RATERIO
– Nacque assai presumibilmente fra gli anni 887 e 890, in Belgio, da una famiglia aristocratica; il padre è definito da lui stesso ingenuus, ossia appartenente alla nobiltà; l'identità della madre è invece sconosciuta.
La tradizione storiografica lo presenta costantemente come Raterio “di Verona”, identificandolo dunque con una sede vescovile, in cui rimase poco tempo (12 anni su oltre 80) e in modo discontinuo: due anni e mezzo la prima volta, due anni e qualche mese probabilmente la seconda e quasi sette l’ultima, dopo 15 anni di assenza.
La prima parte della sua vita trascorse fra Liegi, luogo di origine della famiglia, e Lobbes (nel Belgio attuale), sede del monastero ove fu collocato come oblato, secondo una radicata consuetudine delle famiglie aristocratiche europee.
La condizione di oblato, vissuta inconsapevolmente da puerulus, fu in seguito confermata dallo stesso Raterio, che in età matura mise per iscritto di suo pugno la promessa di stabilità, di osservanza delle consuetudini e di obbedienza, deponendola sullo stesso altare su cui era stato offerto al monastero da bambino.
La cultura acquisita a Lobbes fu da un lato l’esito di un lavoro di affinamento solitario, condotto sui testi che riusciva a procurarsi e a consultare, e su cui incessantemente indugiava con la perseveranza del lettore accanito, «raggiungendo con temeraria presunzione i risultati che altri avevano a malapena imparato e con gran fatica dai maggiori maestri» (così Raterio stesso nel Proemium della Phrenesis, ovvero Pazzia, Die Briefe, 1949, p. 59); dall’altro invece rappresentò il frutto della «benigna istruzione» che gli venne impartita dai monaci, di cui non osava proclamarsi ‘figlio’ ma semmai ‘giovane schiavo’ e certamente ‘fuggitivo’.
Va detto tuttavia che la sua formazione non si concluse a Lobbes ma proseguì negli altri luoghi e ambienti ove fece tappa nel corso della sua vita (la corte di Pavia, quella di Ottone I, la schola palatina – ove fu considerato, secondo l’informatissimo Folcuino, il primo inter palatinos philosophos –): ambienti culturali di ampio respiro ove poté consultare molti testi – almeno 15 mss. ospitano postille autografe di Raterio – attingendo da essi strumenti, stimoli e conoscenze.
La promessa di osservare la stabilitas monastica fu infranta da Raterio – che per questo si auto-definisce ‘fuggitivo’ – nel 926, a 40 anni circa; accompagnò infatti alla corte di Pavia il vescovo e abate Ilduino (che vi si recò – destituito e allontanato dall’episcopato di Liegi – al seguito del cugino Ugo di Vienne, re d’Italia, con l’obiettivo di assumere l’episcopato di qualche ragguardevole città del Regno Italico, come in effetti accadde [Verona 928-31, e poi Milano, sedi ottenute iure stipendiario come scrive Raterio stesso: Die Briefe, 1949, Ep. 7, p. 35]). Le competenze canonistiche dell’ambizioso monaco (come egli stesso ammette di essere, negli scritti più marcatamente ‘autobiografici’) furono preziose per Ilduino: fu Raterio infatti che nel 931 si recò a Roma e ottenne da Giovanni XI il pallio per Ilduino e la cattedra di Verona per sé.
Il suo insediamento non fu tuttavia privo di ostacoli: Ugo, incerto nella scelta del nuovo presule fra diversi suoi fedeli, cedette soltanto di fronte alla richiesta scritta di papa Giovanni XI, alle pressioni dello stesso Ilduino e di altri non specificati maggiorenti del Regno, ma ancor più di fronte alla grave malattia che aveva colpito Raterio. Coloro che caldeggiavano la sua elezione fecero leva infatti sulla gravità di tale malattia, convincendo il re Ugo che il monaco non sarebbe sopravvissuto a lungo e inducendolo così a non opporsi alla sua ordinazione vescovile.
Ebbe così inizio la prima fase dell’episcopato veronese di Raterio (931-934), caratterizzata da una buona accoglienza da parte del clero e dei fedeli e da un marcato attivismo nel governo della diocesi e nell’amministrazione dei beni della Chiesa locale. Fu proprio tale atteggiamento a dare avvio ai contrasti con il re Ugo, che non gli volle corrispondere una parte consistente di entrate spettanti all’episcopio e che manifestò una progressiva ostilità. L’occasione per sbarazzarsi di lui giunse con l’aggressiva campagna di conquista condotta da Arnolfo duca di Baviera (922-934). Il conte di Verona Milone e lo stesso Raterio si schierarono probabilmente con Arnolfo e Ugo, uscito vincitore dallo scontro, ebbe il pretesto per allontanare il presule da Verona, senza sottoporlo ad alcun dibattimento processuale.
Per due anni (dal febbraio 934 all’agosto del 936) Raterio fu perciò rinchiuso nella prigione nota come ‘torre di Valperto’, e ne uscì solo per essere inviato in esilio a Como, ove rimase fino all’inizio del 939. Che si sia trattato di un vero e proprio carcerale supplicium – come affermato dal vescovo (Die Briefe, Ep. 7, p. 37) – oppure di una forma di reclusione meno rigida, in grado di consentirgli una vita sociale non del tutto azzerata e soprattutto l’accesso ad alcuni strumenti di studio e lettura (come sembra sostenere su base comparativa la più recente storiografia), i cinque anni trascorsi a Pavia e a Como diedero a Raterio il tempo e l’occasione di un profondo ripiegamento interiore, da cui scaturì l’impianto della sua opera più conosciuta, i Praeloquia o Meditationes cordis in exilio cuiusdam Ratherii Veronensis; un libro «sulle tristezze del suo esilio [...] composto con grande raffinatezza di stile» (Liutprando, Antapodosis, 2015, p. 239). Da Como scrisse molto, sia come forma di autodifesa circa il suo operato nella diocesi atesina, sia per promuovere i Praeloquia (continuamente rielaborati anche negli anni successivi), inviati a ecclesiastici di rango (gli arcivescovi Roberto di Treviri e Brunone di Colonia).
Senza il consenso del re Ugo, all’inizio del 939 Raterio abbandonò l’esilio comasco per dirigersi Oltralpe; non si sa dove andò di preciso, ma è certo che fu in ristrettezze economiche e fu costretto (secondo Folcuino) a mantenersi esercitando il ruolo di insegnante di un certo Rostagno, rampollo di una famiglia nobile, per il quale compose un manuale di grammatica oggi perduto, intitolato Sparadorsum (capace cioè di risparmiare le sferzate del maestro allo scolaro che se ne fosse servito). Le tappe accertate sono la Provenza, Laon (ove fra il 944 e il 946 pronunciò un sermone per la festa di san Donaziano, celebrata il 14 ottobre), Reims ove forse conobbe lo storico e poeta Flodoardo, e il felix portus di Lobbes (Die Briefe, Ep. 3, p. 24), che lo riaccolse dopo quasi 20 anni di lontananza, ma solo per pochi mesi. Infatti, conseguentemente alle vicende politiche di quegli anni (il contrasto per il regno tra Ugo e Lotario da una parte, e Berengario II di Ivrea dall'altra) poté riottenere l’episcopato veronese (inizio 946-maggio 948), sottraendolo a Manasse di Arles (poi trasferito alla sede milanese).
Ma le difficoltà che avevano segnato i primi anni veronesi si ripresentarono. Raterio tentò nuovamente di riorganizzare il patrimonio della Chiesa, mediante alcune permute (di cui ci è giunta documentazione); ma a causa della doppiezza del conte Milone egli trascorse «due anni di martirio» (come scrisse al papa Agapito II: Die Briefe, Ep. 7, p. 38), conclusisi con l’abbandono forzato del ministero episcopale e con un nuovo trasferimento Oltralpe, verso Lobbes, mentre la cattedra veronese fu occupata dal nipote del conte, l’omonimo Milone, dal 950 al 961.
Benché il desiderio espresso da Raterio fosse quello di perpetuo quiescere a Lobbes (Die Briefe, Ep. 9, p. 48), negli anni successivi si avvicinò progressivamente agli esponenti della casata di Sassonia e nel 952 Ottone I re di Germania lo chiamò alla scuola palatina di Aquisgrana, ove ebbe modo di estendere la sua fama di intellettuale – lo attestano le parole lusinghiere di Folcuino – e di dedicarsi alla lettura e allo studio.
L’amicizia e la protezione di Bruno, fratello di Ottone e arcivescovo di Colonia, gli procurarono poco dopo l’episcopato di Liegi, a cui fu solennemente elevato il 25 settembre 953. L’epilogo di tale esperienza di governo non fu diverso da quello che aveva vissuto a Verona, poiché, meno di due anni dopo, in concomitanza con la Pasqua del 955, fu costretto a ritirarsi e cedere l’episcopato.
Alle difficoltà interne sorte con il clero di Liegi, che contestò la sua traslazione e si rivelò poco incline ad accogliere i provvedimenti di riforma emanati in seguito alla visita al territorio diocesano, si era aggiunta la problematica situazione politica della casa di Sassonia, impegnata - proprio in Lotaringia - a fronteggiare una consistente opposizione. La fonte principale degli eventi in questione risulta, anche in questo caso, la produzione auto-apologetica di Raterio, oltre ad alcuni cenni della Vita Brunonis di Ruotgero.
Ritiratosi da Liegi, Raterio fu accolto con benevolenza e magnanimità a Magonza dall’arcivescovo Guglielmo, figlio naturale di Ottone e suo discepolo presso la scuola palatina; in tale contesto, maggiormente pacificato, il prelato poté dedicarsi nei mesi centrali del 955 all’elaborazione della Phrenesis, un’autodifesa giuntaci in modo frammentario, nella quale confluirono testi concepiti in precedenza e scritture del tutto nuove. Nella seconda metà dello stesso anno a Raterio fu concesso di tornare all’agognata vita monastica, che abbracciò fino al 961, diventando abate del monastero di Aulne, dipendenza di Lobbes ad essa prossima. Senza abbandonare gli scritti epistolari e le narrazioni autobiografiche, in questi anni Raterio scrisse prevalentemente di spiritualità monastica (si colloca in questo periodo la composizione del Dialogus confessionalis) e di teologia.
Quando nell’estate del 961 Ottone, con la moglie Adelaide, discese per la seconda volta in Italia (e ottenne il 2 febbraio 962 la corona imperiale), fece parte del suo seguito anche Raterio, che nel settembre 961 venne insediato per la terza volta sulla cattedra vescovile della città dell’Adige. Il ruolo di Ottone in questa come in altre numerose nomine vescovili contemporanee, dovette essere predominante, ma è lo stesso Raterio a ricordare che la sua ricollocazione nella sede veronese avvenne «per autorità della Sede Apostolica» (Die Briefe, Ep. 22, p. 116).
Il ritorno all’agone politico-religioso, dopo alcuni anni di solitudine monastica, non rese più facile il suo terzo periodo veronese (961-968), vissuto all’insegna della perenne, e a tratti drammatica, contesa con l’ambiente ecclesiastico e politico locale. Tale conflittualità senza tregua si riflette ancora una volta negli scritti, copiosi anche in questi ultimi anni di episcopato e testimonianza eloquente di uno stato d’animo caratterizzato dalla disperazione per aver «fallito su tutta la linea» (Vinay, 1978, p. 387; Leonardi, 2004, p. 356).
L’opera più rappresentativa dell’ultimo periodo trascorso a Verona fu sicuramente la Qualitatis coniectura, scritta nel 966: una sorta di memoriale, indirizzato ai numerosi detrattori del suo operato nella città veneta. Anche in questi anni lesse molto e postillò molti codici, non tanto come otium nelle difficoltà ma al contrario per supportare le proprie convinzioni ecclesiologiche e per arricchire la propria autodifesa; questo significato hanno ad es. le glosse agli atti dell’ottavo concilio ecumenico (Costantinopoli, 869-870) nel Vat. Lat. 4965.
Nel 963 Raterio fornì a Ottone I – impegnato nella lotta contro Berengario II – un significativo apporto militare nella conquista della rocca di Garda (963). Sul versante interno, la volontà di risanare la situazione culturale, morale e materiale del clero veronese provocò violenti contrasti. Di fronte alla mulierositas e al concubinato dei sacerdoti, all’ereditarietà delle cariche, alla diffusa ignoranza, all’amore per il lusso e all’eccessiva ricchezza dei chierici maggiori (che andava a danno dei chierici minori, costretti a cercare forme di sostentamento supplementari e di conseguenza negligenti nei confronti dei divina officia), Raterio prese provvedimenti che risultarono sgraditi sia ai canonici della cattedrale, che da una più equa distribuzione delle risorse vedevano ridotte le loro entrate, sia allo stesso clero minore, che aspirava a salire nella scala sociale piuttosto che a condividere le ricchezze disponibili.
Lesiva dei diritti del capitolo cattedrale fu considerata la creazione di un gruppo di chierici giuridicamente sganciati dal clero maggiore della cattedrale – composto da presbiteri cappellani, suddiaconi, accoliti e ostiarii –, ai quali Raterio intendeva attribuire alcuni beni appartenenti alla mensa vescovile e da lui stesso sottratti a persone definite ‘ingrate’. I suddetti chierici, avrebbero avuto la facoltà eleggere il proprio superiore o praepositus, cui spettava l’incarico di distribuire le rendite a seconda del lavoro svolto in maniera egualitaria. Tale progetto fu fieramente osteggiato dal clero veronese, che ne rese impossibile la realizzazione.
Tuttavia alcune scole (a quanto sembra, centri di formazione e istruzione religiosa dei chierici minori) sono attestate (già nel 944-946): si trovavano in varie zone della diocesi – in Valpantena (Sezano), sul Garda (Maguzzano) – oppure in chiese della città che mantenevano un forte legame con l’episcopato, come S. Stefano e S. Pietro in Castello. Il ruolo diretto del presule nella loro origine e nel loro sviluppo è ancora da chiarire, ma certamente esse sono un elemento qualificante dell’episcopato rateriano: un’esile ma concreta realizzazione del suo pensiero ripetitivo e ossessivamente reiterato intorno alla moralizzazione e all’istruzione del clero.
Altre iniziative di riforma segnarono questo terzo periodo dell’episcopato veronese. Innanzitutto, l’attenzione per l’edilizia sacra e la manutenzione degli edifici esistenti, che offrivano alla città e ai suoi poveri «un tetto che dura secoli e muri resistenti in eterno» (come afferma in Die Briefe, Ep. 30, p. 173); numerosi sono i riferimenti disseminati nella produzione letteraria ed epistolare, benché sia difficile trovare prove e testimonianze concrete. In secondo luogo, l’azione del vescovo si indirizzò alla vita religiosa dei laici, non immuni da superstizioni e convinzioni ereticali (come una concezione antropomorfica della divinità), oltre che scarsamente zelanti in tema di digiuno, elemosina, preghiera, astinenza, riposo festivo: per quest’ultimo motivo proibì l’apertura delle porte cittadine la domenica sì da inibire il commercio, attirandosi l’inimicizia di clero e cittadini (fomentati dal deposto vescovo Milone, e dal conte Bucco, filo-ottoniano come Raterio).
Nonostante l’appoggio di Ottone (che aveva incontrato a Ravenna in occasione di una sinodo, aprile 967), nell’estate 968 Raterio fu pertanto sottoposto a un processo – alla presenza di numerosi cives – nel contesto di un placito presieduto dal conte Nannone. Gli furono mosse pesanti accuse: l’abbandono e il degrado della domus vescovile, l’uso della coercizione e della forza verso i chierici e i servi al suo servizio, la sottrazione di alcuni benefici chiericali, l’utilizzo a fini personali di un terreno di natura pubblica, situato presso l’Adige. Tutti i provvedimenti da lui presi nei confronti del clero furono abrogati e il suo operato complessivamente sconfessato.
L’epilogo del terzo periodo di episcopato veronese è narrato ancora una volta da Raterio stesso, che scrisse al cancelliere imperiale Ambrogio, con la flebile speranza di un intervento che cancellasse la sentenza emessa da Nannone. In mancanza di tale revoca, all’anziano vescovo non rimase che negoziare le condizioni del suo ultimo allontanamento da Verona, comprensive di un favorevole trattamento economico, consistente – secondo la testimonianza di Folcuino – in una grande quantità di oro e argento (Folcuino, Gesta, 1841, p. 69).
È del tutto plausibile che il presule abbia portato con sé molti libri, alcuni dei quali testimoni della sua ampia produzione letteraria, altri da lui fittamente postillati, con glosse di minore o maggiore consistenza. In uno di questi manoscritti era contenuta anche la celebre raffigurazione di Verona, accompagnata da tre distici elegiaci e da alcune didascalie, indicata come Iconografia rateriana, oggi conosciuta solo attraverso due apografi settecenteschi.
Raterio concluse la sua vita in un’ulteriore inquieta peregrinazione fra i monasteri della Lotaringia: in particolare i ‘suoi’ cenobi di Lobbes, ove era entrato da bambino e che resse dal 970 al 972, e Aulne, ove fu abate negli anni 972-973. Ma a causa delle operazioni militari verificatesi proprio in Lotaringia dopo la morte di Ottone I (7 maggio 973), egli dovette lasciare anche Aulne e trasferirsi a Namur, ove morì il 25 aprile 974, ultraottantenne. Da lì il suo corpo fu trasportato a Lobbes, e inumato nella chiesa del monastero (dedicata a Sant’Ursmaro), con esequie solenni, degne di un prelato della sua statura.
È probabile che sulla sua tomba – distrutta nel corso della Rivoluzione francese – comparisse l’epitaffio che aveva composto per se stesso, trasmesso dal ms. Valencienne, Bibliothèque municipale, 843, c. 127r: «È Raterio, vescovo di Verona, ma tre volte esule, prima e dopo vestito della tua cocolla, Lobbes, uomo nobile, arguto secondo le circostanze, morigerato, a chiedere di incidere sulla sua tomba queste parole: “Calpestate, piedi degli uomini, questo sale senza sapore”; chi legge soccorra propizio con preghiere».
I testi scritti da Raterio (il più prolifico autore del secolo X) sono molti; poche, poco importanti e non tutte affidabili le fonti documentarie, talvolta falsificate allo scopo di appoggiarsi alla sua fama (ma partendo da un rapporto reale, come nel caso di S. Pietro in Castello di Verona, ove secondo la Qualitatis coniectura abitò dal 965 al 968, avviandone anche il restauro). Segno di contraddizione già per i contemporanei in quanto vescovo e uomo politico, Raterio fu comunemente apprezzato in quanto uomo di cultura elevata.
Folcuino, cronista del monastero di Lobbes e suo contemporaneo, lo definì perspicacissimus soprattutto nell’insegnamento degli studia litterarum; Ruotgero, che ne tratta per il breve episcopato di Liegi (953-955), incensa la sua ampia doctrina e la eloquentia copiosa; Eraclio, vescovo di Liegi, ricorda il ‘maestro’ a cui nessuno poteva essere superiore per sapienza, probità, studio delle arti, innocenza; e infine Liutprando di Cremona, unico autore italiano a parlare di Raterio e rinomato presule del X secolo, asserisce che sulla nomina vescovile del monaco di Lobbes aveva influito fortemente la sua peritia nelle arti liberali.
Dopo gli assai positivi giudizi espressi dai contemporanei, su Raterio e sulla sua produzione letteraria scese il silenzio e la scarsa fortuna delle sue opere è testimoniata anche dall’esiguo numero di codici che le tramandano. L’interesse si riaccese solamente nel XVI secolo, quando i Centuriatori di Magdeburgo ne fecero un autentico precursore della riforma, inaugurando così un fortunato e tuttora fecondo filone interpretativo. A partire dal Settecento cominciò una riflessione critica, grazie a una biografia redatta dal primicerio della cattedrale di Udine (F. Florio, Saggio sulla vita di Raterio vescovo, Roma 1754) e soprattutto all’edizione delle opere dei veronesi Pietro e Girolamo Ballerini. Alla fine dell’Ottocento risale la biografia del Vogel, per certi aspetti tuttora imprescindibile e caratterizzata da un’attenzione specifica ai documenti; seguirono alcuni ritratti fortemente apologetici di primo Novecento (Pavani, Monticelli) e infine le recenti e documentate biografie di Cervato, cui si sono aggiunte molte ricerche parziali. La ricerca ha inoltre fortemente enfatizzato l’importanza delle postille autografe che Raterio – definito lettore appassionato e onnivoro – avrebbe apposto sui margini dei codici consultati.
Sono circa una quindicina, allo stato attuale degli studi, i manoscritti con interventi autografi di Raterio, ma l’elenco è ancora provvisorio. Al 951-952 risalgono gli interventi del vescovo su un codice leidense dell’opera di Marziano Capella De Nuptiis Philologiae et Mercurii; alla metà del decennio successivo (965) si situano invece le corpose glosse agli atti dell’ottavo concilio ecumenico, contenenti riferimenti espliciti al suo difficile rapporto con il clero della diocesi veronese. Un filone di indagini tutt’altro che esaurito è infine quello che si propone di individuare le fonti di Raterio, ovvero la diffusa rete di auctoritates, letture e riferimenti culturali che sono il presupposto per la comprensione degli scritti del presule. La ricerca delle fonti, seguendo la strada battuta da François Dolbeau, da Claudio Leonardi e più di recente da Benedetta Valtorta, ha fornito dati utili sia per quanto riguarda le modalità espressive del vescovo, sia per ciò che attiene l’insieme dei temi che costituiscono la Weltanschauung rateriana.
Opere. I Praeloquia sono sicuramente la più nota delle opere di Raterio. Suddivisa in sei libri, fu scritta, come si è detto, durante la prigionia pavese e l’esilio comasco (dal 932 al 939) e subì successive rielaborazioni nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo X. Benché l’opera si ponga sulla scia dei testi parenetico-pastorali, indirizzati alle diverse categorie della Cristianità – i primi due libri trattano dei generali doveri dei laici che vivono e agiscono al tempo di Raterio; il terzo e il quarto sono dedicati ai doveri del re; il quinto e sesto sono invece rivolti al clero e in modo specifico ai vescovi – nel testo prende spesso il sopravvento l’originale vicenda dell’autore, al punto da fargli affermare di avervi «dipinto tutto se stesso» (Praeloquia, in Ratherii Veronensis Opera, 1984, VI, 26) e da rendere preminente l’obiettivo di autodifesa di fronte a re Ugo, che lo aveva accusato di aver favorito l’intervento in Italia di Arnolfo di Baviera, costringendolo ad abbandonare l’episcopato. Il forte autobiografismo dell'opera non deve tuttavia far dimenticare che Raterio attinse con grande abbondanza dai testi biblici e patristici, citando in maniera esplicita, o richiamando in maniera allusiva, numerosissimi autori, fra i quali dominano Agostino (il titolo si ispira assai probabilmente alla parola Soliloquia, creazione verbale di Agostino), Ambrogio, Gerolamo, Gregorio Magno, Leone, ma anche Boezio, Isidoro di Siviglia, Beda. La ricca messe di fonti individuate nell’opera ha suggerito a François Dolbeau l’ipotesi - non unanimemente accolta dagli studiosi - che i Praeloquia fossero destinati a servire da introduzione (da cui il titolo) a un florilegio patristico intitolato Agonisticus, che tuttavia non ci è pervenuto. Raterio inviò i Praeloquia a diversi prelati suoi contemporanei, dai quali sperava di ottenere benevolenza; nonostante ciò l’opera non ebbe grande diffusione e la sua fama non oltrepassò di molto la vita dell’autore; essa è tradita da un solo codice, il Valencienne 843.
Assai elaborata, disomogenea nella composizione e piuttosto oscura nello stile, risulta l’opera intitolata Phrenesis, ovvero Pazzia, presumibilmente realizzata dal vescovo intorno all’anno 955, in seguito all’epilogo tempestoso dell’episcopato di Liegi (953-955). Il titolo si spiega con il fatto che alcuni oppositori, in risposta alle invettive del presule, gli affibbiarono l’appellativo di phreneticus. L’opera, che ci è giunta in modo solo frammentario, era composta di 12 libri e costituita in gran parte da scritti precedenti, soprattutto opuscoli, lettere e prosimetri. Ne faceva parte anche la ben nota Conclusio deliberativa (identificata con il libro XI), composta nella Pasqua dell’anno 955, nella quale Raterio espose l’insieme dei quaranta motivi per i quali si opponeva all’abbandono dell’episcopato; un Proemio e numerose lettere, fra cui l’epistola a Baldrico vescovo di Liegi, in cui Raterio offre una narrazione della sua attività di presule della città belga. Le difficoltà nella ricostruzione dell’opera (pubblicata per la prima volta dai sacerdoti veronesi Pietro e Girolamo Ballerini) derivano anche dal fatto che di essa non si conservano a tutt’oggi testimoni antichi.
La Qualitatis Coniectura costituisce il testo più significativo del terzo periodo dell’episcopato veronese (961-968). Secondo la recente interpretazione di Benedetta Valtorta, pur configurandosi come un’opera indipendente, essa rappresenterebbe anche uno specifico capitolo di un più ampio scritto interamente dedicato alle vicende veronesi di Raterio e tramandato, insieme alla Qualitatis Coniectura, in un manoscritto, coevo all’autore e conservato a Laon (Bibliothèque Municipale 274). Fu composta dal presule nell’anno 966, prima del suo terzo e definitivo allontanamento dalla sede vescovile veronese, con la dichiarata ed esplicita finalità apologetica di presentare la sua attività di vescovo – fortemente screditato da numerosi nemici e detrattori – e di ottenere ancora una volta l’appoggio dell’imperatore Ottone I. L’autore indugia sulla descrizione del suo ruolo di vescovo-monaco, sui problemi concreti dell’amministrazione della Chiesa veronese, sulle difficoltà incontrate nel rapporto con le autorità politiche, offrendo di sé una rappresentazione non priva di ironia e sarcasmo, talora impietosa.
Dialogus confessionalis. L’opera, composta nel periodo in cui Raterio divenne abate dell’abbazia di Aulne, fra la seconda metà del 955 e il 960, si configura come un dialogo dell’autore con un senior spiritualis e presenta un forte impianto autobiografico, confermato dallo stesso Raterio nella Qualitatis Coniectura, ove dirà: «Chi vuole conoscerlo cerchi di leggere attentamente tutto il libro della Confessione» (Qualitatis coniectura, 2016, 8, pp. 99 s.). Fra le tematiche trattate da Raterio nell'opera emerge in modo peculiare la difficoltà di conciliare la sua identità di monaco con l’ufficio episcopale, ma si evidenziano altresì riflessioni riguardanti la vita penitenziale e soprattutto il tema eucaristico.
Conclusio deliberativa. Composta come scritto a se stante intorno alla Pasqua del 955, quando gli venne chiesto di lasciare l’episcopato di Liegi, l’opera venne successivamente inserita nella Phrenesis, di cui andrà a costituire l’XI libro. Il vescovo vi espone, articolandola in quaranta posizioni, la sua ferma decisione di non abbandonare la cattedra vescovile.
Invectiva de translatione sancti Metronis. Il testo fu scritto nell’anno 962 in occasione del trafugamento del corpo di san Metrone, sepolto nella chiesa veronese di S. Vitale. Oltre a fornire alcuni elementi sulla vita assai incerta del santo – Metrone, vissuto fra l’VIII e il IX secolo, per punirsi di alcune gravi colpe giovanili si sarebbe incatenato per sette anni a una pietra, gettando la chiave in acqua – Raterio propone il culto di un personaggio che si caratterizza per una santità rigidamente penitenziale.
Vita sancti Ursmari. Ursmaro, morto nel 713, era stato abate di Lobbes non molto tempo dopo la sua fondazione. Quando durante l’esilio comasco (937-939) Raterio ebbe modo di reperirne la Vita – composta da Ansone nella seconda metà dell’VIII secolo – realizzò una riscrittura del testo, con poche varianti rispetto all’originale, e la inviò ai confratelli di Lobbes.
Sermoni. Si può definire ancora provvisorio l’elenco dei sermoni attribuiti con sicurezza a Raterio, poiché non è facile, come ha sostenuto François Dolbeau, tracciare una distinzione fra alcuni scritti minori e sermoni. Inoltre alcuni manoscritti del X secolo, ora conservati a Monaco alla Bayerische Staatsbibliothek (nn. 6340 e 6426), hanno tramandato gruppi di sermoni anonimi e centoni di autori antichi assemblati per la predicazione, contenenti allocuzioni riconducibili allo stesso Raterio. È certo tuttavia che la quasi totalità dei sermoni attribuiti senza dubbio a Raterio risale al terzo periodo dell’episcopato veronese (961-968), con l’eccezione del sermone Pauca de vita et actibus sancti Donatiani presulis, scritto e probabilmente predicato a Reims fra gli anni 944-946. All’anno 963 si riferiscono il Sermo I de Quadragesima, il Sermo I de Pascha, il Sermo I de Ascensione e il Sermo I de Pentecoste; all’anno 964 risalgono il Sermo in cena Domini, il Sermo II de Quadragesima conosciuto come Chronographia e il sermone Contra reprehensores sermonis eiusdem; si colloca probabilmente nell’anno 966 la composizione del Sermo de Maria et Martha, mentre al 968 risale un altro gruppo consistente di sermoni, ovvero il il Sermo II de Pascha, il Sermo de octavis Paschae, il Sermo post Pascha, il Sermo II de Ascensione, il Sermo II de Pentecoste.
Epistole. Le 33 lettere, edite da Fritz Weigle nel 1949 – edizione dalla quale si è soliti assumere la loro numerazione – costituiscono una parte assai consistente dell’opera di Raterio, il quale senza soluzione di continuità affidò al genere epistolare la narrazione delle sue tormentate vicende esistenziali (per esempio l’epistola al pontefice Agapito, scritta nel 951 per narrare le vicende dell’episcopato veronese a partire dal 931), la presentazione di alcune opere inviate ai contemporanei (epistola a Bruno fratello di Ottone I, accompagnata da una redazione dei Praeloquia), le invettive rivolte ai numerosi detrattori e nemici, la dissertazione su alcuni temi di natura religiosa, teologica, liturgica e giuridica legati al suo ufficio di vescovo, le richieste di aiuto ai personaggi influenti del suo tempo, le risposte a coloro che gli chiedevano interventi o consigli di vario genere. Alcune epistole, per volontà dello stesso Raterio - che in modo continuativo intervenne sulla composizione delle sue opere maggiori apportandovi successivi rimaneggiamenti e rielaborazioni - sono divenute parti costitutive dei suoi scritti (un esempio è costituito dalla lettera al chierico veronese Urso inserita nel III libro dei Praeloquia).
Scritti minori. De otioso sermone. Composto verosimilmente fra gli anni 964-966 tale scritto viene spesso annoverato fra sermoni; si propone di illustrare il contenuto dei capitoli 6 e 67 della regola benedettina e un passo scritturistico di Eccl. IX, 1-2.
De proprio lapsu. Lo scritto, risalente all’anno 964, attiene al genere letterario della ‘confessione’, non di rado praticato dall’Autore, che accusa se stesso portando alla luce le proprie mancanze, rivolgendosi altresì a dei penitenti non ben precisati.
De nuptu cuiusdam illicito. Lo scritto, composto a Verona per la Quaresima dell’anno 966, approfondisce il tema del celibato ecclesiastico in riferimento a un episodio accaduto in città, ove un chierico e una donna, entrambi figli di sacerdoti, avevano contratto matrimonio di notte e durante la Quaresima.
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