rasa
Termine sanscr. polisemico che indica l’esperienza estetica nella drammaturgia e nella poetica indiane. La teoria estetica del r. nasce in ambito teatrale e si estende poi alla poetica, che ne fa il suo concetto cardine, quindi alla musica e ad altre arti.
Il più antico trattato di drammaturgia indiana a noi pervenuto è il Nāṭyaśāstra («Trattato di drammaturgia», ca. 200-400 d.C.) attribuito a Bharata, autore semileggendario. In 37 capitoli e circa 5000 versi questo testo tratta nel dettaglio tecniche e convenzioni di composizione, recitazione, danza e musica. Il sesto capitolo presenta l’embrione della teoria del r. e darà luogo a una fertile tradizione esegetica con varie interpretazioni e applicazioni letterarie, psicologiche e teologiche. Bharata elenca otto tipi di r.: erotico (śrṅgāra), ilare (hāsya), tragico (kāruṇa), furioso (raudra), eroico (vīra), terribile (bhayānaka), repulsivo (bibhātsa) e meraviglioso (adbhūta). L’esperienza del r., secondo la formulazione del cosiddetto «aforisma del r.», avviene grazie alla concomitanza di quattro fattori: un’emozione primaria (sthāyin) già presente nel fruitore in potenza, condizioni causali (vibhāva), determinati sintomi (anubhāva) ed emozioni transitorie (vyabhicārin). In corrispondenza degli otto tipi di r. ci sono otto rispettive emozioni primarie. Le condizioni causali sono di due tipi: la causa materiale, ossia il sostrato del r., suddiviso a sua volta in soggetto del r. e oggetto del r., e gli stimoli scatenanti esterni, per es., nel caso del r. erotico, i profumi della primavera, il canto del cuculo, la luna piena, ecc. I sintomi del r. sono descritti in liste di trasformazioni emotive e fisiche tipiche di ognuno dei r., per es. brividi, pelle d’oca, sudorazione, ecc. nel caso del r. erotico. Le emozioni transitorie sono stati mentali come apprensione, gelosia, impazienza, ecc. Gli autori successivi accettano in gran parte questo schema, pur interpretandolo e applicandolo in modo diversificato soprattutto in merito all’eziologia e alla priorità dei quattro tipi di fattori, alle condizioni necessarie per la presenza dello stato stabile (innata o culturalmente indotta) e alla disposizione alla fruizione da parte dei possibili soggetti implicati nell’esperienza estetica, cioè l’autore, l’attore, ilpersonaggio rappresentato e lo spettatore. Ānandavardhana nello Dhvanyāloka (9° sec.) e Abhinavagupta (10°-11° sec.) nei suoi commenti allo Dhvanyāloka e al Nāṭyaśāstra aggiungono agli otto r. di Bharata il r. della quiete interiore (śānta).
La definizione di composizione poetica è un tema molto sentito nella poetica indiana e i trattati iniziano per lo più proprio con un dibattito sull’essenza distintiva della poesia. A differenza di altri autori che vedono lo specifico poetico nella struttura formale, nelle caratteristiche ornamentali o in fattori stilistici, Ānandavardhana individua tale specificità in una particolare funzione linguistica che chiama vyañjanā, «suggestione» o «manifestazione» di un significato non esplicito. I grammatici (➔ Vyākaraṇa) avevano già individuato due funzioni linguistiche, una latrice del significato letterale e l’altra del significato traslato (➔ lakṣaṇā). Nell’espressione ‘il villaggio sul Gange’, per es., il significato letterale è escluso per l’impossibilità della presenza fisica del villaggio sopra il fiume e induce a propendere per il senso traslato del villaggio sulla riva del fiume. La suggestione poetica, grazie a elementi contestuali, aggiunge ulteriori strati semantici come la purezza e la santità del villaggio, dovuto alla sua prossimità al fiume sacro. Ānandavardhana chiama questo riverbero di significati dhvani («risonanza») e lo identifica come anima della poesia. Nel suo commento ad Ānandavardhana Abhinavagupta sviluppa l’idea che l’essenza dello dhvani è proprio il rasa. Abhinavagupta è considerato il più autorevole commentatore sia di Bharata sia di Ānandavardhana e la sua interpretazione è il modello di partenza di gran parte della speculazione successiva.
Ad Abhinavagupta si deve anche la concezione di esperienza del r. assimilata a esperienza ultramondana dell’Assoluto, poi ripresa da importanti autori successivi come Mammaṭa Bhaṭṭa, Viśvanātha e Gaṅgādhara, con una descrizione di tale esperienza che utilizza un lessico mutuato da quello utilizzato in Advaita Vedānta per indicare lo stato di identificazione con il brahman. Il climax dell’assorbimento nell’opera d’arte è per Abhinavagupta l’assaporamento del r. in cui si hanno una pace interiore (ātmaviśranti) e una suprema beatitudine (paramānānda) libera da dualità e condizionamenti mondani. L’applicazione teologica del r. diventa un elemento importante anche in tradizioni teistiche più tarde, in partic. nei trattati del pensatore dell’Advaita Vedānta Madhusūdana Sarasvatī e del kr̥ṣṇaita Rūpa Gosvāmin (16° sec.) (➔ Vedānta). Se nel caso di Abhinavagupta l’esperienza del r. era detta trascendente (alaukika, ➔ loka) e veniva paragonata alla realizzazione dell’Assoluto in chiave monistica, nella teologia kr̥ṣṇaita di Rūpa Gosvāmin la teoria del r. diventa la chiave interpretativa di ogni atto divino e mondano, con una distinzione tra r. materiali e spirituali, l’introduzione della devozione (bhakti) come r. ultimo e l’estensione dell’esperienza estetica al theatrum mundi, al di là dei confini dell’arte.