RATTO
. Diritto (fr. rapt; sp. rapto; ted. Entführung; inglese rape). - La figura autonoma del ratto, come reato compiuto a scopo di libidine o di matrimonio, non è anteriore a Costantino (320 d. C.). Nel diritto greco e nel diritto romano anteriore a Costantino, si confonde con altri atti della stessa natura, nel reato di violenza. Solo nel caso che il rapito fosse consenziente, il reato assumeva una configurazione diversa (p. es. l'adulterio). Ma quando il ratto è compiuto per mezzo di una sopraffazione fisica, qualunque ne sia lo scopo, è reato di violenza, a meno che la legge, che negli stadî meno progrediti del diritto autorizza l'adozione di mezzi di autodifesa, non consenta il materiale impossessamento e l'abduzione della persona (rapere, ἄγειν). Così, p. es., nell'antico processo romano era lecito rapere in ius l'avversario, costringerlo cioè, anche fisicamente, a comparire davanti al magistrato; il creditore poteva alla scadenza del credito trascinar con sé e vendere il debitore che avesse dato in pegno la propria persona. In diritto attico ogni cittadino poteva afferrare e trascinar con sé all'autorità competente il malfattore (κακοῦργος) colto in flagrante, l'ἄτιμος (capite deminutus) il quale esercitasse i diritti da cui era decaduto; nel diritto romano e greco al padrone era riconosciuto il potere di trascinar con sé lo schiavo fuggitivo (ducere in servitutem; ἄγειν εἰς δουλείαν), a meno che altri non lo asserisse in libertà. Eccettuati i casi nei quali la legge stessa autorizzava la violenza personale, il trascinare con sé una persona sottraendola al suo ambiente e alle sue relazioni normali è reato: atto di brigantaggio o violenza. La forma più grave, e nell'antichità più comune, si ha nel ratto dell'uomo libero per ridurlti schiavo. In diritto attico il rapitore (ἀνδραποδιστης), se sorpreso sul fatto, viene senz'altro consegnato dal magistrato al carnefice (salvo, se ne ha il diritto, l'appello al tribunale). Il rapimento di una fanciulla o di un ragazzo a scopo amoroso esponeva il rapitore alla δίκη βιαίων (azione per violenza); in caso di soccombenza egli doveva pagare in duplum, all'offeso e allo stato, la somma in cui era stato concretato il danno. In diritto romano questa forma di ratto o cadeva sotto la legge criminale (de vi, de adulteriis, ecc.), ovvero dava luogo a un'azione privata per ingiuria da parte del padre o del marito. La persona rapita era sottoposta al iudicium domesticum.
Bibl.: Diritto greco: J. H. Lipsius, Das attische Recht u. Rechtsverfahren, II, ii, Lipsia 1912, p. 637 segg. Diritto romano: Rein, Das Criminalrecht der Römer, Lipsia 1884, pp. 392-398; Th. Mommsen, Strafrecht, Lipsia 1899, pp. 664-65; Ch. Lécrivain, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, s. v. Raptus.
Nel Medioevo il ratto fu diversamente considerato dalle leggi, a seconda che queste erano ispirate dal diritto germanico o dal diritto canonico. Il diritto germanico non punì gravemente il ratto, in considerazione dell'antica organizzazione familiare dei popoli nordici, presso i quali il ratto fu già una forma legittima di matrimonio. È notevole ricordare che nel diritto germanico il consenso della persona rapita non aveva alcuna rilevanza, perché la donna era sempre soggetta all'autorità degli uomini della famiglia, oppure del re. Molto severe furono invece le leggi che s'ispirarono al diritto canonico, che valuta rigorosamente ogni offesa agli ordinamenti familiari e considera, come emerge dal concilio di Trento, il ratto come impedimento al matrimonio, così com'era già considerato nella compilazione giustinianea. Ma il diritto canonico contribuì moltissimo alla precisazione giuridica del delitto di ratto e prese in considerazione il consenso della persona rapita. Il successivo sviluppo delle leggi in materia di ratto si volse alla differenziazione del ratto violento dal ratto consensuale; del ratto per fine di matrimonio dal ratto a fine di libidine.
Il codice penale del 1930 distingue quattro figure di ratto: la prima è quella preveduta dall'art. 522, commessa da chiunque con violenza, minaccia o inganno sottrae o ritiene per fine di matrimonio una donna non coniugata. Tale delitto viene punito con la reclusione da uno a tre anni. Se il fatto è commesso in danno di una persona dell'uno o dell'altro sesso, non coniugata, maggiore degli anni quattordici e minore degli armi diciotto, la pena è della reclusione da due a cinque anni. La seconda ipotesi (art. 523) riguarda chiunque con violenza, minaccia o inganno, sottrae o ritiene, per fine di libidine, un minore, ovvero una donna maggiore di età. L'autore è punito con la reclusione da tre a cinque anni. La pena è aumentata, se il fatto è commesso a danno di persona che non ha ancora compiuto gli anni diciotto, ovvero di donna coniugata. La terza ipotesi (art. 524) si concreta, quando il fatto preveduto negli articoli 522 e 523 sia commesso senza violenza, minaccia o inganno in danno di persona minore degli anni quattordici, o malata di mente, o che non sia, comunque, in grado di resistere all'agente a cagione delle proprie condizioni di inferiorità psichiche o fisiche, anche se queste sono indipendenti dal fatto del colpevole. In questa ipotesi si applicano le pene prevedute nei capoversi degli articoli 522 e 523. Per tutte e tre le ipotesi il ratto è punibile a querela della persona offesa, salvo le eccezioni prevedute negli articoli 542 e 543. Come si vede, elementi comuni a queste tre forme di ratto sono la violenza, la minaccia o l'inganno, effettive nelle prime due ipotesi, presunte nella terza ipotesi per le speciali condizioni della vittima. Del ratto consensuale viene trattato nei delitti contro la famiglia (art. 573), perché, come è detto nella relazione del guardasigilli alla commissione parlamentare, nel ratto consensuale viene offeso prevalentemente il principale attributo della patria potestà o della potestà tutoria, che è quello della vigilanza e della difesa morale dei figlioli e dei pupilli. Il ratto consensuale, secondo l'art. 573, consiste nella sottrazione di un minore che abbia compiuto gli anni quattordici, col consenso di esso, al genitore esercente la patria potestà, o tutore, ovvero nella ritenzione di esso contro la volontà dei medesimi, ed è punito, a loro querela, con la reclusione fino a due anni. Per tutte le ipotesi è preveduta (art. 525) la diminuzione della pena se il colpevole, prima della condanna, senza aver commesso alcun atto di libidine a danno della persona rapita, la restituisca spontaneamente in libertà riconducendola alla casa donde la tolse, o a quella della famiglia di lei, o collocandola in altro luogo sicuro a disposizione della famiglia stessa; ed è preveduta altresì (art. 544) una speciale causa di estinzione del reato o della pena, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato, se l'autore del reato medesimo contragga matrimonio con la persona offesa.
Bibl.: Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, ii, Roma 1929, p. 308; C. Saltelli e E. Romano di Falco, Commento teorico pratico al nuovo codice penale, II, ii, Roma 1930, pp. 747-794 e 871; G. Maggiore, Principii di dir. pen., II, Bologna 1934, p. 345; M. Manfredini, Dei del. di ratto violento, in Tratt. di dir. pen., di E. Florian, Milano 1934, p. 163.