Abstract
La Rappresentanza Sindacale Unitaria (di seguito “RSU”) nasce come organismo di rappresentanza sindacale dei lavoratori nei luoghi di lavoro con gli accordi fra Governo, Confindustria, CGIL, CISL e UIL del 23.7.1993 e del 20.12.1993. Le regole di costituzione e funzionamento della RSU sono state successivamente riformate con il t.u. sulla Rappresentanza siglato il 10.1.2014 da Confindustria, CGIL, CISL e UIL. La voce ricostruisce le regole di costituzione e di funzionamento della RSU nel settore privato.
La Rappresentanza Sindacale Unitaria (di seguito “RSU”) nasce come organismo di rappresentanza sindacale dei lavoratori nei luoghi di lavoro con l’accordo fra Governo, Confindustria, CGIL, CISL e UIL del 23.7.1993 (cd. “Protocollo d’intesa”; le regole di costituzione e funzionamento delle RSU sono state poi dettate dall’Accordo interconfederale del 20.12.1993) quale risposta alla crisi nella quale versavano, in quel momento storico, le maggiori organizzazioni sindacali italiane.
Tramite la RSU le parti sociali miravano, infatti, a riavvicinare i sindacati alla propria base sostituendo al modello della RSA (Grangnoli, E., Rappresentanze sindacali aziendali, in Diritto online Treccani, 2014), i cui componenti sono designati dalle organizzazioni sindacali dotate di uno specifico grado di rappresentatività, un organo di stampo elettivo, nel cui meccanismo di composizione e funzionamento fossero coinvolti tutti i lavoratori, iscritti o meno al sindacato.
La RSU costituiva anche lo strumento pensato per ricomporre in un unico organismo le varie rappresentanze aziendali delle maggiori confederazioni sindacali, con l’intento di porre un argine alle divisioni createsi fra queste ultime nel corso degli anni precedenti e rinvigorire, così, il fronte sindacale nell’ambito del conflitto con la controparte datoriale.
La RSU costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione che ha visto il succedersi in Italia di forme diverse di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro: in alcune delle quali la selezione dei componenti era decisa, o almeno fortemente influenzata, dai sindacati esterni all’unità produttiva; mentre in altre la scelta dei rappresentanti era invece rimessa, almeno in parte, direttamente ai lavoratori impiegati nell’unità produttiva.
Il primo organismo di rappresentanza emerso nella storia sindacale italiana può essere accostato al secondo dei due modelli poc’anzi ricordati.
Il riferimento è alle cd. Commissioni interne che nascono alla fine del 1800 come organismi di rappresentanza spontanea dei lavoratori, di carattere non associativo. Tali Commissioni trovarono una loro prima regolazione nel 1906, con l’accordo siglato fra la FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurigici) e la Itala.
Dopo essere state abolite durante il periodo fascista ad opera del cd. patto di Palazzo Vidoni del 1925, le Commissioni sono poi state reintrodotte con il cd. patto Buozzi-Mazzini del 3.9.1943, per poi essere disciplinate nelle modalità di costituzione e funzionamento dagli accordi interconfederali del 7.8.1947 e del 18.4.1966.
Le Commissioni interne erano strutturate come un organismo unitario, espressione dei lavoratori impiegati nell’azienda e rappresentativo degli interessi di tutti, compresi i lavoratori non iscritti al sindacato e comunque a prescindere dall’appartenenza sindacale degli stessi. Alle Commissioni interne non era riconosciuta una legittimazione negoziale, ma avevano il compito di cooperare con la direzione aziendale nell’obiettivo di mantenere un equilibrio nei rapporti fra questa e i lavoratori per assicurare il regolare svolgimento dell’attività produttiva.
Il modello delle Commissioni interne sopravvisse a lungo e con il tempo assunse un ruolo importante come organo di contrattazione a livello aziendale, così colmando l’incapacità del sindacato, in quella fase storica, di essere vero interlocutore del datore di lavoro nei luoghi di lavoro. Non a caso, lo st. lav., pur senza riconoscere un fondamento normativo a tali organismi, fa riferimento in più punti alla Commissione interna (art. 4, 6 e 22 l. 20.5.1970, n. 300), a dimostrazione della diffusione di tali strutture, tale da indurre il legislatore a tenerne conto nella costruzione della nuova disciplina di promozione dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro.
Il sindacato cercò, sul finire degli anni sessanta del secolo scorso, di riassumere il controllo dell’azione sindacale nei luoghi di lavoro tentando di colmare le distanze con il movimento di base e spontaneo diffuso nelle aziende, soprattutto sfruttando l’assemblea dei lavoratori.
Lo strumento con cui venne compiuto questo riavvicimento è costituito dai Consigli di fabbrica che, con il patto federativo del 3.7.1972, divennero la nuova istanza sindacale di base. Il meccanismo di composizione di tale nuova struttura la rendeva espressione delle tre maggiori confederazioni sindacali nazionali, segnando il passaggio ad un sistema di rappresentanza nei luoghi di lavoro strettamente connesso alla politica sindacale portata avanti dalle organizzazioni nazionali.
Negli stessi anni, nell’ambito del più ampio disegno volto alla promozione dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, il legislatore introdusse, con lo st. lav., la RSA. Il criterio di costituzione disciplinato dall’art. 19 rese questo organismo innanzitutto uno strumento di accesso ai luoghi di lavoro per i maggiori sindacati confederali.
L’art. 19 prevedeva, infatti, nella sua formulazione originaria, che la costituzione della RSA avvenisse ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Al contempo, la disposizione permetteva la costituzione di RSA anche nell’ambito delle associazioni che fossero firmatarie dei contratti collettivi nazionali e provinciali applicati nell’unità produttiva, così consentendo l’accesso alla rappresentanza ai sindacati minori che avessero rivelato la loro forza in seno alla contrattazione collettiva a livello nazionale e provinciale, ma escludendo i sindacati puramente aziendali, visti come portatori di istanze limitate, incapaci di tenere conto delle più generali problematiche del mondo del lavoro.
La formulazione dell’art. 19 favorì la proliferazione delle RSA nei luoghi di lavoro anche a seguito dello sviluppo negli anni ‘70 e ‘80 di una giurisprudenza che interpretò in maniera forse troppo lasca il concetto di maggiore rappresentatività utilizzato nella lettera a). Il modello delle RSA fu dunque accusato di aver indebolito la compagine sindacale, uscita frammentata dalla proliferazione delle RSA, oltre ad essere ritenuto responsabile di aver accresciuto la distanza fra organizzazioni sindacali e lavoratori per la mancata previsione di un meccanismo di selezione dei suoi componenti di tipo elettivo.
Gli impulsi verso una riorganizzazione della rappresentanza sindacale in azienda si tradussero in un primo accordo fra CGIL, CISL e UIL siglato il 9.5.1989 destinato a regolare la costituzione dei CARS (Consigli aziendali delle rappresentanze sindacali).
I CARS, concepiti come organo interamente elettivo nel quale il 50 per cento dei componenti avrebbe dovuto essere eletto fra gli iscritti alle federazioni di categoria aderenti a CGIL, CISL e UIL, non ha però trovato applicazione perché accusato di essere anch’esso rimesso al governo delle confederazioni storiche.
Dal confronto su quel testo sono nate le RSU, concepite sempre come organo di rappresentanza unitaria dei lavoratori impiegati nell’unità produttiva, ma nel quale il ruolo delle maggiori confederazioni viene ridimensionato rispetto a quanto stabilito con l’accordo sui CARS.
Il primo accordo sulle RSU viene siglato il 1°.3.1991 fra CGIL, CISL e UIL. Tale intesa quadro concepiva la RSU come una struttura interamente elettiva, nella quale la presentazione delle liste era riservata ai sindacati confederali, mentre ai soggetti diversi da questi ultimi era consentito l’accesso all’elettorato passivo, purché la lista raccogliesse il 5 per cento di firme sul totale dei lavoratori aventi diritto al voto. L’accordo prevedeva poi un complicato criterio di ripartizione dei seggi volto a conciliare il criterio proporzionale con un bilanciamento del peso delle tre confederazioni firmatarie.
Le regole di costituzione e funzionamento delle RSU, tratteggiate nell’accordo del 1991, non hanno trovato però attuazione, essendo state sostituite successivamente dalle differenti regole introdotte dal Protocollo del 23.7.1993 e dall’Accordo Interconfederale (di seguito “AI”) del 20.12.1993.
Il Protocollo siglato il 23.7.1993 vara il nuovo modello della RSU nell’ambito di una più ampia riorganizzazione del sistema delle relazioni industriali.
La regolazione della contrattazione collettiva viene invero costruita conferendo espressamente alla RSU il ruolo di soggetto titolare della legittimazione negoziale necessaria a stipulare accordi a livello aziendale riguardanti le materie oggetto di rinvio da parte del CCNL.
Il Protocollo e il successivo AI del 20.12.1993 avevano in particolare costruito le regole di costituzione della RSU congegnando un originale canale di selezione dei suoi componenti (che non ha riscontri in altri paesi europei), a metà strada fra il modello del canale unico (nel quale la rappresentanza è affidata in via esclusiva ad una struttura espressione del sindacato) e quello del canale doppio di rappresentanza (che vede la coesistenza, a fianco dell’organismo di natura associativa, di una struttura di rappresentanza diretta eletta a suffragio universale).
L’art. 2 del citato AI prevedeva, infatti, che un terzo dei seggi fosse riservato ai candidati indicati nell’ambito delle liste presentate dalle associazioni firmatarie del CCNL applicato nell’unita produttiva, mentre potevano concorrere all’aggiudicazione del restante 2/3 dei seggi i candidati indicati nelle liste elettorali presentate dalle: a) associazioni sindacali firmatarie dell’AI e del CCNL applicato nell’unità produttiva; b) associazioni sindacali formalmente costituite con proprio statuto ed atto costitutivo a condizione che accettassero formalmente ed espressamente la regolazione dettata dall’AI e che le liste dalle stesse presentate avessero raccolto un numero di firme di lavoratori dipendenti dall’unità produttiva pari al 5 per cento degli aventi diritto al voto.
Ne risultava una regola di composizione dell’organo sindacale tale da consentire, al contempo, la presenza del sindacato nazionale e la possibilità di accesso al medesimo organo a membri indicati dalle organizzazioni sindacali minoritarie, ma che potessero vantare un seguito significativo presso i lavoratori impiegati nell’unità produttiva.
La scelta di riservare un terzo dei seggi alle maggiori organizzazioni sindacali, da molti criticata, era motivata, da un lato, dal timore di ridimensionare e compromettere il ruolo sino a quel momento svolto dalle grandi organizzazioni nelle relazioni industriali, e, dall’altro, dall’obiettivo di incentivare un funzionamento armonico del sistema attraverso un raccordo fra l’azione sindacale a livello nazionale e quella a livello decentrato.
Com’è stato autorevolmente rilevato, le RSU sono divenute il fondamento del sistema sindacale italiano.
Ciò è avvenuto innanzitutto per il ruolo che le stesse hanno assolto nell’ambito del concreto svolgimento delle relazioni sindacali nei luoghi di lavoro, grazie innanzitutto all’esplicito conferimento alle RSU, da parte del Protocollo del 1993, della legittimazione a negoziare al secondo livello nelle materie delegate dal contratto collettivo nazionale di categoria. Legittimazione alla quale è stata affiancata la configurazione della RSU come soggetto unico di rappresentanza dei lavoratori in azienda in virtù della cd. “clausola di salvaguardia”, prevista dall’art. 8 dell’AI. Tramite tale clausola, le organizzazioni stipulanti l’AI del 1993 rinunciavano infatti espressamente a costituire RSA ai sensi dell’art. 19 st. lav. Ciò ha permesso che, nella maggioranza delle imprese caratterizzate da una presenza sindacale, le RSA sono di fatto state sostituite dalla RSU.
La funzione così assunta dalla RSU ha poi potuto essere valorizzata e rafforzata dalle specifiche competenze che il legislatore ha nel tempo conferito alle rappresentanze dei lavoratori in azienda.
L’effettiva diffusione di tale modello di rappresentanza aziendale spiega il fatto che le parti sociali abbiano confermato tale struttura all’interno del nuovo sistema di regole sulla rappresentanza sindacale e sulla contrattazione collettiva varato con gli accordi interconfederali del 28.11.2011, del 31.5.2013 e del 10.1.2014 (quest’ultimo denominato dalle parti “Testo Unico sulla Rappresentanza”). In particolare l’ultimo di tali accordi, nell’operare una completa rifondazione delle regole che presiedono alla selezione dei sindacati legittimati a partecipare alla contrattazione collettiva e che disciplinano le condizioni per la stipulazione e l’efficacia dei contratti collettivi nazionali ed aziendali siglati da quei medesimi sindacati, dedica un’importante capitolo alla riscrittura delle norme dedicate alla RSU quale unico organo di rappresentanza sindacale in azienda.
Così sinteticamente ricostruito il quadro degli eventi che hanno portato alla sottoscrizione del t.u. e, con esso, alla riforma delle regole di costituzione e funzionamento della RSU, è necessario muovere dalla precisazione dell’ambito entro il quale le RSU sono destinate ad operare. È inoltre necessario chiedersi in via preliminare se il citato t.u. abbia integralmente sostituito il Protocollo d’intesa e l’AI, ovvero se sia necessario ritenere questi ultimi tutt’ora efficaci.
Il t.u. è stato siglato da Confindustria, CGIL, CISL e UIL. Al t.u. è poi seguita la stipulazione di accordi separati di identico contenuto tra la Confindustria e la Cisal, in data 14.1.2014, e tra la Confservizi e CGIL, CISL e UIL, in data 10.2.2014.
Ne consegue che le RSU sono destinate ad operare esclusivamente nelle imprese aderenti alle organizzazioni datoriali sottoscrittrici dei citati accordi, all’interno delle unità produttive nelle quali il datore di lavoro occupi più di 15 dipendenti. Gli accordi esaminati conservano dunque un ambito di applicazione limitato, ancorché ampio.
Le regole dettate dal nuovo t.u. in materia di costituzione e funzionamento delle RSU sostituiscono integralmente la disciplina dettata in precedenza dall’AI.
A deporre in tal senso è il netto cambiamento d’impostazione impresso alle relazioni sindacali e contrattuali dai citati accordi interconfederali del 2011, del 2013 e del 2014.
La RSU costituisce uno dei pilastri fondamentali del nuovo sistema per diverse ragioni.
L’elezione delle RSU costituisce innanzitutto lo strumento per la rilevazione dei dati che contribuiscono alla determinazione del grado di rappresentatività delle organizzazioni sindacali che vogliano accedere al tavolo delle trattive per la stipulazione del CCNL. Al contempo, il medesimo dato incide sulla titolarità dei diritti sindacali in azienda e rileva ai fini della determinazione delle maggioranze necessarie a garantire l’efficacia ed esigibilità del contratto collettivo anche nei confronti delle organizzazioni sindacali che, pur avendo partecipato al negoziato, abbiano scelto di non sottoscrivere l’accordo siglato dagli altri sindacati.
Inoltre alla RSU viene conferita la veste di attore principale della contrattazione collettiva a livello aziendale.
Le regole relative alla costituzione e al funzionamento delle RSU devono dunque essere lette all’interno del mutato quadro, e alla luce dello stesso quadro deve essere interpretata la premessa contenuta nella sezione seconda della seconda parte del t.u., laddove si legge che «le seguenti regole in materia di rappresentanze sindacali unitarie, riprendono la disciplina contenuta nell’Accordo Interconfederale 20.12.1993 con gli adeguamenti alle nuove intese interconfederali».
Il testo riportato evidenzia come le parti stipulanti abbiano intesto ridefinire la disciplina delle RSU, al fine di modificarne l’assetto e renderlo adeguato al mutato contesto sindacale e contrattuale.
Questa impostazione ha due principali effetti, che dovranno essere tenuti in considerazione nel prosieguo del discorso.
Il primo è che i nuovi accordi interconfederali e, per quanto qui in particolare interessa, le regole sulla costituzione e sul funzionamento della RSU dovranno essere interpretate in maniera autosufficiente rispetto alla regolazione dettata dall’AI, ormai definitivamente superata dal t.u.
Il secondo e conseguente effetto è che la soluzione di questioni interpretative che già si ponevano sotto il vigore dell’AI dovranno essere risolte alla luce della nuova regolazione, senza poter trasporre argomenti fondati su un accordo ormai superato, ed anzi tenendo in adeguato conto le novità impresse al nuovo sistema dagli accordi del 2011, del 2013 e del 2014.
Per concludere sul punto, vale la pena di rilevare che in alcune controversie (intentate dal sindacato USB lavoro privato, non firmataria del t.u.) si è posto il problema se possa ritenersi ancora vigente l’AI, e quindi non sostituito dal t.u. del 2014, nel caso in cui il CCNL applicabile alla fattispecie richiami espressamente l’AI (Trib. Torino, ord. 16.7.2014 e 28.8.2014, inedite). In questa ipotesi, secondo una ricostruzione, il richiamo contenuto nel CCNL non consentirebbe di applicare il t.u., almeno fino alla scadenza del medesimo CCNL. Si tratta di una questione che deve ovviamente essere affrontata considerando con attenzione la specifica clausola del CCNL. Non si può però non rilevare come non sia sufficiente il mero richiamo all’AI per considerare operante il sistema disciplinato da quest’ultimo. Gli attori che dovrebbero far funzionare quel sistema sono, infatti, gli stessi che si sono impegnati a superarlo rifondandolo secondo le nuove regole dettate dal t.u. del 2014. Si deve dunque ritenere che un rinvio al sistema disciplinato dall’AI non può che essere considerato un rinvio mobile; ossia un rinvio che deve essere interpretato come riferito al sistema di regole sulla rappresentanza sindacale e sulla contrattazione collettiva vigente in quel dato momento, tenuto conto della volontà espressa dalle parti stipulanti.
Il sistema di rappresentanza aziendale incentrato sulla RSU è configurato dal t.u. come un sistema aperto.
Il t.u. stabilisce, infatti, che l’iniziativa per la costituzione della RSU può essere assunta, oltre che dalle organizzazioni sindacali di categoria aderenti alle confederazioni firmatarie del medesimo t.u. e degli accordi del 2011 e del 2013, anche dalle organizzazioni sindacali firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva, nonché dalle associazioni sindacali abilitate alla presentazione delle liste elettorali. La presentazione delle liste elettorali è consentita se la lista stessa sia corredata da un numero di firme di lavoratori dipendenti dall’unità produttiva pari al 5 per cento degli aventi diritto al voto nelle aziende con oltre 60 dipendenti (nelle aziende di dimensione compresa fra 16 e 59 dipendenti sono sufficienti 3 firme).
Con regola ragionevole e condivisibile, però, la possibilità di partecipare alle elezioni delle RSU richiede che l’organizzazione sindacale interessata accetti espressamente non solo il t.u., ma anche i precedenti accordi del 2011 e del 2013.
Tale previsione è di grande importanza e segna una differenza rispetto all’assetto del Protocollo del 1993, laddove la possibilità di presentare una lista elettorale era subordinata, oltre alla raccolta delle firme, all’accettazione del solo AI.
In virtù di tale regola, nel nuovo sistema, la disciplina relativa alla rappresentanza sindacale in azienda costituisce un tutto unitario insieme con la disciplina della contrattazione collettiva, collegando così inscindibilmente la possibilità per il sindacato di essere presente all’interno della RSU alla accettazione da parte dello stesso delle regole sul procedimento di contrattazione collettiva.
Nei primi mesi successivi alla stipulazione del t.u. è sorto un contenzioso giudiziario intrapreso da alcune organizzazioni sindacali non firmatarie dell’accordo, le quali, pur avendo espressamente dichiarato di non accettarne il contenuto, hanno censurato la decisione della Commissione elettorale di non ammettere la lista presentata dalla medesima organizzazione. In tali occasioni, laddove il giudice ha ritenuto applicabile l’accordo del 2014, ritenendo superato l’AI del 1993, ha rigettato la domanda dell’organizzazione sindacale proprio sul presupposto che condizione per la partecipazione alle elezione per la costituzione della RSU sia l’accettazione formale ed integrale del t.u. (cfr. in tal senso Trib. Torino, 28.8.2014, inedita a quanto consta. Alla medesima conclusione è sostanzialmente pervenuto anche Trib. Ivrea, 28.4.2014).
La seconda fondamentale novità introdotta dal t.u. è costituita dal fatto che tutti i seggi della RSU dovranno essere attribuiti sulla base degli esiti dell’elezione a suffragio universale ed a scrutinio segreto fra i lavoratori impiegati nell’unità produttiva. Viene dunque meno la clausola, prevista dagli accordi del 1993, che riservava un terzo di tali seggi alle liste presentate dalle associazioni sindacali firmatarie del CCNL applicato nell’unità produttiva.
Il numero dei componenti della RSU varia in relazione alle dimensioni dell’impresa e hanno diritto di voto tutti i lavoratori subordinati, non in prova, impiegati nell’unità produttiva, anche se assunti a tempo determinato.
La votazione è valida purché alla stessa abbia preso parte più della meta dei lavoratori aventi diritto al voto.
I seggi sono attribuiti alle liste che abbiano raccolto il maggior numero di voti secondo il metodo proporzionale, ripartendo i seggi all’interno della lista fra i lavoratori che abbiano ricevuto più preferenze e, in caso di parità di preferenze, seguendo l’ordine di indicazione nella lista.
Il t.u., così come già faceva l’AI, configura la carica di componente della RSU come temporanea, disciplinando altresì l’ipotesi nella quale il singolo membro rassegni le proprie dimissioni prima della scadenza dell’incarico.
In particolare, il t.u. prevede che i dirigenti sindacali restano in carica per tre anni, al termine dei quali decadono automaticamente.
Il dimissionario sarà sostituito dal primo dei non eletti della medesima lista. Tale ultima norma opera, però, con il limite che i componenti dimissionari non eccedano più del 50 per cento dei membri della RSU, poiché il superamento di tale soglia comporta la decadenza dell’intera rappresentanza unitaria, con conseguente obbligo di procedere al suo rinnovo.
A differenza di quanto a suo tempo previsto dall’AI, che nulla diceva sul punto, nel t.u. le parti stipulanti si sono altresì preoccupate di disciplinare gli effetti del cd. “cambiamento di appartenenza sindacale” del membro della RSU, prescrivendo che anche quest’ultimo evento comporta la decadenza dalla carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista di originaria appartenenza del sostituito.
Prima di esaminare la clausola appena citata, al fine di interpretarne correttamente il significato, vale la pena di spendere qualche parola sui problemi applicativi che tale eventualità aveva posto sotto la vigenza dell’AI. La clausola prevista dal t.u. costituisce, infatti, un tentativo di rispondere a quei problemi.
In assenza di un’espressa previsione all’interno dell’AI, l’individuazione delle conseguenze dell’ipotesi del «cambiamento di appartenenza sindacale» aveva dato luogo alla formazione di due opposti orientamenti giurisprudenziali generati dai dubbi circa la natura elettiva o associativa della RSU.
Secondo un primo orientamento, il fondamento giuridico della carica di componente della RSU andrebbe ravvisata nella investitura conferita dalla organizzazione sindacale di appartenenza tramite l’inserimento nella lista presentata al momento delle elezioni della rappresentanza. Per i sostenitori di questa teoria, dunque, questa investitura creerebbe un rapporto organico fra l’eletto e il sindacato di appartenenza, tale per cui il venire meno dell’iscrizione del dirigente al medesimo sindacato avrebbe come effetto l’automatica decadenza dalla carica di componente della RSU (Cass., 12.8.2000, n. 10769, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, 192, con nt. di P. Campanella).
In senso opposto, la più recente giurisprudenza di legittimità ha invece osservato che una volta che le elezioni si siano svolte e il candidato sia stato eletto verrebbe meno il legame con il sindacato di appartenenza, poiché la carica conseguita trova il suo fondamento nelle elezioni a suffragio universale. La scelta del lavoratore di dimettersi dal sindacato nelle cui liste era stato eletto non poteva dunque implicare la decadenza dalla carica e il venire meno dei relativi diritti (così: Cass., 7.3.2012, n. 3545, in De Jure).
Infine, merita di essere menzionata una terza ricostruzione dottrinale che sosteneva la necessità di tenere distinti, ai fini della ricostruzione degli effetti del cambiamento di appartenenza sindacale, l’ipotesi del componente eletto nell’ambito dei 2/3 dei seggi sottoposti a suffragio universale della collettività aziendale, da quella del componente designato all’interno del restante «terzo riservato» dei seggi. Secondo questa ricostruzione, il cambiamento di appartenenza sindacale avrebbe comportato la decadenza dalla carica solo per il dirigente nominato nell’ambito del «terzo riservato».
All’interno di questo quadro, deve essere calata la clausola del Testo Unico del 2014, più sopra ricordata, la quale dispone la decadenza dalla carica in caso di «cambiamento di appartenenza sindacale» del candidato. Tale formulazione richiede che sia in prima battuta chiarito in quali ipotesi si possa parlare di «cambiamento di appartenenza sindacale». Detto altrimenti, la locuzione «cambiamento di appartenenza sindacale» include solo l’ipotesi del componente che volontariamente revoca la propria iscrizione al sindacato nelle cui liste è stato eletto eventualmente, iscrivendosi ad un sindacato diverso? Ovvero vi rientra ogni ipotesi in cui emerga un contrasto fra la linea di politica sindacale espressa dall’organizzazione di appartenenza e l’azione portata avanti dal componente della RSU, così da ritenere che la clausola attribuisca al medesimo sindacato un potere di destituire il dirigente dal suo ruolo?
Quest’ultima soluzione appare quella più coerente con gli obiettivi perseguiti dalle parti stipulanti, rimanendo l’appartenenza sindacale del membro della RSU, venuta meno la cd. “riserva del terzo”, l’unico collegamento fra la RSU e i sindacati nazionali. Solo attraverso l’effetto della decadenza quale conseguenza del cambiamento di appartenenza sindacale, è possibile conservare quel coordinamento tra azione sindacale a livello nazionale ed azione sindacale a livello aziendale che costituisce la filosofia di fondo della disciplina dettata dal t.u.
D’altronde non si può non rilevare come dalle regole che disciplinano il procedimento elettorale emerga un collegamento solo indiretto fra elettori ed eletti. Il t.u. prevede infatti che il lavoratore impiegato nell’unità produttiva possa esprimere un voto per la lista ed eventualmente una preferenza per un candidato indicato nella stessa lista. In ogni caso, l’attribuzione del seggio avverrà in prima battuta alla lista, all’interno della quale verrà designato il candidato che abbia conseguito il maggior numero di preferenze. Nella logica dell’accordo del 2014, dunque, il metodo elettorale viene concepito come strumento di legittimazione delle organizzazioni sindacali presentatrici delle liste, prima ancora che del candidato che abbia ricevuto le preferenze.
Tra le questioni più controverse relative alle regole applicabili all’azione della RSU rientrano quelle afferenti il criterio attraverso il quale l’organo è abilitato a formare le proprie decisioni, nonché quelle riguardanti la titolarità dei diritti sindacali che lo st. lav. attribuisce alle RSA e che, in virtù delle previsioni del t.u., sono trasferite alla RSU e ai suoi componenti.
Il tema è di grande rilevanza, poiché dalla soluzione di tali quesiti dipende il grado di autonomia che le organizzazioni sindacali (per il tramite degli eletti nelle proprie liste) conservano all’interno della RSU, nonché la capacità delle stesse di condizionare l’azione dell’organo.
Per affrontare correttamente la questione accennata è opportuno trattare separatamente le regole relative alla formazione delle decisioni della rappresentanza da quelle riguardanti la titolarità e le modalità di esercizio dei diritti sindacali previsti dal titolo III st. lav.
Prendendo le mosse dalla prima questione va subito rilevato che l’art. 7 t.u. del 2014 stabilisce che «le decisioni relative a materie di competenza delle RSU sono assunte dalle stesse, a maggioranza».
La regola maggioritaria prevista dal citato art. 7 costituisce una novità rispetto a quanto previsto dall’AI, il quale rinviava ad intese ulteriori sul punto che non sono mai state definite. Quest’ultima regola costituiva senza dubbio un limite della vecchia regolazione, incapace, da questo punto di vista, di offrire strumenti per la definizione delle decisioni dell’organo di rappresentanza in presenza di conflitti interni fra i suoi componenti.
La nuova disposizione contenuta nel t.u. può dunque essere vista invece positivamente poiché in maniera chiara fonda le decisioni della RSU sul criterio maggioritario, coerentemente con la filosofia complessiva dell’accordo del 2014, volta a fornire alle parti sociali uno strumento idoneo a consentire la formazione delle decisioni, anche in assenza dell’unanimità. Limitandosi a citare la funzione più importante, si può dunque affermare che l’organo dovrà assumere secondo il criterio maggioritario la decisione circa la sottoscrizione del contratto collettivo aziendale.
È necessario a questo punto chiedersi se tra le materie di competenza della RSU, sulle quali la stessa ai sensi dell’art. 7 è chiamata a pronunciarsi a maggioranza, rientrino anche le decisioni relative all’esercizio dei diritti e delle prerogative previsti dal titolo III st. lav.
In particolare, allo scopo di rendere possibile il passaggio dal sistema delle RSA a quello della RSU, il t.u. del 2014 stabilisce che «i componenti delle RSU subentrano ai dirigenti delle RSA nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti per effetto delle disposizioni di cui al titolo III della l. 300/1970» (art. 4). Al contempo, il successivo art. 5 dispone che «le RSU subentrano alle RSA ed ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri nell’esercizio delle funzioni ad essi spettanti per effetto di disposizioni di legge».
Dalle disposizioni riportate può agevolmente concludersi che le stesse attribuiscono al singolo componente dalla RSU le prerogative che lo st. lav. conferisce al dirigente in quanto tale e non alla RSA. Ciò vale in particolare per la norma che subordina la possibilità di trasferire il dirigente sindacale al nulla osta dell’associazione sindacale di appartenenza (art. 22 st. lav.).
Più complessa appare la questione relativa alla attribuzione della titolarità di quei diritti che lo st. lav. configura come diritti che le RSA possono esercitare “singolarmente”.
In particolare, ci si è chiesti se le citate norme degli accordi interconfederali del 1993 e del 2014 trasferiscono la titolarità di tutti i diritti sindacali in capo alla RSU come organismo unitario ed a funzionamento collegiale, ovvero se i diritti il cui esercizio è conferito dallo st. lav. alle RSA singolarmente possano essere esercitati individualmente dal singolo componente della RSU.
Il problema si è posto in maniera particolare con riferimento al diritto, riconosciuto e disciplinato dal citato art. 20 st. lav., di indire l’assemblea dei lavoratori. Problema che ha dato luogo, sotto il vigore dell’AI, ad un nutrito contenzioso sul quale ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni anche la Corte di cassazione. Contenzioso che dimostra un rilevante dubbio interpretativo che, come vedremo, si configura anche a seguito della riforma realizzata dal t.u. tanto da dar luogo a nuove pronunce giurisprudenziali di tenore contrastante.
Ma procediamo con ordine, prendendo le mosse dagli orientamenti formatisi sotto il vigore dell’AI.
Secondo un primo orientamento, sposato dalla Cassazione nei primi anni 2000, il diritto di indire assemblee doveva ritenersi conferito dall’art. 5 dell’AI alla RSU considerata come organo collegiale. Tale conclusione deriverebbe dal fatto che l’art. 20 st. lav. conferisce il potere di indire l’assemblea alle RSA, alle quali subentrano, secondo le previsioni dell’AI, le RSU quali organismi sindacali a funzionamento collegiale (cfr.: Cass., 26.2.2002, n. 2855, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 504, con nt. di V. Ferrante; Cass., 20.4.2002, n. 5765, in Mass. giur. lav., 2002, 753, con nt. di Basenghi, F. In questo senso pare essere anche Cass. 10.1.2005, n. 269, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, 806, con nt. di Focareta, F.).
La Suprema Corte ha però pochi anni dopo modificato il proprio orientamento, affermando, in senso diametralmente opposto, che il diritto di indire l’assemblea deve essere riconosciuto al singolo componente della RSU e non già a quest’ultima come organismo a funzionamento necessariamente collegiale. Tale ricostruzione veniva fondata su di un argomento letterale ed uno di carattere sistematico. Sul piano letterale veniva valorizzato il fatto che l’art. 5 dell’AI faceva riferimento «alle RSU», ossia al plurale, come a volersi riferire alle singole organizzazioni sindacali rappresentate tramite i propri componenti all’interno dell’unica RSU. L’argomento di carattere sistematico veniva ancorato all’art. 4 dell’AI, nella parte in cui prevedeva che il diritto ad indire l’assemblea per tre delle dieci ore annue retribuite spettasse singolarmente o congiuntamente alle organizzazioni sindacali stipulanti il CCNL applicato nell’unità produttiva. Tale norma confermerebbe per le RSU il metodo normale di indizione dell’assemblea già previsto dallo st. lav. (in questo senso è Cass., 1.2.2005, n. 1892, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, 549, con nt. di Romei, R. Di analogo tenore: Cass., 24.1.2006, n. 1307; Cass., 27.1.2011, n. 1955; Cass., 24.4.2013, n. 10001).
Quest’ultimo orientamento è stato recentemente confermato dalla Suprema Corte con la sentenza del 7.7.2014, n. 15437, nella quale viene altresì affermato che tale soluzione deve considerarsi consolidata nella giurisprudenza di legittimità.
In quest’ultima sentenza la Cassazione afferma che non può essere negato al singolo componente della RSU il diritto di indire l’assemblea, se tale diritto allo stesso competerebbe ai sensi dell’art. 19 st. lav. Muovendo da tale presupposto e sottolineando che dagli artt. 4 e 5 dell’AI non era possibile evincere la natura delle RSU di organismo a funzionamento collegiale, la Corte di legittimità ha dunque concluso che le citate norme dell’AI devono essere interpretate nel senso che il diritto di indire assemblee rientrava tra le prerogative attribuite non solo alla RSU considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della RSU stessa, purché questi fosse stato eletto nelle liste del sindacato che, nell’azienda di riferimento, fosse, di fatto, dotato di rappresentatività ai sensi dell’art. 19 st. lav., quale risultante dalla sentenza della C. cost., 23.7.2013, n. 231.
In questo quadro deve essere calato il t.u. del 2014 al fine di appurare se all’interno di tale testo la questione in esame sia stata risolta in maniera chiara, ovvero se lo stesso riproponga i medesimi dubbi interpretativi.
Al riguardo, va subito evidenziato che le norme dell’AI del 1993 sono state trasposte sostanzialmente inalterate nei nuovi artt. 4 e 5 della parte seconda, sezione seconda, del t.u.
L’introduzione all’interno del t.u. di norme sostanzialmente identiche a quelle già contenute nell’AI non ha impedito che sorgesse un nuovo contrasto nella prima giurisprudenza di merito formatasi con riferimento all’applicazione del nuovo accordo del 2014, nonostante la posizione sposata dalla Cassazione nella sent., 7.7.2014, n. 15437.
Secondo una parte dei giudici di merito, invero, le norme inserite nel t.u. avrebbero un carattere riepilogativo delle disposizioni già contenute nell’AI, così da poter ritenere tutt’ora valide le conclusioni sposate dalla Cassazione nel 2014 (cfr.: Trib. Torino, 2.1.2015, in www.iusexplorer.it).
In altre sentenze di merito viene invece sottolineato che, nonostante le norme contenute nel t.u. abbiano la medesima formulazione degli artt. 4 e 5 dell’accordo del 1993, le stesse devono essere interpretate in coerenza con il t.u. nel suo complesso, il quale avrebbe una portata innovativa con riferimento alla disciplina che presiede al funzionamento della RSU. In particolare, secondo questo diverso orientamento, con il t.u. le parti sociali avrebbero conferito alla RSU, in maniera chiara, la fisionomia di organo collegiale. Tale conclusione viene argomentata in particolare valorizzando l’art. 7 t.u. nella parte in cui prescrive che «le decisioni relative a materie di competenza delle RSU sono assunte dalle stesse a maggioranza», includendo fra tali decisioni anche quelle riguardanti l’indizione dell’assemblea (cfr.: Trib. Torino, 12.3.2015, in www.iusexplorer.it).
Secondo questa impostazione, dunque, fra le decisioni che le RSU devono assumere a maggioranza, in forza dell’art. 7 t.u., vi sarebbe anche la scelta se indire o meno l’assemblea dei lavoratori ai sensi dell’art. 20 st. lav. In senso analogo, una parte della giurisprudenza ha osservato che la tesi della collegialità nell’indizione dell’assemblea sembrerebbe confermata dalla previsione contenuta nell’art. 4, co. 5, del t.u. in forza della quale le organizzazioni sindacali firmatarie del CCNL si vedono riservate il diritto ad indire singolarmente o congiuntamente l’assemblea per 3 delle 10 ore annue previste dall’art. 20 st. lav. Tale norma potrebbe, infatti, essere letta come funzionale a realizzare un bilanciamento fra unitarietà dell’azione sindacale in azienda e tutela delle minoranze aziendali (Trib. Nola, 17.3.2015, in www.iusexplorer.it).
Provando a tirare le fila del discorso sin qui svolto, non si può non notare come la soluzione che si scelga di dare al problema della titolarità e modalità di esercizio del diritto di convocare l’assemblea assume un’importanza che trascende il problema specifico, poiché impone all’interprete di valutare quale natura debba essere attribuita alla RSU.
Detto altrimenti, la questione della titolarità dei diritti previsti dal titolo III dello st. lav. impone di accertare se gli accordi interconfederali abbiano inteso trasferirli in capo alla RSU oppure conservarli in capo a ciascuno dei suoi componenti, in quanto esponenti della organizzazione sindacale nella cui lista sono stati eletti.
Le recenti sentenze di merito pronunciate all’indomani della stipulazione del t.u. sembrano confermare che neanche nel nuovo accordo interconfederale (forse volutamente) le parti sociali hanno definito in maniera chiara il problema della titolarità individuale o collegiale a favore della RSU dei poteri che lo st. lav. conferisce alle RSA singolarmente. Il che consente di formulare un facile pronostico relativo alla rinnovazione di nuovi contrasti giurisprudenziali sulla materia che potrebbero richiedere un nuovo intervento della Cassazione, eventualmente a sezioni unite.
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