa imperatrice. Un passo di Andrea Agnello sembra infatti avvalorare la tradizione che lo dà come mausoleo di Galla Placidia.
È questo uno dei meglio conservati fra i monumenti di Ravenna. Di fuori, lesene e arcate cieche, fra cui si aprono le finestrelle a strombatura, secondano le sagome della pianta a croce latina. Nell'interno, un calmo rivestimento di giallo antico tappezza le pareti fino ai musaici, che si stendono sulle vòlte dei quattro bracci, sulle lunette di fondo, sulla cupola centrale. Nella scarsa luce che filtra dalle finestre i musaici sembrano risplendere per virtù propria; le figure che vi sono espresse, acquistano significazioni misteriose e solenni. Il Buon Pastore, l'Apollo cristiano del sec. V, vigila e accarezza le sue pecore, San Lorenzo s'affretta al martirio, i cervi si dissetano alle acque della salute, e dai profeti delle vòlte, dagli apostoli nel tamburo della cupola, dai simboli degli Evangelisti sui pennacchi, il ritmo sale, accennando l'epopea cristiana, fino al simbolo supremo della Redenzione, la croce d'oro che sta nel centro della cupola in un cielo disseminato di stelle. Ché se, per quanto riguarda l'arte, il vigore plastico e il distacco forte della modellatura, specialmente nelle figure degli Apostoli, ci parlano ancora di romanità, e ne sarà lungo il riecheggiamento ed essenziale l'immanenza negli altri monumenti, tuttavia l'effetto mistico dell'insieme e certe evanescenze e alcuni partiti ornamentali di stoffe e di motivi ricorrenti già rivelano tendenze artistiche nuove e quel sincretismo per cui si può dire che Ravenna tiene il piede sul suolo romano e la faccia volta all'Oriente.
Posteriore di qualche decennio è il battistero dell'Ursiana, costruito sopra un precedente edificio dal vescovo Neone (451-460 circa). È a sistema centrale e a pianta ottagonale, alternante quattro pareti rettilinee con quattro nicchie o absidiole. Ha due piani sovrapposti di grandi arcate, il secondo dei quali sostiene la cupola e abbraccia le finestre, ampliate a trifore da un ordine prospettico di archi e colonne e di tempietti in stucco. Una fitta decorazione di tarsie, stucchi e musaici riempie tutti gli spazî con una vivace policromia, e combinandosi con le architetture, comparte l'interno in cinque zone. In basso, girali di foglie d'acanto, che agli angoli includono immagini di profeti; più su, la zona degli stucchi e delle finestre, con altri profeti nelle edicolette, più rozzamente lavorati perché aiutati originariamente dal colore; poi, in un terzo fascione, troni esprimenti l'etimasia e altari sui quali sta aperto il libro dei Vangeli, in un'alternata successione con prospettive di edicole, esedre e absidette chiuse da transenne, omate di fronde; nella zona soprastante, gli Apostoli in concitato movimento, guidati da Pietro e da Paolo, recanti le corone di gloria; e, nel mezzo della cupola, la scena del battesimo di Cristo nel Giordano, con la personificazione del fiume. Qui è la fusione di elementi diversi: segni di tradizione classica, gusto ellenistico nelle decorazioni, composizione ritmica a figure isolate nel corteo degli Apostoli, e insieme una potente individuazione di tipi, resi con tecnica impressionistica. Forse è questo il monumento di Ravenna che più risente, nella parte decorativa, dell'ellenismo orientale. Roma ha sempre più debole influenza, Bisanzio è ancor lontana, ma dalle coste orientali del Mediterraneo giungono per vario tramite motivi e forme che insertandosi nell'arte nativa di essenza romana vi determinano quella particolare fisonomia.
La cappella episcopale, già erroneamente attribuita a Pier Crisologo e ora invece identificata con il monasterium Sancti Andreae di Agnello e riconosciuta come opera di Pietro II (494-520), è nel piano superiore del palazzo dei presuli ravennati una piccola basilichetta in miniatura, col suo nartece, il corpo centrale e un'absidiola. Nel nartece, sulla vòlta a botte, un pergolato di foglie e gigli intramezzati da uccelli, e nella lunetta di fronte alla finestra il Christus militans, che pare si erga, con la croce in spalla, contro l'eresia ariana dei Goti; nella vòlta a vele dell'interno i simboli degli Evangelisti e quattro angeli che sostengono il monogramma; nei quattro sottarchi, entro clipei, Santi e Sante, e gli Apostoli col Redentore. Cronologicamente, e in gran parte anche stilisticamente, i musaici dell'arcivescovado corrispondono a quelli di Teodorico.
Al gruppo cattolico dell'Ursiana, del battistero neoniano e del palazzo episcopale si contrappose nel principio del sec. VI il più modesto gruppo ariano della cattedrale con l'attiguo battistero e con l'episcopio. La cattedrale, già di San Teodoro, poi dello Spirito Santo, sta nel 1935 riprendendo il suo aspetto antico, nel quale avranno maggior risalto le belle colonne di bigio e di cipollino e i capitelli teodosiani coi pulvini. Il battistero, semplificata immagine del neoniano, conserva nella cupoletta il musaico rappresentante il battesimo di Cristo, gli Apostoli e il trono crucigero. E non è da escludere che sia un avanzo dell'antico episcopio la cosiddetta casa di Droedone, su cui fu elevata, dopo il Mille, una costruzione di evidente influenza veneziana, a grandi merlature ornate di patere e di croci.
Nella regione cesarea, passata dal fisco imperiale al patrimonio dei nuovi occupatori, Teodorico costruì su edifici anteriori il suo palazzoi di cui si scavarono le rovine nel 1907-14. Faceva parte della reggia teodericiana la chiesa palatina, oggi Sant'Apollinare nuovo, di forma basilicale a tre navate. Sulle pareti della nave centrale si stendono, a guisa d'immensi arazzi, i musaici distinti in tre sezioni. Nella superiore si susseguono in tanti riquadri scene della vita e della passione di Cristo, al cui nome fu dapprima consacrata la chiesa, separati l'uno dall'altro, come i triglifi e le metope d'un tempio classico, da conchiglie decorative. Nella zona di mezzo, tra finestra e finestra, e nei quattro spazî d'angolo, figure statuarie di profeti posano su piani erbosi come su piedistalli. Nella zona inferiore, sono dell'epoca teodericiana soltanto le quattro parti estreme, che rappresentano l'oppido classense col porto, la città di Ravenna col palazzo di Teodorico, e verso l'abside la Vergine col Bambino e il Redentore fiancheggiati da angeli. Nel complesso, un'arte storica e monumentale, di solida struttura, di felice risalto nelle colorazioni, piena di reminiscenze classiche, sommaria nell'impostazione narrativa, in cui però, nonostante l'efficacia di talune espressioni, qualche cosa sembra raggelarsi in forme icastiche convenzionali.
Durante la reazione che a mezzo il sec. VI cancellò le memorie dell'arianesimo riconciliando, secondo la parola di Agnello, le chiese ariane al culto cattolico, le figurazioni, a noi ignote, che si riferivano più direttamente a Teodorico e alla sua corte furono obliterate, e nel tratto intermedio fra Classe e Ravenna da una parte e la Madonna e il Redentore dall'altra si snodarono le due melodiose processioni delle Vergini precedute dai Magi e dei Santi guidati da San Martino, malleus haereticorum, con i quali l'arte bizantina, già affacciatasi nel tipo della Madonna col Bambino, s'impadronisce del maggior tempio teodericiano.
La città barbarica terminava a oriente nel campo del Coriandro col sepolcreto degli Ostrogoti, rinvenuto, ma non identificato, nel 1854-1835. Un pettorale d'oro incrostato di granati (la cosiddetta "corazza di Teodorico", trafugata dal R. Museo nel 1924), attestava la ricchezza di quella necropoli.
Vi troneggia ancora il mausoleo del re, che fonde in un'ermetica severità elementi d'origine diversa, ma romano nella sostanza, e in piena correlazione di forme con monumenti funerarî romani. È una vigorosa mole, costruita con grandi conci di calcare ippuritico, a due piani, quello di sotto ad arcate che circoscrivono un decagono con l'interno a forma di croce, quello di sopra circolare, e rinserrato da una cupola monolitica simile al coperchio di un immane sarcofago.
Sotto il regno conciliativo di Amalasunta, e quando già la penetrazione pacifica di Giustiniano preparava la conquista, il vescovo Ecclesio cominciò a costruire la basilica di San Vitale. La fabbrica, rimasta interrotta durante la guerra gotica, fu ripresa dopo l'entrata di Belisario in Ravenna, e inaugurata dall'arcivescovo Massimiano nel 547 o 548. Nella basilica ecclesiana il sistema verticale trionfa. La pianta è ottagonale. Dal nartece absidato si entra in due vestiboli triangolari aperti a triforio, che si articolano su due lati dell'ottagono e terminano con due torri scalarie, una delle quali diventò poi il campanile. A un altro lato corrisponde la tribuna, fiancheggiata da due cellette absidali e dalle cappelle per il servizio liturgico. L'interno è scompartito in uno spazio centrale e in un ambulacro dagli otto piloni che svolgendosi a grandi arcate abbracciano esedre a due piani di trifore e sorreggono la cupola. Il piano superiore forma il matroneo, che gira tutt'intorno, come il loggiato inferiore, arrestandosi alla tribuna. L'ossatura è sapientemente calcolata nei rapporti delle spinte e delle controspinte, e nella sua perfezione ha resistito ai secoli. E l'effetto estetico è meraviglioso. Il movimento architettonico con ombre e luci, profili e masse, prospettive che svariano in ogni punto, crea armonie pittoriche a cui dà risalto la colorazione dei marmi che rivestono i piloni e la policromia dei sottarchi, capitelli e pulvini della tribuna, dove poi si condensa coi musaici tutto l'ideale significato del luogo sacro. Aprono l'ingresso sotto l'arco trionfale i medaglioni degli Apostoli, col Redentore nel mezzo (tipo storico, barbato) e alle due estremità i Santi Gervasio e Protasio, figli di San Vitale secondo la Passio. Nella vòlta del presbiterio, domina come simbolo eucaristico l'Agnello divino, sostenuto da quattro angeli-cariatidi, fra girali d'acanto, figure d'animali e lunghi encarpi che segnano le divisioni della vòlta. Poi, distribuiti nei varî spazî con rispondenza concettosa di simmetrie, i tre sacrifizî di Abele, Melchisedech (v. abele, I, p. 56) e Abramo (quest'ultimo svolto narrativamente con la scena dell'ospitalità), i due profeti Isaia e Geremia, le storie di Mosè, i quattro Evangelisti coi loro simboli naturalisticamente espressi, su fondi di paesaggio. Nella conca absidale, Cristo siede sul globo del mondo, in atto di porgere la corona a San Vitale, mentre il vescovo Ecclesio si avanza dall'altra parte presentando il modello del tempio. I musaicisti locali hanno dato in queste rappresentazioni il fiore più smagliante della loro arte. L'osservazione analitica potrà sceverare il classico e l'ellenistico, il naturalismo e lo stile, potrà discutere l'origine artistica di questa o quella parte, ma l'assimilazione è vitalmente nuova. L'arte bizantina entra in San Vitale con l'ideale partecipazione di Giustiniano e Teodora alle encaenia della nuova basilica, e i due pannelli che li rappresentano col loro seguito di dignitaiî, di dame e di soldati segnano la presa di possesso, la vittoria dell'Impero sul regno gotico ormai disfatto.
E con San Vitale e Sant'Apollinare in Classe (v. basilica, VI, tav. LXXII; classe, X, tavv. CXXIX, CXXX) l'epoca dello splendore è finita, ma non è finita l'attività costruttiva, che si continua nel vivaio arcivescovile e nell'edificio detto "il palazzo di Teodorico", nelle cripte e nei campanili (secoli IX-X), si cimenta in alzamenti e ricostruzioni, ha una ripresa energica nel periodo degli Ottoni, rinnova per alcuni secoli le caratteristiche delle basiliche ravennati nelle pievi di cui è sparso il territorio esarcale.
Le chiese ravennati sono costruite in laterizio: quelle del secolo V a grossi mattoni legati con calce e lapilli minuti e frammenti di mattone pesto, che formano una specie di pozzolana molto tenace; quelle del sec. VI e del periodo giustinianeo con mattoni più lunghi e sottili e cemento analogo di spessore uguale a quello dei mattoni. Nel tipo basilicale, sono caratteristiche le appendici graduate mensoliformi agli angoli della facciata, e lungo i fianchi le lesene che nel piano superiore si risolvono in arcature comprendenti le finestre. Un'altra caratteristica delle chiese ravennati è l'abside curva all'interno e poligonale all'esterno. Le cupole degli edifici a pianta centrale o sono, come quelle del mausoleo di Galla Placidia, che nasce dalla muratura, e del battistero ariano, alleggerite nell'estradosso con letti di anfore, o sono, come invece quelle del battistero neoniano e di San Vitale, formate di tubi di terracotta inserti l'uno nell'altro e disposti a giri concentrici: il che permise di appoggiarle su più deboli sostegni, dando maggiore snellezza al monumento. Nella chiesa di S. Vitale il passaggio dal poligono al cerchio della cupola è ottenuto con cuffie o nicchie d'angolo.
Per i musaici è da notare che nel sec. V si hanno i fondi bruni, turchini o verdi, e soltanto nel VI appaiono i fondi d'oro. Nel periodo giustinianeo si fa largo uso della madreperla.
Oltre alle architetture ed ai musaici, hanno importanza per la storia dell'arte le sculture ravennati, capitelli e pulvini, plutei e transenne, altari e amboni, e soprattutto i sarcofagi, che costituiscono un gruppo nettamente differenziato, dal sec. IV fino al IX. Sulle fronti, inquadrate da pilastrini, è rappresentata per lo più la Traditio legis. Altre volte in un'ordinanza di colonnine scanalate e conchiglie in funzione di absidette s'innicchiano il Redentore e gli Apostoli. Non esiste il tipo romano delle figure e scene continue e agglomerate. La fronte quando non è figurata si può anche ridurre a tre semplici partiture architettoniche, motivo comune nei sarcofagi emiliani dei secoli precedenti. Le figure, anzi, tendono a scomparire, sopraffatte o sostituite da un'ornamentazione simbolica di cervi e di pecorelle, di pavoni e di colombe, di croci e di monogrammi con lettere apocalittiche, di tralci e di grappoli a cui beccano uccelli. Famoso fra gli altri il sarcofago del sec. VI che nel seguente servì come tomba dell'arcivescovo Teodoro. Poi, come nell'arca di Felice, si fanno architetture sbilenche, animali grotteschi, e, scavando il marmo in superficie, rozze croci a semplice contorno. Non è un altro modo di concepire, ma vero e proprio oscuramento d'arte. Chiudono la serie i sarcofagi a trecce, a rosoni, a girandole, e quelli che con le rappresentazioni animalesche di genere fantastico annunziano l'arte romanica.
Terminata la sua grande storia, Ravenna si rassegna a più modesta sorte, ma non scende mai al grado di città di provincia. Dagli antichi edifizî ancora in piedi esce un'aura di signorilità che non verrà mai meno del tutto, e la forza della tradizione più assai che ogni altra causa farà di Ravenna l'urbs metropolis et caput omnium aliarum civitatum Romandiolae. I nuovi committenti sono gli ordini religiosi. I Portuensi costruiscono la chiesa romanica di Santa Maria in Porto fuori, e nel sec. XIV v'innestano la chiesa gotica; l'abate Guglielmo fa istoriare il musaico pavimentale di San Giovanni Evangelista con episodî della quarta crociata, e i suoi successori vi appoggiano la cappella trecentesca e il portale marmoreo che ripete la leggenda di Galla Placidia. Si chiamano i pittori riminesi a lavorare in Santa Chiara, in San Giovanni Evangelista, in Santa Maria in Porto, in San Pier Maggiore (San Francesco), dove i Polentani erigono la loro cappella sepolcrale. Durante la dominazione veneta si compie la sistemazione edilizia e stradale della città. Allora sorge la Rocca Brancaleona, e sulle colonne tolte dalla demolizione della chiesa di Sant'Andrea dei Goti, coi capitelli a foglie mosse dal vento autenticati dal monogramma di Teodorico, si costruisce la loggia del palazzetto veneto del comune; Pietro Lombardo innalza le due colonne della Piazza Maggiore, e su ordine di Bernardo Bembo fa il sepolcro di Dante; suo figlio Tullio scolpisce la tragica e dolce figura di Guidarello. Passati i monaci di Porto entro la cinta urbana, vi edificano il grande monastero coi chiostri e la loggia lombardesca, e la magnifica chiesa di cui disegnerà la facciata il Morigia. Anche i camaldolesi, venuti in città dopo la battaglia di Ravenna, costruiscono in tempi successivi monastero e chiostri e la chiesa di San Romualdo e la Biblioteca Classense che è la loro gloria a Ravenna (v. classense, biblioteca). Di bei chiostri si adornano anche le altre due abbazie di San Giovanni Evangelista e di San Vitale. Né furono inoperosi i cardinali legati, che costruirono le porte monumentali per cui si entra in città come sotto archi trionfali. A uno di quei legati, il più intraprendente e benefico per Ravenna, Giulio Alberoni, si devono la diversione dei fiumi e il Canale Corsini col porto. A ricordare la grande opera fu innalzata nella Piazza Maggiore, fra le due colonne del Lombardo, la statua di Clemente XII che è ora nel R. Museo, scolpita magistralmente da Pietro Bracci. Buone fabbriche eseguì nella seconda metà del Settecento l'architetto ravennate Camillo Morigia, che per il cardinale Luigi Valenti Gonzaga costruì l'umile e augusto tempietto di Dante. Nel sec. XIX si edificò l'accademia di belle arti, e vi fu organizzata la pinacoteca, notevole per opere dei pittori ravennati, romagnoli e bolognesi. Ampliando una raccolta classense, fu messo assieme il cospicuo Museo Nazionale, ricco di marmi romani e bizantini, di avorî, di stoffe, di ceramiche. Un altro museo prezioso è l'arcivescovile, nel quale fra l'altro si conserva la pianeta detta dell'Angelopte e la "cattedra di Massimiano". Così tutti i secoli hanno dato il loro contributo alla città già tanto insigne. E oggi di contro ai vecchi campanili innalza la sua gagliarda mole la torre dell'acquedotto, col quale è stato assolto il voto millenario della popolazione, rimasta priva di acqua potabile fino da quando le alluvioni seppellirono l'acquedotto costruito da Traiano e riattivato da Teodorico.
V. tavv. CLXXV-CLXXXVIII.
Storia. - I resti archeologici, la cui esistenza si può ritenere certa, giacciono sepolti troppo profondamente nel terreno, che si è andato lentamente costipando e abbassando lungo i secoli, e quindi non ci aiutano nella conoscenza delle origini della città. Il suo nome etrusco e il ritrovamento della statua di un guerriero (ora a Leida), della testa di una gorgone, con iscrizioni etrusche, e di alcuni bronzi votivi la farebbero supporre di origine etrusca. Ma la supposizione non è confermata dalla tradizione storica. Strabone la dice fondata dai Tessali. Successivamente vi s'insediarono gli Umbri, che avevano occupato tutto il litorale da Rimini al Po. Questi costituirono le loro umili capanne, su una o più isolette, che facevano parte di un cordone litoraneo, posto fra il mare a est e una vasta laguna, la Padusa, a ovest. Qui, difesi dagli attacchi esterni, si poterono dedicare tranquillamente alle loro occupazioni, agricole o commerciali, e sfuggire alle invasioni degli Etruschi e dei Galli.
I primi, quando alla fine del sec. VI incominciarono la conquista della Padania, certamente avranno cercato d'impadronirsi anche di Ravenna e di farla arrendere impedendo la navigazione dei Tessali. Infatti Strabone ci dice che questi furono costretti dalle vessazioni etrusche a far ritorno alle loro antiche sedi, e chiamarono gli Umbri a prendere il loro posto. Ma una stabile occupazione etrusca di Ravenna non si accorda col carattere umbro, mantenuto fino al tempo dei Romani. I secondi, per quanto abbiano portato la loro occupazione anche più a sud, fino a Senigallia, tuttavia non poterono penetrare nelle paludi ravennati, mentre in questo baluardo naturale si rifugiavano le popolazioni della bassa Padania. E forse, a somiglianza di quello che più tardi avvenne con Venezia, questa circostanza portò al primo ingrandimento di Ravenna, perché molti di coloro, che vi si erano rifugiati, vi presero stabile sede.
Certo fino allora l'importanza di Ravenna era molto modesta: un villaggio o un gruppo di villaggi di capanne. Ma dopo la decadenza di Spina e di Adria, come centri di traffico marittimo, il loro posto venne preso da Ravenna, la cui fortuna avvenire dipese tutta dalla sua posizione geografica che si prestava mirabilmente a fare di Ravenna l'emporio marittimo di tutta la costa, nel resto priva di porti, da Rimini a Grado. L'importanza di Ravenna non era però soltanto commerciale ma anche strategica. La larga distesa di paludi e lagune che la separavano dalla terraferma, con la quale era congiunta solo da una o due strette strisce di territorio, la rendevano imprendibile da quella parte, mentre, comunicando liberamente col mare, poteva facilmente avere approvvigionamenti e rinforzi di ogni genere. Questo baluardo di prim'ordine acquistava poi un'importanza senza pari per le comunicazioni tra la Padania e l'Italia peninsulare: giacché la principale via di comunicazione fra le due regioni è quella lungo le vie Emilia e Flaminia. A Rimini le montagne, riavvicinandosi al mare, lasciano libero uno stretto corridoio, che in tempo di guerra poteva essere facilmente chiuso da Ravenna che era a una giornata di marcia o poco più, e per conto suo era inattaccabile. E così più volte, ma specie durante le invasioni barbariche, Ravenna sarà come la sentinella all'ingresso dell'Italia peninsulare, e avrà con ciò una funzione storica importantissima.
Sui primi tempi dell'epoca romana non abbiamo notizie, salvo quella di Strabone che i Romani vi avrebbero condotto una colonia. Più tardi (89 a. C.) diventò un municipio federato, e apparteneva alla tribù Camilia. Però la conquista e la pacificazione della Padania da parte della repubblica dovette favorire grandemente lo sviluppo di Ravenna come centro navale. Nello stesso tempo vediamo affermarsi la sua importanza militare. Nell'82 a. C. Metello, luogotenente di Silla, nella lotta contro i mariani, che tenevano Rimini, sbarcò a Ravenna, facendone il centro delle sue operazioni. Con Cesare poi abbiamo l'ingresso trionfale nella storia. Da questa città, la più orientale della Gallia Cisalpina, da lui retta, condusse le ultime trattative col Senato; qui concentrò le sue truppe, e da qui, ai primi di gennaio del 49 a. C. spiccò il gran volo. Dopo la morte di Cesare, al tempo delle prime rivalità fra Antonio e Ottaviano, mentre il primo occupò Rimini per poi impadronirsi della Gallia Cisalpina, il secondo s'impossessò di Ravenna e la rifornì di vettovaglie e di danaro. Quando più tardi si riaccese la guerra fra Antonio e Ottaviano (41 a. C.) la parte antoniana si volle assicurare il possesso di Ravenna, sia per la sua importanza rispetto alla Gallia Cisalpina, sia perché permetteva comunicare con l'Oriente e l'Egitto, da dove Antonio poteva inviare soccorsi.
Tutti questi fatti dovettero richiamare l'attenzione dell'accorto Ottaviano sull'importanza di Ravenna. Così, quando intraprese il riordinamento di tutta l'amministrazione romana, stabilì qui una delle due grandi flotte romane, quella destinata al Mediterraneo orientale. Ossia non proprio a Ravenna, ma nell'insenatura formata da un nuovo cordone litoraneo a circa 4 km. a sud-est della città, dove fondò il grande porto di Classe, e provvide alle sue comunicazioni con il Po. Il porto di Ravenna comunicava già con il Po per mezzo di uno o più canali, il principale dei quali era detto Padenna. Ora Augusto lo allargò e forse lo sistemò con opere permanenti, e lo prolungò fino a Classe (e così esso prese il nome di Fossa Augusta). Notiamo che la Fossa non aveva certo scopi militari, ma commerciali.
Gli effetti della pax romana, stabilita da Augusto, fecero rapidamente crescere in ricchezze e popolazione tutto l'Occidente, ma specialmente la Gallia Cisalpina e il suo emporio navale Ravenna, che si raddoppiò e cominciò la sua trasformazione edilizia. Nello stesso tempo conservò la sua importanza militare, e più volte i suoi legionarî e marinai hanno una parte preponderante negli avvenimenti imperiali. Sono essi che agevolano la vittoria di Vespasiano; sono essi che rafforzano la guarnigione di Roma, dove hanno un quartiere, i castra o urbs Ravennatium; sono essi che difendono Ravenna da un tentativo di ribellione dei prigionieri germanici, collocativi da Marco Aurelio. Nel 193 la resa, senza resistenza, della città dà l'impero a Settimio Severo: qui nel 238 Pupieno concentra il suo esercito contro Massimino; qui nel 306 si ritira Severo, ed è vinto non colle armi, ma con l'inganno.
Dalla fine del secolo II Ravenna fu capitale della Flaminia e dalla fine del IV dell'Emilia, quando a questa fu riunito il Picenum Annonarium.
La decadenza generale dell'impero, incominciata nel sec. IV, si fece sentire anche a Ravenna. La povertà, la miseria e lo spopolamento dei campi e delle città, il deperimento delle strade, dei canali, dell'intero sistema delle comunicazioni reagirono sfavorevolmente sui traffici e sul porto di Ravenna. Eppure il periodo più importante della storia di Ravenna incomincia precisamente con la decadenza dell'impero d'Occidente e si prolunga fino a Carlomagno.
Nel 402, di fronte all'invasione di Alarico, Onorio trasportò la capitale dall'indifesa Milano alla sicura Ravenna. Quell'atto, consigliato dalla paura, fu anche un'abile mossa politica, perché, come abbiamo già veduto, Ravenna dominava il passaggio all'Italia peninsulare, e nello stesso tempo poteva ricevere aiuti dalla parte orientale dell'impero. Da allora le vicende della città s'intrecciano e si confondono con quelle dell'impero stesso, e solo chi era padrone di quella disponeva anche di questo, come avvenne alla morte di Onorio, quando la presa di Ravenna da parte di Aspar, generale inviato da Costantinopoli, decise la sorte dell'usurpatore Giovanni. Allora la città conobbe tutti gli splendori di capitale dell'impero, che per quanto fosse al suo declino, tuttavia rimaneva il centro di una vasta rete d'interessi materiali e spirituali. E al tempo di Onorio e di Galla Placidia cominciò ad arricchirsi di quegli splendidi monumenti, che in gran parte anche oggi ammiriamo. Qui si svolsero le ultime confuse e dolorose vicende dell'impero d'occidente, che cadde quando il 4 settembre 476 Paolo, zio di Romolo Augustolo, fu preso e ucciso nella pineta di Classe, e Odoacre s'impadronì di Ravenna. Anche il destino di quest'ultimo si decise a Ravenna. Alla venuta di Teodorico, Odoacre si rifugiò qui, dove sostenne un assedio di quasi tre anni, e fu costretto alla resa solo quando Teodorico riuscì a tagliare gli accessi alla città, sia per terra sia per mare. Eppure ciò non bastò ancora, e il re goto per impadronirsi di Ravenna dovette ricorrere a uno stratagemma e a false promesse. I nuovi re barbarici che regnarono in Italia riconobbero l'importanza di Ravenna e ne fecero la loro capitale, e così sulla città si ripercossero i benefici effetti della rinascita economica e del ravvivarsi dei commerci che si ebbe in Italia e nelle regioni vicine, sia al tempo di Odoacre, sia, e più, di Teodorico, al quale dobbiamo un altro gruppo importantissimo di costruzioni, la riparazione dell'acquedotto di Traiano e molti lavori di bonifica.
Nella lunga guerra che, pochi anni dopo la morte di Teodorico, s'impegnò fra l'impero e i Goti, Ravenna ebbe una parte di primo ordine. Vitige, di fronte all'avanzata di Belisario, non difese né fortificò Roma, ma si ritirò su Ravenna, e con la sua mossa prolungò di 4 anni una guerra, che al principio si presentava della durata di pochi mesi. E Belisario il primo e vero successo l'ebbe quando, con uno stratagemma, s'impadronì di Ravenna (540), e così rese effimeri tutti i successi che in seguito riportarono i Goti. A Ravenna Narsete concentrò il suo esercito; da Ravenna partì per la sua offensiva, che si doveva concludere sulla strada che da Ravenna porta a Roma.
Terminata la guerra greco-gotica, l'Italia tornò a far parte dell'impero bizantino. Con la prammatica sanzione (554) Giustiniano provvide a riportare qui i vecchi ordinamenti romani, che del resto non avevano mai cessato di esistere, e istituì la prefettura d'Italia che però non comprendeva più i territorî dell'antica prefettura del Pretorio, ma solo l'Italia continentale e peninsulare. Sede della prefettura fu Ravenna, la quale, libera dal 540 da ogni attacco esterno, godette quasi un 30 anni di pace, e mentre la lunga guerra portò, in tutta Italia, miseria, desolazione e rovina, Ravenna ne fu immune, anzi continuò nel suo primitivo splendore: è di questo tempo il terzo gruppo dei suoi grandiosi monumenti.
Un nuovo periodo s'inizia con l'invasione longobarda (569). La lotta che ne seguì fra Romani e Longobardi si protrasse per quasi due secoli, e in questa lotta Ravenna rappresentò una parte di prim'ordine, perché vi si concentrò tutta la resistenza bizantina che impedì ai Longobardi di avere la via completamente libera verso il sud, e contribuì a tener separati i ducati di Spoleto e Benevento dal resto del regno longobardo, favorendo le loro velleità separatiste e le loro ribellioni.
Alla venuta dei Longobardi, il prefetto Longino, non avendo un esercito da campo, si ritirò e si rafforzò a Ravenna, lasciando alle singole città la cura della propria difesa. E così i Longobardi poterono estendere le loro conquiste. Allora l'imperatore fu costretto a inviare eserciti, con a capo un generale, che, avendo il compito di condurre la guerra, aveva anche poteri speciali, superiori a quelli del prefetto. E siccome la lotta o la necessità di difesa contro i Longobardi non cessò mai, così anche quei poteri prima temporanei diventarono permanenti, e si ebbe l'istituzione dell'Esarcato, anteriore certo all'epoca in cui lo vediamo ricordato la prima volta (4 ottobre 584). Le truppe inviate dall'Oriente non furono sufficienti a ricacciare i Longobardi. Nel 579 il duca Faroaldo di Spoleto riesce a impadronirsi perfino di Classe, che tenne per quasi 10 anni. Nel 585 il nuovo esarca Smaragdo, dopo alcuni successi, indusse i nemici a un armistizio di tre anni. Nel 590 il successore di Smaragdo, Romano, riprese la lotta contro i Longobardi, ai quali ritolse le città di Modena, Reggio, Parma, Piacenza, Cremona e Mantova; ma non portò grande aiuto alle città di Roma e Napoli, che pure erano attaccate. Si limitò a riprendere alcuni castelli sulla via Flaminia, per assicurare le comunicazioni fra Ravenna e Roma. Nel 598 fu concluso un armistizio di un anno, prorogato poi fino al 601. Alla sua scadenza si riaccese la lotta e i Longobardi rioccuparono le città perdute, riportarono il confine al Panaro, e s'impadronirono altresì di Padova e di Monselice. Da allora e per tutto il sec. VII, le difficoltà interne ed esterne del regno longobardo, gli attacchi degli Slavi, Avari, Bulgari e Arabi all'impero bizantino, fecero sì che in Italia vi fosse la pace, interrotta raramente da qualche breve ripresa della guerra, e susseguenti conquiste longobarde. Ma ogni loro attacco all'esarcato venne infranto sul Panaro; e così si cristallizzò la situazione, risultante da un ventennio e più di guerra.
La conquista longobarda aveva sconvolto e distrutto i limiti delle vecchie provincie. E così fu che, sotto la pressione della necessità del momento, si formò un aggruppamento nuovo, nel quale le regioni sfuggite ai barbari si aggregavano fra loro e intorno alle città dove facile era la resistenza e la difesa, e dove si erano rifugiati i funzionarî imperiali. Così la parte occidentale della Venezia, staccata dal resto, si univa alla provincia di Ravenna, e alla provincia di Roma si attaccavano parti della Toscana e della Campania. Questo stato di fatto venne poi consacrato ufficialmente e furono costituite le provincie dell'Istria, della Venezia, di Ravenna, della Pentapoli, di Genova, di Roma, di Napoli. Più tardi scomparve Genova, presa dai Longobardi, e sorsero le provincie di Ferrara, Perugia e Calabria. Le necessità della difesa fecero porre a capo di ogni città e provincia un governatore militare, il tribuno e il duca, i quali oltre alla preminenza sui funzionarî civili, ne assunsero anche le principali funzioni. Sopra tutti stava l'esarca, comandante supremo dell'esercito e governatore dell'Italia, superiore perciò al prefetto.
L'esarca era uno dei più alti personaggi della corte, insignito del titolo di patricius, e godeva la fiducia personale del sovrano. Le sue attribuzioni comprendevano gli oggetti più svariati: affari militari e diplomatici, amministrazione civile, giustizia, finanze, lavori pubblici, affari ecclesiastici. Nominava tutti i funzionarî dipendenti, controllava le elezioni dei vescovi e dei papi. Praticamente i suoi poteri erano illimitati, aveva, come dice Agnello, regnum et principatum omnis Italiae, era cioè come un viceré. Risiedeva a Ravenna, dove stanziavano anche la flotta e l'esercito da campo composto di truppe orientali, dove era il centro di tutta l'amministrazione e il tesoro, dove affluivano le rendite fiscali d'Italia, dove era insomma il centro della resistenza ai Longobardi. E finché i Bizantini dominarono l'unica strada, attraverso la quale poteva passare il grosso delle forze nemiche, fu bloccata ogni ulteriore avanzata longobarda.
Appunto per questo gli esarchi si riservarono il governo diretto di quella provincia, che poi venne chiamata Esarcato. Essa comprendeva i territorî limitati a nord dall'Adige, dal Tartaro e dal ramo principale del Po, fino alla confluenza del Panaro, a ovest presso a poco da questo fiume, a sud dall'Appennino e dal corso della Marecchia. Le città principali erano quelle situate lungo la Via Emilia: Cesena, Forlimpopoli, Forlì, Faenza, Imola, Bologna, e quelle a nord del Po che già avevano appartenuto alla Venezia, e cioè Adria e Gavello. Più tardi sorse anche Ferrara. In un primo tempo dipendeva direttamente dall'esarca anche la Calabria.
Il periodo quasi ininterrotto di relativa pace, o piuttosto di tregua armata, che durò per tutto il sec. VII e i primi anni dell'VIII, permise a Ravenna di continuare ad essere l'emporio marittimo principale della Padania, e di sostenere con successo l'incipiente concorrenza di Venezia. Infatti, appena erano deposte le armi, i Romani erano pronti ad allacciare relazioni coi Longobardi. E che il porto di Ravenna fosse encora molto attivo è attestato dall'esistenza del commercio attraverso il Po e dalla presenza di numerosi greci ed orientali: banchieri, cambiavalute, mercanti di pellicce o d'altre merci, fabbricanti di tessuti, ecc. La colonia greca di Ravenna era particolarmente numerosa, tanto da formare una schola graeca. Fra la popolazione indigena poi troviamo numerosi tintori, fabbricanti di panni, di cera, mercanti di pellicce e di tessuti. Tutti questi appartenevano alle loro corporazioni, e noi troviamo ricordate quelle dei fornai, dei notai e dei medici.
Nello stesso tempo l'impero bizantino si sforzò di consolidare con ogni mezzo il suo dominio in Italia: con l'amministrazione fortemente centralizzata; con il passaggio al personale militare della maggior parte delle funzioni esercitate dal personale civile, che gradualmente scomparve; con l'affidare le cariche principali al personale greco, lasciando a quello italiano le minori; con il procacciarsi il favore delle chiese, mediante donazioni e privilegi; con il controllare le elezioni vescovili e papali, cercando di mettervi persone fedeli o favorevoli; con il far venire dall'Oriente preti e soprattutto monaci greci (a Ravenna i basiliani ebbero tre monasteri); infine con la forza stessa della tradizione, che faceva di Bisanzio la continuatrice di Roma. Contemporaneamente però vediamo all'opera anche gli elementi disgregatori. Anzitutto il raggruppamento a caso delle provincie, che spesso comunicavano fra di loro solo per mare e non erano unite da alcun legame geografico, da alcuna coesione naturale, impediva una difesa organica. Questa, perciò, si concentra nell'Esarcato, e le altre provincie vengono abbandonate a sé stesse. Si aggiungano il progressivo assottigliamento dell'esercito dell'esarca, finché si ridusse a una semplice guardia del corpo, e il contemporaneo svilupparsi delle milizie provinciali, formate sulla base della proprietà fondiaria: la formazione di una nuova aristocrazia locale, composta di funzionarî bizantini arricchitisi coi beni dello stato, delle chiese e anche dei privati, e degli antichi proprietarî locali che hanno conservato la ricchezza comperando titoli onorifici o cariche militari. Questa aristocrazia comanda le milizie locali. L'una e le altre, quando avranno coscienza della propria forza, e saranno colpite nei loro interessi particolari, non esiteranno a mettersi contro il governo centrale. Passarono ai vescovi e ai papi molte funzioni pubbliche, trascurate da duchi ed esarchi e così vescovi e papi, spesso con le rendite dei loro vasti possessi, provvidero alle strade, ai ponti, agli acquedotti, ai bagni, ai granai pubblici, a riattare mura e castelli e talvolta, perfino, ad assoldare eserciti e cercare alleanze. Questo fatto fece sì che le popolazioni si abituassero a vedere nei vescovi e nei papi i loro naturali protettori contro gli attacchi esterni e contro gli abusi, gli arbitrî e le violenze d'ogni genere dei funzionarî imperiali. Infine vi sono i contrasti fra impero e papato: contrasti di ordine politico, perché la missione del primo, si riduceva ormai solo a mantenere l'integrità territoriale, mentre quella del secondo, dopo la conversione dei barbari al cattolicesimo, consisteva nel farli entrare nell'orbita delle istituzioni romane, avvivate da un'alta idea morale; contrasti religiosi, perché l'imperatore pretendeva sottomettere la religione alla politica, e decidere su questioni di fede, mentre il papa si dichiarava unico giudice e guida delle coscienze, unico difensore degl'interessi divini. In questi contrasti Ravenna e Roma rappresentarono, in Italia, due principî, due idee, due indirizzi, quasi due poli opposti.
Questo contrasto si manifestò anche con le rivolte delle popolazioni, le quali, indifese dagli attacchi longobardi, oppresse dall'avidità e dalle misure fiscali dei governatori, spesso insorsero contro questi o intervennero a difesa dell'ortodossia e dei papi. A Ravenna nel 615 viene ucciso l'esarca Giovanni. Nel 692 l'esercito di Ravenna e della Pentapoli accorre a Roma in difesa del papa. Nel 702 l'esarca Teofilatto è accolto da un'insurrezione generale e deve esser protetto dal papa. Nel 709 il patrizio di Sicilia, incaricato di punire i Ravennati, vi riesce solo con l'inganno, cioè dopo aver attirato sulle navi l'arcivescovo Felice e i capi della nobiltà ravennate. Poco dopo l'esarca Giovanni Rizocopo giunto a Ravenna, viene ucciso, e fu allora che i Ravennati, sotto la guida di Giorgio, organizzarono la difesa.
Tuttavia non bisogna attribuire a queste insurrezioni un'importanza maggiore di quella che hanno. Più che insurrezioni sono sommosse contro i funzionarî. La paura dei Longobardi tiene ancora viva la fedeltà all'impero. Il giorno che l'impero non potrà più opporsi vittoriosamente ai Longobardi, la sua sorte sarà decisa. È quello che avvenne con Liutprando, il quale riprese la politica espansionista. Nel 716 s'impadronisce di Classe, ma la restituisce quasi subito per riprenderla ancora nel 726, insieme con i porti vicini, e forse anche Ravenna cadde nelle sue mani. Intanto il territorio dell'Esarcato si riduceva, anche per il distacco della Calabria (680), che formò un ducato a sé, e dei territorî fra Po e Adige (prima del 727), che formarono il ducato di Ferrara. Nel 727 scoppiò l'insurrezione contro i decreti inconoclastici. Il papa si rifiutò di riconoscere quei decreti, e al suo appello risposero Venezia, l'Esarcato, la Pentapoli e Roma; l'esarca Paolo fu ucciso; gli eserciti dell'Istria e della Pentapoli si elessero proprî duchi; infine gl'insorti sollecitarono l'aiuto di Liutprando al quale le città dell'Esarcato e della Pentapoli aprirono spontaneamente le porte. Una flotta inviata dall'imperatore, dopo essere stata in parte distrutta dalle tempeste fu definitivamente annientata a Ravenna. Per il momento il pericolo longobardo venne scongiurato dal papa, ma è significativo che il nuovo esarca, per impadronirsi della provincia, dovette ricorrere all'accordo con Liutprando. In ogni modo la sua autorità ora non si estende al di là dell'Esarcato: l'uno dopo l'altro i varî ducati se ne staccano e fanno da sé. Pochi anni dopo Liutprando riprende Ravenna e la tiene per quasi tre anni, finché viene liberata dall'esercito e dalla flotta veneziana, che si muovono in aiuto dell'esarca, in seguito alle esortazioni del papa. Nel 743 si rinnovano gli attacchi, e questa volta la città venne salvata dal papa Zaccaria, il quale si recò personalmente a Pavia e riuscì a persuadere il re alla pace e all'abbandono delle conquiste fatte. Questi evacuò la Pentapoli, che teneva dal 727, ma tenne varî territorî dell'esarcato, il quale alla morte del re (744) era ridotto alle città di Ravenna, Forlì, Forlimpopoli e Comacchio. Nel 751 Astolfo riprese la conquista, e questa volta la caduta di Ravenna annunziò anche la fine del dominio bizantino in Italia. Il grande compito storico di Ravenna era finito.
Ravenna non perse tuttavia di colpo ogni importanza. Per alcuni secoli continuò ad essere egualmente la capitale dell'Esarcato. Nel 756, quando Astolfo fu costretto ad abbandonarlo, esso, per la donazione di Pipino (754), avrebbe dovuto passare al papa. Ma ecco che gli arcivescovi di Ravenna, che durante il dominio bizantino avevano raggiunta una posizione speciale, si atteggiarono a continuatori ed eredi dell'impero di Costantinopoli.
Umili erano state le origini della Chiesa di Ravenna (fine del sec. II). Quando fu trasportata a Ravenna la capitale dell'impero, anche i suoi vescovi crebbero d'importanza. Intorno al 430, alcune diocesi dell'Emilia furono sottratte alla giurisdizione metropolitica di Milano e poste sotto il vescovo di Ravenna, che però rimase suffraganeo di Roma. Il ritorno dell'Italia all'impero doveva accrescerne enormemente l'importanza. Giustiniano aveva bisogno di avere qui un vescovo che fosse fido strumento della sua politica, e inviò l'accorto ed energico Massimiano, il quale fu innalzato alla dignità di arcivescovo, che allora significava capo di un gruppo di provincie. E poiché allora il papa Vigilio e l'arcivescovo di Milano si trovavano a Costantinopoli per regolare la questione dei tre Capitoli, e il patriarca di Aquileia si era messo contro Roma e l'Oriente, Massimiano si trovò a capo degli affari religiosi di tutta l'Italia. Naturalmente questa situazione non durò a lungo, ma alla fine del sec. VI l'arcicivescovo di Ravenna conservava ancora la giurisdizione sulla metropoli di Aquileia. In seguito gl'imperatori e gli esarchi cercarono di contrapporre all'autorità crescente dei papi quella degli arcivescovi di Ravenna, e questi cercarono in tutti i modi di rendersi indipendenti da Roma. Raggiunsero lo scopo nel 664, quando nel pieno della lotta per l'eresia monotelita, Costante II concesse all'arcivescovo Mauro il privilegio di autocefalia, ossia la piena e completa indipendenza da Roma. A questo privilegio si aggiunsero quelli di Costantino Pogonato a Reparato, successore di Mauro, e che accrescevano le prerogative della chiesa di Ravenna. Questa situazione non durò a lungo, e, quando fu composta la questione monotelita, imperatore ed esarca indussero gli arcivescovi a riconciliarsi col papa. Così nel 680 l'arcivescovo Teodoro intervenne al concilio di Roma, e nel 682 vi fu un accordo fra lui e il papa, e l'abbandono dell'autocefalia. Tuttavia gli arcivescovi ravennati non abbandonarono le loro velleità di contrapporsi al papa.
Forti della tradizione, dell'importanza avuta con gli esarchi, delle loro proprietà, che venivano subito dopo quelle del papa, e che erano disseminate in tutto l'Esarcato e nella Pentapoli, dopo il 756 pretesero al dominio temporale dell'Esarcato. E furono favoriti da varie circostanze. Dal fatto che al papa mancava il personale amministrativo per regolare la nuova provincia, e quindi doveva rimettersi all'arcivescovo; dall'alleanza strettasi tra l'arcivescovo e l'aristocrazia locale. Questa, durante il dominio bizantino e alla sua caduta, si era impadronita dei beni dello stato, e per legittimare e rendere definitive quelle usurpazioni, riconobbe come erede di quei beni l'arcivescovo. Ad esso, del resto, era già legata dalle concessioni enfiteutiche dei beni della Chiesa ravennate. Questa aristocrazia costituì poi quella numerosa dinastia dei duchi, che, in nome dell'arcivescovo, dominò in Romagna nei secoli IX-XI. Ma soprattutto gli arcivescovi sfruttarono i contrasti fra imperatori e papi. Carlo Magno e i suoi successori, non ostante la donazione del 754 e la conferma del 774, come eredi dei dominî longobardo e bizantino, non rinunciarono ad esercitare la loro autorità anche sui territorî concessi al papa. Di qui la lunga disputa fra arcivescovi e papi intorno all'esarcato. Nella seconda metà del sec. IX, quando sulla cattedra ravennate salirono gli arcivescovi Giovanni X e Romano, usciti dall'aristocrazia locale, praticamente essi raggiunsero lo scopo, approfittando delle condizioni difficili, in cui il papa venne a trovarsi. Accentrarono nelle loro mani molti dei diritti pontifici, s'impadronirono dei beni di diretto dominio della S. Sede, amministrarono la giustizia, cacciarono i rappresentanti del papa. Quest'azione fu spesso interrotta da momentanee riconciliazioni e da sottomissioni, che però rimasero senza efficacia, perché le promesse non venivano mantenute.
Le cose non cambiarono molto nemmeno quando l'Esarcato e la Pentapoli passarono a far parte del Regno d'Italia (889), poiché gli arcivescovi, barcamenandosi e approfittando delle lotte fra i varî re e della decadenza del papato, riuscirono a mantenere il loro dominio effettivo, e talvolta ad estendere la signoria temporale su tutto il territorio sottomesso alla loro autorità spirituale. Venuti gli Ottoni, gli arcivescovi si schierarono dalla loro parte, e così diventarono grandi feudatarî imperiali. Il loro dominio si estendeva dal Po all'Appennino, dal Reno al Foglia. Gl'imperatori di Sassonia e di Franconia stabilirono il centro della loro politica italiana più a Ravenna che a Pavia. A Ravenna risiedevano spesso quando venivano in Italia, si occupavano in modo particolare dell'elezione degli arcivescovi, e spesso facevano nominare i loro fedeli, o i loro parenti e fratelli. Gli arcivescovi sono fra i più alti dignitarî della corte imperiale, occupano un grado elevato nei consigli della corona, seguono l'imperatore nelle sue spedizioni militari. Quando vengono eletti papi riformatori, riprendono la lotta con Roma, e nella lotta delle investiture stanno con l'imperatore e l'antipapa, anzi l'arcivescovo Guiberto viene eletto antipapa col nome di Clemente III. Col declinare di quella lotta declina anche l'importanza di Ravenna. Nel 1106 l'arcivescovo venne privato dalla sua giurisdizione ecclesiastica, restituitagli poi nel 1118, quando avvenne la riconciliazione fra Ravenna e Roma. Il sorgere dei comuni romagnoli portò l'ultimo colpo alla signoria temporale degli arcivescovi, e il loro potere rimase limitato ai comuni di Cervia e di Ravenna. A Ravenna era sorto il comune aristocratico, formato dalla nobiltà che amministrava i numerosi beni, che la mensa arcivescovile e i ricchi monasteri ravennati avevano ancora nelle Marche e nella Romagna, e per tutto il sec. XII questo comune rimase sotto l'alta autorità dell'arcivescovo. Nello stesso tempo si andò determinando una lotta fra le principali famiglie: Ubertini, Dusdei, Anastagi e Traversari, per ottenere la signoria. Al principio del sec. XIII si affermò quella di Pietro Traversari, al quale successe il figlio Paolo. Essa terminò nel 1240, quando Federico II s'impadronì di Ravenna.
Nel 1276 Rodolfo d'Asburgo cedette definitivamente la Romagna ai pontefici, e allora anche Ravenna passò a far parte di quei dominî. Ma intanto sorgeva la signoria dei Polentani, i quali, pur di dominare incontrastati, combatterono perfino i legati pontifici. A questa signoria diede rinomanza l'ospitalità concessa a Dante.
Ma ormai Ravenna aveva perduto qualsiasi importanza, anche per un'altra ragione. Fino alla fine del dominio bizantino era rimasta l'emporio marittimo dell'Italia settentrionale. Ma negli ultimi tempi di quel dominio e in seguito, l'allontanarsi del mare, l'abbandono dei lavori necessarî per mantenere in efficienza il porto e la sua comunicazione col Po, avevano favorito l'affermarsi di Venezia, che sostituì Ravenna e assorbì tutto il commercio che prima vi passava. Rimaneva ancora una importante risorsa, quella del sale, che si produceva specialmente a Cervia e che si esportava in tutta la regione padana. Per eliminare la concorrenza che queste saline facevano alle sue, Venezia impose a Ravenna (sec. XIII) dei patti, coi quali controllava tutto il commercio ravennate e tutta la produzione e lo smercio del sale, mettendovi suoi funzionarî, e, col castello di Marcabò, costruito sul canale che congiungeva Ravenna al Po, sorvegliava la navigazione fluviale. Ossia di fatto Ravenna passava sotto il controllo veneziano. Incomincia allora la sua rapida decadenza, interrotta solo nel periodo dal 1449 al 1509, quando Venezia ebbe il dominio diretto della città. Nel 1509 Ravenna passò a far parte degli stati della Chiesa. Nel 1512, i feroci saccheggi, incendî e stragi, fatti dalle truppe francesi dopo la battaglia, che da Ravenna prende nome, arrecarono un grave colpo alla città. Seguì la depressione dovuta alle lotte civili provocate anche dalla faziosità dei Rasponi, e che infestarono Ravenna per quasi un secolo. Le condizioni generali dell'epoca non permisero al governo pontificio di fare molto e di rimediare ai danni dei terremoti e delle inondazioni.
Nel sec. XVIII l'opera principale, e nella quale ebbe parte preponderante il cardinale Alberoni (1737-39) fu la diversione dei fiumi Ronco e Montone, che vennero convogliati al mare in un unico alveo, e la costruzione di quel Canale Corsini, che doveva dare nuova vita al porto.
Il 3 febbraio 1797, Ravenna passò ai Francesi, e fece parte del dipartimento del Rubicone, la cui capitale fu Forlì, e a questo dipartimento appartenne durante tutto il dominio napoleonico. Occupata dal dicembre 1813, successivamente dalle truppe austrobritanniche, murattiane, poi nuovamente austriache, il 9 giugno 1815 ritornò al pontefice, che il 6 luglio dell'anno successivo vi stabilì un governo stabile e divise l'antica legazione di Romagna, nelle due di Ravenna e Forlì. Da allora, salvo le brevi interruzioni rivoluzionarie del 1831 e del 1848-49, Ravenna rimase sotto il dominio pontificio, fino al 13 giugno 1859 quando insorse, proclamando l'annessione al Piemonte, che avvenne con decreto reale il 18 marzo 1860. Sono da ricordare durante il periodo del Risorgimento i processi del cardinale Rivarola contro i liberali, e il salvataggio di Garibaldi nel 1849.
Vita musicale. - Come di solito nei centri minori, anche a Ravenna la vita musicale si riassume in quella teatrale, e, specie all'inizio, non va disgiunta da quella del teatro di prosa, col quale ha in comune la medesima scena. Del primo impulso alla vita del teatro di musica, Ravenna si riconosce debitrice al cardinale legato Cornelio Bentivoglio d'Aragona, il quale, nell'anno 1722, demolito il fortino antistante la Rocca, vi fece sorgere un teatro, inaugurato nel successivo 1723 con uno spettacolo d'opera. Tale Teatro Comunitativo, in seguito designato come Teatro Vecchio, era destinato altresì alla recitazione della commedia; e in questa duplicità di spirito persistente si formerà, alla distanza di un secolo, un nucleo didattico culturale appunto nella doppia direttiva della musica e della prosa con l'istituzione di un'Accademia filarmonica e di una corrispondente Accademia filodrammatica. L'Accademia filarmonica, promossa in una riunione di venti cittadini tenuta il 26 aprile del 1826, approvata dal governo pontificio con "dispaccio" del 29 maggio successivo, aveva lo scopo di "creare una scuola gratuita di canto e di suono" ed ebbe a primo direttore Luigi Ghetti, uno dei promotori, e a primo presidente il conte Ippolito Rasponi. Si resse con le quote dei "soci contribuenti" fino all'anno 1852 in cui si dimostrò necessario un assegno annuo del comune che infine, nel 1873, per mantenerla in vita, dovette addossarsela del tutto. In aggiunta agl'insegnamenti già esistenti, il comune nel 1876 deliberò l'istituzione di una "scuola di grammatica musicale e di canto corale" e nel 1901 intitolò l'istituzione al nome di Giuseppe Verdi. Caratteristica speciale della scuola rimase però l'insegnamento degli strumenti a fiato di ottone e segnatamente dei corni.
Il Teatro svolse una vita assai prospera artisticamente, mettendo in scena le opere più notevoli con artisti spesso eccellenti; amministrativamente, subendo quelle alternative che lo svolgersi dei tempi imponeva a tutti i teatri. Tecnicamente, e rispetto alla popolazione, dimostrò la propria sufficienza. Quando, nel 1838, tale sufficienza non sembrò più completa, la magistratura nominò una commissione consigliare con l'incarico di approntare un progett0 per un nuovo teatro; progetto approvato nell'agosto successivo e affidato all'architetto Tommaso Meduna. Egli iniziò la costruzione nel 1840, protraendone il compimento, anzi che al 1842, come si desiderava, fino al 1849. A causa dei movimenti politici l'apertura avvenne solo nel 1852. Nel carnevale di tale anno era stata rappresentata l'opera del Verdi Attila al Teatro Vecchio, che dopo tale spettacolo fu chiuso. L'inaugurazione del teatro nuovo (per suggerimento del delegato apostolico mons. Stefano Rossi intitolato all'Alighieri) avvenne la sera del 15 maggio dello stesso anno 1852. A spettacolo della prima stagione si erano scelte le opere Roberto il Diavolo del Meyerbeer, Medea del Pacini e Lucia di Lammermoor del Donizetti, con l'aggiunta di due balli: La Finta sonnambula e la Zingara.
A Ravenna ebbe i natali, e l'insegnamento, Angelo Mariani (1821-1873), in principio violinista e poi celebrato direttore d'orchestra.
Col 1919 entrò parzialmente nell'orbita musicale anche l'Accademia filodrammatica (già trasformata una prima volta in società drammatica privata di dilettanti), poiché, fusasi con la Società orfeonica e riprendendo l'originario nome, si propose a scopo, oltre all'organizzazione di accademie, conferenze, spettacoli di prosa, gestioni teatrali, ecc., anche il dar concerti e trattenimenti musicali. In tale circostanza intitolò il proprio teatro all'altro cittadino ravennate illustratosi nel mondo delle scene, Luigi Rasi (1852-1918) anche benemerito raccoglitore di una preziosa collezione teatrale.
La provincia di Ravenna. - Confina a N. con quella di Ferrara, ad E. col Mare Adriatico, a S. con le provincie di Forlì e di Firenze, a O. con quella di Bologna. Prima del 1816 la Romagna costituiva una sola provincia: in quell'anno e per virtù di un motu proprio di Pio VII essa fu divisa nelle due delegazioni di Ravenna e di Forlì e tale divisione, benché fosse avversata da Ravenna, finì per essere conservata. Tre governi distrettuali formavano la delegazione di Ravenna, quelli di Ravenna, di Imola e di Faenza. Annessa al Piemonte, il decreto del governatore delle Romagne del 27 dicembre 1859 le tolse Imola, con gran parte del suo distretto, che fu aggregata a Bologna, ma fu beneficata dell'aggiunta di Lugo, Bagnacavallo e Massa Lombarda. Successivamente, con la legge del 3 giugno 1884, passarono a Bologna gli altri comuni del distretto di Imola, e così la provincia di Ravenna fu mutilata, poiché fu staccato da essa un territorio che faceva già parte della circoscrizione di Romagna e che è romagnolo per "idioma, costumi e tendenze".
La provincia è ora la più piccola di tutta l'Emilia, misurando appena 1860,58 kmq., ed è anche la meno popolata (272.500 ab. nel 1931). Per densità essa invece viene quarta dopo Bologna, Modena e Reggio: 146,5 ab. per kmq. Comprende 18 comuni, di varia ampiezza, poiché quello di Ravenna è più di ⅓ dell'area totale, e altri 4 costituiscono un altro terzo (Brisighella, Faenza, Lugo e Alfonsine), sì che 13 occupano il rimanente (579 kmq.). Presso a poco uguale comportamento ha la popolazione: Ravenna ha una popolazione inferiore al terzo, ma i quattro comuni sopra indicati hanno popolazione superiore al terzo di quella totale.
Il territorio comprende per due terzi la vasta regione pianeggiante che si stende dai piedi dell'Appennino al mare e fa parte della Pianura Padana, mentre il rimanente abbraccia le ultime ondulazioni appenniniche solcate dalle valli del Senio e del Lamone, ed altre minori. Per la sua particolare posizione e per il naturale deviare verso est di molti fiumi dell'Emilia orientale, la provincia di Ravenna ha una parte del corso di molti di essi: così il Reno entra nel Ravennate tra Argenta e Conselice e poi segna per un tratto il confine tra Ravenna e Ferrara; il Santerno fa prima da limite del Ravennate, poi scorre fra Lugo e Massa Lombarda e sbocca nel Reno, a est di Lavezzola; così il Montone e il Ronco, due corsi d'acqua forlivesi, entrano separati nella provincia di Ravenna, si uniscono presso la città, e uniti sboccano nell'Adriatico; così il Bevano e il Savio sono per un po', nell'ultimo tratto del loro corso, ravennati. Ma i fiumi ravennati per eccellenza sono il Senio e il Lamone.
La provincia è prevalentemente agricola: cereali e canapa nella pianura, vigneti nella parte alta; frutteti distribuiti un po' da pertutto, ma specialmente nel Massese. Le industrie sono quelle che hanno dall'agricoltura le materie prime: mulini, zuccherifici, pile da riso, fabbriche di conserve: però Faenza ha buona fama per le sue fabbriche di ceramiche e per le fabbriche di mobili. Due centri, Brisighella e Riolo, hanno acque minerali e stabilimenti che le utilizzano. Le grandi arterie stradali passanti per la provincia sono: l'Adriatica che va da Rimini a Ferrara, l'antica Romea, per un tratto la via Emilia, a cui giungono la Ravenna-Cesena, la Ravenna-Forlì, la Ravenna-Russi-Faenza e la Ravenna-Lugo-Castelbolognese: meno la Ravenna-Cesena, tutte le altre fiancheggiano ferrovie e la Ravenna-Forlì una volta era percorsa da una tranvia. C'è inoltre la ferrovia Faenza-Firenze; Riolo era unito a Castelbolognese da una tranvia, Lugo è ancora congiunta per ferrovia con Massa Lombarda e Massa con Lavezzola.
Ravenna è sede arcivescovile; Faenza e Cervia sono sede vescovile: questa dipende da Ravenna, quella da Bologna.
La battaglia di Ravenna. - Combattuta l'11 aprile 1512, giorno di Pasqua, fra le truppe del re di Francia e gli eserciti della Lega Santa. Per evitare che alle schiere dei suoi nemici, il papa e il re d'Aragona, passassero le armi dell'incerto imperatore Massimiliano (fino allora alleato dei Francesi), Luigi XII aveva ordinato a Gastone di Foix, comandante in capo in Italia, di agire energicamente contro le truppe della Lega. Gastone di Foix si avvicinò a Ravenna, piazzaforte presidiata dalle truppe papali e spagnole, e stabilì il campo alla confluenza del Ronco e del Montone. Contro i Francesi mosse un esercito spagnolo al comando del viceré di Napoli, Ramón de Cardona. Prima di essere da questi attaccato, Gastone di Foix provocò a battaglia il presidio di Ravenna, ma una sortita condotta da Fabrizio Colonna respinse i Francesi (9 aprile), che si ridussero di nuovo nel loro campo e si prepararono a provocare la decisione con un atto offensivo in campo aperto. Gastone di Foix iniziò la battaglia col vivo fuoco dei cannoni, cui risposero le bocche da fuoco spagnole con effetti micidiali sulla fanteria francese. A ristabilire le sorti della lotta intervenne il duca di Ferrara con un saggio impiego della propria ottima artiglieria, la quale fu collocata in maniera da battere di fianco e di rovescio le fanterie e i trinceramenti dell'avversario. Fabrizio Colonna tentò allora un supremo sforzo con le proprie fanterie; ma ben presto queste, decimate, furono messe in fuga. Il panico si comunicò alle schiere di cavalli del duca di Pescara. Poiché in alcuni tratti le fanterie della Lega continuavano un'accanita resistenza, Gastone di Foix guidò personalmente a superarla una vittoriosa carica di cavalleria contro i fanti spagnoli. In questo episodio il valoroso capitano francese fu balzato di sella e ucciso. Del campo avverso, Fabrizio Colonna cadde prigioniero del duca Alfonso d'Este, che trattò l'illustre guerriero con ogni onore, rilasciandolo poco dopo libero, senza riscatto. Caddero in questa sanguinosa giornata complessivamente circa 20 mila uomini. La battaglia di Ravenna è ricordata nella storia dell'arte militare come il primo impiego efficace dell'artiglieria campale.
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