RAPPRESENTANZA politica
Comunemente, quando si parla di rappresentanza politica, si allude al parlamento e soprattutto alla camera dei deputati (v. parlamento). E certo il termine ha anche questo significato più ristretto e specifico. Ma tale significato deriva, per antonomasia, da un altro significato più largo e generico, secondo il quale tutti i poteri dello stato moderno sono rappresentativi, e lo stato stesso è stato rappresentativo. Questo secondo significato è più reale e più scientifico. Infatti rappresentanza si ha sempre quando una persona non agisce in nome e per conto suo, ma nella vece e nell'interesse di altri, della collettività. Per tal modo gli organi dello stato moderno, senza distinzione alcuna, hanno natura rappresentativa, appunto in quanto operano non iure proprio ma iure repraesentationis: i governanti rappresentano lo stato, non sé stessi, in qualche analogia con i classici esempî delle repubbliche greche e soprattutto dello stato romano, e, invece, in netto contrasto con molti tipi di monarchia assoluta, dove i titolari del potere pubblico agivano per diritto e per interesse proprio. Per citare un solo contrapposto efficace, basti pensare agli organi della giustizia o delle finanze nominati oggidì per concorso, cioè con una selezione improntata soltanto al criterio della capacità intellettuale e morale, e agli agenti della giustizia o delle finanze nominati in altri tempi per eredità o mediante la compera della carica.
Nel suo significato più largo, la rappresentanza politica non è connessa con l'elezione, come volgarmente si ritiene spesso, ma ne è affatto indipendente; non è limitata ai soli organi elettivi, ma è diffusa in tutto l'organismo dello stato moderno. Già in diritto privato esistono appunto due analoghe specie di rappresentanza. Carattere comune fra queste è l'obbligazione per l'esercizio di un diritto altrui; carattere differenziativo è che nell'una figura giuridica l'obbligazione relativa è stabilita dalla legge come necessaria per certe persone, o in date condizioni (rappresentanza legale, come per i minorenni, ecc.), nell'altra figura giuridica è volontaria (rappresentanza contrattuale, come nel mandato civile o commerciale, ecc.).
Così nel diritto pubblico rappresenta lo stato il capo dello stato, anche, e soprattutto, nelle monarchie, sebbene esso sia ereditario. Rappresenta lo stato, ad ugual titolo della camera elettiva, il senato, mentre in alcuni paesi, come in Italia, è di nomina regia. E così di seguito. Vi è, anzi, un momento giuridico e politico caratteristico ed evidente, in cui l'intensità rappresentativa, per chiamarla così, del capo dello stato congiunto coi suoi ministri, supera quella della camera elettiva: quando il capo dello stato la scioglie. Allora la presunzione di rappresentanza è tutta a favore del capo dello stato e tutta contro la camera stessa.
È necessario, dunque, fissare questo primo punto. Vi è una rappresentanza in senso largo, che è carattere fondamentale dello stato moderno, e che si può chiamare implicita, appunto perché inerente a tutti gli istituti politici per la loro odierna natura; e vi è una rappresentanza intesa in senso piu ristretto, propria soltanto delle camere elettive, che si può chiamare esplicita, perché derivante da un atto espresso e formale, l'elezione.
Del primo tipo di rappresentanza si potrebbe parlare in un trattato di scienza del diritto pubblico: qui invece conviene limitarsi al secondo tipo.
Se il concetto di rappresentanza politica, inerente al secondo tipo più tecnico e ristretto, è molto semplice dal lato formale, non è altrettanto semplice delinearne il fondamento intrinseco.
Un breve accenno allo svolgimento storico del principio rappresentativo può spianare la via a valutare il suo contenuto (v. anche parlamento).
Nell'antichità classica, greca e romana, non esisteva rappresentanza popolare, perché il popolo partecipava direttamente al governo dello stato. Tale partecipazione era resa possibile e logica da varie cause che qui si possono appena accennnare: la piccolezza del territorio, che rendeva agevoli le assemblee dirette del popolo, poiché, anche quando lo stato romano si estese, si riassumeva sempre nell'urbs; la ristrettezza numerica dei cittadini che avevano diritto al voto e l'agio di dedicarsi alla cosa pubblica, poiché la moltitudine era composta di schiavi, semiliberi, clienti, ecc.
Neppure lo stato politico germanico o barbarico, per designarlo con una frase generale, poteva condurre al sistema rappresentativo. Le sue antiche assemblee erano composte di tutti gli armati, o di tutti gli uomini liberi, o dei maggiorenti della tribù. È vero che qui interviene un elemento favorevole al sistema rappresentativo, cioè l'allargamento degli stati in vasti territorî; ma interviene anche un elemento sfavorevole. L'idea romana dello stato e del diritto, inutilmente risuscitata da Carlomagno, è travolta nel sistema feudale, in cui si formano vincoli particolari di protezione e di aiuto da una parte, di dipendenza e di servizî dall'altra; e si frantuma, così, in svariate gerarchie di classi, in discorde intreccio di poteri, in spiccate disuguaglianze, l'unità del popolo e dello stato. Perciò non corrisponde affatto alla realtà la famosa affermazione di Montesquieu, che fu accolta senza riserva dagli scrittori della rivoluzione francese, e anche da molti scrittori susseguenti, che il sistema rappresentativo, "ce beau système a été trouvé dans les bois". Senza contare poi che il principio rappresentativo non si può affatto riannodare alle assemblee germaniche, perché tra queste e le assemblee rappresentative vi è una soluzione di continuità di qualche secolo.
Più determinante per il principio rappresentativo fu il raggruppamento degl'interessi nei comuni medievali, al quale contribuì il perfezionamento delle industrie e l'incremento dei traffici. Con ciò si formarono, mediante un processo lungo e intricato, molti organismi, talora diversi, talora intrecciati tra loro, come le gilde, le classi, le corporazioni, gli ordini, i comuni, elementi che diedero origine al terzo stato, il quale con varî mezzi ottenne la sua consacrazione politica. La rappresentanza non si forma più in rapporto all'individuo, ma in rapporto a enti collettivi, sorti per un interesse comune a una cerchia di individui. Accanto al signore feudale, laico o ecclesiastico, che interviene personalmente, si asside il delegato di tali enti, la cui partecipazione non potrebbe avvenire direttamente e quindi prende necessariamente forma giuridica nella rappresentanza. Tale rappresentanza, peraltro, fu spesso non nello stato, ma in frammenti di stato, come i comuni medievali, e soprattutto fu riconosciuta come privilegio e come antitesi di classi e interessi, divenendo così i rappresentanti semplici portavoce di egoistiche aspirazioni particolari o locali, senza il concetto dell'unità dello stato e della composizione degli interessi in esso. E si comprende che ciò potesse avvenire, oltre che per le condizioni generali dei tempi, anche per varie ragioni, sia organiche, sia funzionali. Per queste ultime basta ricordare che la funzione principale dei parlamenti o degli stati generali era di concedere imposte e sussidî al governo; il quale atto, tanto semplice in confronto alle complesse funzioni dello stato moderno, consentiva, e anzi implicava, che la volontà degli elettori prevalesse su quella degli eletti. Perciò questa rappresentanza era ancora queha del diritto privato. Essa si fondava sopra un mandato, cioè sopra un atto di volontà del mandante, che obbligava strettamente il mandatario: così i cahiers in Francia, così le istruzioni, o il mandato imperativo in altri paesi, precisamente simili ai mandata romani, dati ai pubblici ufficiali da parte di chi li investiva del potere.
Nelle costituzioni che seguirono la rivoluzione francese, come già prima in Ingnilterra per altre ragioni complesse, si sviluppò invece il principio della rappresentanza nazionale, che doveva in parte comporre, in parte superare i sistemi ora accennati. In breve: mentre la rappresentanza precedente era di diritto privato, essa in seguito divenne sempre più di diritto pubblico.
Nelle costituzioni moderne la rappresentanza non solo non si fonda sul mandato, ma anzi radicalmente lo esclude. Decisiva, a questo proposito, è la proibizione, in tutte le costituzioni moderne, del mandato imperativo, ossia di qualsiasi vincolo che gli elettori possano imporre ai deputati (v. statuto italiano, art. 41 capov.); e molto significativa anche è l'affermazione (v. statuto italiano, art. 41) che i deputati non rappresentano gli elettori, cioè "le sole provincie in cui furono eletti", ma "la nazione in generale". Così, con la prima norma si esclude che il rappresentante rappresenti la volontà di chi lo manda e con la seconda si esclude anche che rappresenti gl'interessi di chi lo manda, potendo, anzi, rappresentare talora interessi contrarî, perché la parte della nazione, da cui è eletto, può avere interessi contrastanti con giusti interessi dell'altra. Così, altre disposizioni costituzionali vengono a ribadire fortemente questa linea, da cui prende rilievo in modo reciso e completo la figura della rappresentanza politica moderna: come l'insindacabilità delle opinioni e degli atti del rappresentante, l'irrevocabilità del suo mandato, ecc. E con ciò il corpo rappresentativo assume una veste giuridica di vero e proprio governo imperativo sui cittadini, assoluto nelle sue funzioni (più o meno ampie non conta) demandate dalla costituzione dello stato.
Questa nuova posizione giuridica costrinse a poco a poco la dottrina, sebbene riluttante, ad abbandonare la tradizionale concezione che fondava la rappresentanza politica sopra un mandato degli elettori ai rappresentanti, che considerava il parlamento come l'esatta rappresentanza del popolo, e che concepiva la rappresentanza politica come un semplice surrogato del governo diretto del popolo. Si venne così al concetto opposto che "il deputato rappresenta soltanto sé stesso" e che l'elezione, avvicinandosi al significato etimologico della parola, divenendo cioè un metodo di scelta dei migliori, costituisce un semplice riconoscimento di capacità, spoglio di ogni carattere rappresentativo.
Tra queste due teorie opposte sembra che, se si vuol fare opera realistica ed esatta, si dovrebbe ricorrere a un concetto integrale (v. L. Rossi, Rappres. pol., p. 24 e seg.). Il fondamento giuridico della rappresentanza implica certo una scelta; ma, d'altro lato, questa non esclude il carattere rappresentativo, perché non si tratta di una scelta dei migliori in senso assoluto e astratto, ma di quelli che l'elettore ritiene politicamente migliori nel senso che meglio incarnano le sue idee, perché seguono un indirizzo politico cui egli aderisce, anche se tecnicamente essi sono peggiori. L'elettore non si fa giudice del merito sostanziale del candidato, ma della bontà delle idee politiche da lui sostenute e della sua capacità ad attuarle, tanto che tra due candidati, uno di maggior merito, ma che non segue un dato indirizzo politico da lui preferito, l'altro di merito minore, ma che segue tale indirizzo, l'elettore vota per questo. Tale "idem sentire" tra candidato ed elettore forma una figura concomitante e congiunta, dove non si possono scindere le idee e i desiderî dell'uno da quelli dell'altro, come vorrebbe la teoria della pura scelta elettorale. Questa è la realtà psicologica e politica dell'atto elettivo, quando l'elettore mette la sua scheda nell'urna, che è il momento genetico della rappresentanza. In tale atto influiscono soprattutto non elementi giuridici, ma elementi politici, come l'influenza del partito, la propaganda elettorale, la fiducia che il candidato ispira all'elettore, tanto che molte volte è più il rappresentante che influisce sull'elettore che non questo su quello. Influisce, altresì, il sistema di elezione. È evidente che, se l'elezione si fa col sistema dello scrutinio di lista anziché col collegio uninominale, diminuisce l'elemento della scelta, fino ad attenuarsi quasi del tutto nel sistema di lista unica nazionale, come nell'attuale legge italiana, perché allora il vero oggetto dell'approvazione popolare diventa la lista, la quale rispecchia semplicemente l'idea e la pratica di governo vigenti (v. camera: Camera dei deputati).
Ad ogni modo si può, in genere, affermare che nell'atto integrale e pratico della votazione si congiungono i due principî delle due dottrine opposte, e i due elementi diversi, il giuridico e il politico: si viene, cioè, a stabilire un'equazione, dove l'elettore non sceglie solo un uomo, ma sceglie in quell'uomo la corrispondenza con le sue idee. Tuttavia, come fondamento giuridico, rimane pur sempre, soprattutto in rapporto alle disposizioni positive sopra citate, che anche la rappresentanza politica obbedisce al postulato dello stato moderno, che è di affidare l'attività dello stato a organi costituiti con presunzione di capacità specifica a quella data funzione. La presunzione, nel caso della nomina all'ufficio parlamentare, è che nella funzione legislativa sia utile la collaborazione di un corpo che più direttamente risenta l'influenza della coscienza popolare. Invece, per altre ragioni determinanti, si formano con diversi procedimenti altri organi: come, ad esempio, il senato, il capo dello stato, il capo del governo, e così di seguito.
In conclusione: volendo caratterizzare la speciale natura e il particolare significato degli elementi che entrano a costituire la figura della rappresentanza politica, si può stabilire che giuridicamente essa è una scelta di capaci, ma di capaci intesi come tali nel senso politico, e con un atto che si svolge in un ambiente essenzialmente politico. Per cui il valore giuridico della rappresentanza si deve integrare con gli elementi politici in cui essa vive e si svolge, che imprimono un carattere del tutto speciale alla scelta, quel carattere che viene appunto chiamato "rappresentativo". Gli elementi politici del carattere rappresentativo variano moltissimo, secondo i momenti storici, le circostanze temporanee, gli uomini. Questa instabilità occasionale è appunto propria della natura degli elementi politici, di cui pure bisogna tener conto, ma senza confonderli con gli elementi giuridici, più permanenti, fondati sulle norme del diritto anziché sulle contingenze della politica.
Un argomento capitale in questa materia è quello che riguarda la "rappresentanza proporzionale delle minoranze". Fu da principio una semplice, per quanto entusiastica, infatuazione dottrinale. Ma poi assunse notevole importanza giuridica e più ancora politica, tanto che si formarono speciali società di propaganda per la diffusione di un'idea che, si diceva, avrebbe rigenerato il governo degli stati contemporanei; finché essa giunse ad imporsi generalmente nell'immediato dopoguerra, soprattutto in Italia, e nelle nuove costituzioni straniere che allora erano sorte.
Principî teorici artificiosi e svariatissimi sistemi pratici ancora più artificiosi erano stati già proposti, più che non attuati, dalla metà del sec. XIX al primo ventennio del sec. XX. Il primo autore che bandì questo verbo (apparve infatti, allora, come un dogma) di giustizia dottrinaria o di ideologia politica fu V. Considérant nel 1842; e non è forse priva di significato la coincidenza che egli e, in seguito, E. Naville, il più fecondo scrittore e il più tenace propagandista nella materia, fossero concittadini di J.-J. Rousseau. Chi peraltro elaborò in modo più raffinato, matematico e scientifico, il sistema, così da ottenere un'apparente rappresentanza veramente "proporzionale", fu l'inglese Th. Hare nel 1857.
Gli svariatissimi sistemi della rappresentanza proporzionale si fondavano sopra un principio comune, quello della "giusta ed esatta rappresentanza politica", dato che il parlamento deve essere "lo specchio della nazione". Si contrapponeva soprattutto il sistema della rappresentanza delle minoranze al sistema, generalmente vigente, del collegio uninominale. E le ragioni invocate si possono così riassumere. Ogni tendenza politica di qualche importanza deve avere voce in parlamento; e quindi anche le minoranze. Molte volte un candidato può rimanere in minoranza per pochi voti di differenza dal candidato eletto; cosicché non è giusto, ad esempio, che gruppi di 1000 elettori abbiano ciascuno un rappresentante in parlamento, e gruppi di 999 non ne abbiano nessuno. Spesso avviene che un candidato riesca in un collegio con un numero di voti minore di quello riportato da un candidato caduto in un altro collegio. E conviene anche osservare che, sommando i voti riportati in tutto il paese dai candidati non eletti, si ha una cifra enorme di elettori non rappresentati in parlamento. Si aggiungevano poi altre considerazioni meno rilevanti e altre constatazioni, soprattutto di indole politica.
Ma a tutte queste asserzioni si opponevano valide obiezioni. Anzitutto una rappresentanza di tutte le idee, per quanto empirica e approssimativa, vi è sempre: se un partito, cioè una tendenza politica abbastanza forte, è minoranza in un collegio, e quindi non vince, è improbabile che in un altro collegio non sia maggioranza, e quindi in questo non riesca. Vi è così una tendenza ad equilibrarsi tra maggioranza e minoranza in proporzione equa, per mezzo di questa reciproca compensazione probabile: lo dimostra il fatto che tutti i partiti di qualche rilievo sono generalmente rappresentati in parlamento. Ma gli argomenti più importanti sono d'indole meno specifica. La radicale obiezione sta nella concezione fondamentale della rappresentanza politica: il maggiore postulato di questa non è tanto formare una camera che sia la fotografia esatta delle tendenze del paese nel momento delle elezioni, che è poi un momento affatto instabile e transitorio, ma una camera adatta a rappresentare gl'interessi, a interpretare la coscienza pubblica, e soprattutto a costituire un organo adatto alla funzione, come già si è accennato.
In pratica, poi, l'esperienza ha dimostrato che tutti i sistemi di rappresentanza delle minoranze presentano difetti, sia tecnici, sia giuridici, sia politici, che sono sempre gravi, e possono essere intollerabili in certe condizioni politiche. Ad esempio, dove i partiti sono molteplici e troppo frammentarî, dove sono poco organizzati, dove non sono educati, formano una camera che vive d'una vita paralizzata. La lotta in parlamento non è allora per la migliore legislazione e nemmeno per il retto governo dello stato, ma per trovare combinazioni tali che conducano i rappresentanti delle diverse frazioni parlamentari a far parte del gabinetto, dove, per necessità, s'intarsiano appunto tendenze politiche diverse, con l'inevitabile effetto o dell'impossibilità d'ogni azione governativa efficace, o della sollecita disgregazione del gabinetto stesso. E così altri inconvenienti radicali si potrebbero accennare, se tutto ciò non fosse stato già largamente dimostrato in pratica e, tra l'altro, con l'esperienza delle leggi elettorali italiane dell'immediato dopoguerra (v. elezione).
Bibl.: L'argomento è trattato nelle opere generali di diritto pubblico e di teoria dello stato, nei manuali di diritto costituzionale, di istituzioni di diritto pubblico, nel Digesto italiano e nella Enciclopedia giuridica. Scarse e generalmente di minore importanza sono le monografie: tra queste, v. J. Stuart Mill, On representative Government, Londra 1865; V. Miceli, Il concetto giuridico moderno della rappresentanza politica, Perugia 1892; C. Rieker, Dier rechtl. Natur d. mod. Volksvertretung, Lipsia 1893; L. Rossi, I principii fondamentali della rappresentanza politica, I: Il rapporto rappresentativo, Bologna 1894; V. E. Orlando, De la nature jurid. de la représ. polit., in Rev. d. dr. public, 1895. Per l'argomento più speciale della rappresentanza delle minoranze vi è una serie abbondantissima, ma poco notevole, di autori: Th. Hare, The elect. of repres., Londra 1857; F. Genala, Della libertà ed equivalenza dei suffragi, Milano 1871; A. Brunialti, Libertà e democrazia, Milano 1871.
Critica del concetto di rappresentanza. - I giuristi del secolo XIX hanno attribuito allo stato moderno il carattere peculiare di stato rappresentativo, intendendo con ciò che tutti i singoli organi di quello stato, ed esso stesso nella sua totalità organica, non agiscono iure proprio - cioè, in effetti, in base a un diritto e per un interesse monarchico o popolare, ove monarca e popolo, ossia i due principî fondamentali delle istituzioni giuridiche dello stato moderno, presumano a una realtà e a un diritto preesistenti allo stato -, ma agiscono solo e sempre iure repraesentationis, cioè invece e per conto della intera collettività. Ora, a parte la restrizione arbitraria del concetto di rappresentanza, che è invece più lato come si vedrà in seguito, quella determinata nozione si giustifica idealmente, se non positivamente, nei soli limiti storici del cosiddetto stato moderno; il quale, infatti, si è posto e concepito come un particolare complesso di organi sovrastanti (e, precisamente, di organi derivati dall'autocrazia e dall'opposta democrazia), e non come la stessa organizzazione totalitaria del corpo sociale. E, infatti, assunto lo stato in quella prima accezione, esso può in qualche modo presumersi a portatore d'una volontà e d'un interesse generale, e, per ciò solo, a stato moderno, se è rappresentativo nel senso chiarito; ma se esso si assume nel secondo e più profondo significato, chiaro è invece che non può né deve agire iure repraesentationis, ma iure proprio: in base al suo proprio diritto (sovranità), in vista del suo proprio interesse.
Così agendo, lo stato agisce immediatamente per la collettività con cui s'identifica.
I vecchi giuristi hanno preteso, invece, assegnare a quella nozione un valore ideale e assoluto; hanno ritenuto, cioè, che il così detto stato moderno, da essi caratterizzato nel suo aspetto formale, avesse il valore, affatto giusnaturalistico, di "stato ottimo" o assoluto o insuperabile, o, per usare la loro stessa espressione, di "stato libero" senz'altro. Che è non solo una concezione antistorica e antigiuridica - se è vero che il metodo giuridico è storico-positivo e non razionalistico-valutativo -, ma anche intrinsecamente infondata ove pretenda di affermare che, sia pure dal solo aspetto formale, lo stato rappresentativo moderno realizza davvero la volontà e l'interesse medesimi dell'intera collettività. Giacché, per il solo fatto di essere un'entità trascendente (e a parte sempre l'esterna e opposta duplicità delle fonti delle sue istituzioni giuridiche), quello stato è un esterno tramite e, quindi, un'alterazione e un limite del volere e dell'interesse collettivi. L'obiettività e generalità di quello stato, sia pure dal solo aspetto formale, sono un semplice postulato giusnaturalistico, intimamente contraddittorio.
Né a conferire un qualche grado di realtà a quell'ideale riesce l'istituto giuridico della rappresentanza politica, in relazione al quale lo stato moderno si definisce altresì come rappresentativo. Comunque congegnato - e la prassi politica dell'Ottocento è un incessante sforzo di conferire un'impossibile perfezione e realtà a quell'istituto - esso è intimamente incapace di esaurire il volere della collettività e di adeguarlo nella sua genuina concretezza e mutevolezza. Perché indiretta e limitata, la rappresentanza politica è, di necessità, autocratica e arbitraria.
Concludendo, l'origine vera e insuperabile del carattere particolare e autocratico dello stato moderno, così dal lato giuridicoformale come da quello politico-sostanziale, risiede nella sua stessa concezione di entità trascendente il corpo sociale. Finché esso s'intenda come un particolare complesso di organi e di funzioni sovrastanti, ogni suo sforzo di attingere quella obiettività, generalità, libertà, che pure persegue, è necessariamente vano, contraddittorio. L'attuazione di questo ideale esigerebbe la radicale elisione della trascendenza statale, l'immedesimazione assoluta di società e stato. È essa intrinsecamente possibile e storicamente in fieri?
La risposta a questa domanda è offerta in re dallo stato corporativo fascista, quale esso viene delineandosi nell'ordine politico e istituzionale. Esso, infatti, si afferma e si attua sempre più come uno stato coincidente con la stessa e intera collettività nazionale corporativamente organizzata. L'organizzazione corporativa del popolo costituisce insieme lo stato e il corpo sociale; li esaurisce ed immedesima, in guisa che tra le due vecchie entità non resta, né è possibile, opposizione o distinzione alcuna. Il corpo sociale corporativamente organizzato è esso stesso lo stato, e questo altro non è che l'organizzazione sociale che si governa da sé (autogoverno delle corporazioni). L'istituzione che realizza la sintesi è la corporazione, nella quale appunto si ordina il popolo, abbandonando il vecchio atomismo e la vecchia libertà privatistica, si contrae e si risolve lo stato, cioè il potere d'impero, diventando prerogativa e funzione della stessa organizzazione corporativa. L'ascesa del principio corporativo dal piano delle forze e degl'interessi sociali a quello delle funzioni e dei poteri costituzionali, dall'ordine normativo a quello legislativo (riforma in senso corporativo della camera dei deputati), è la prova provata di questo asserto. Il potere legislativo si accinge ad informarsi alla logica strutturale del principio corporativo, ad organizzarsi cioè come funzione propria del Consiglio nazionale delle corporazioni. Organo, questo, in cui dovranno direttamente sboccare tutte le singole corporazioni - attraverso cioè i loro stessi "dirigenti" e non mediante "rappresentanti" -, e che pertanto avrà ed eserciterà in sé stesso il potere legislativo statale.
Lo stato corporativo fascista, quale esso si delinea, è uno stato coincidente con la stessa e intera collettività, e non rappresentativo di essa. Perciò appunto sarà davvero libero e generale.
La soluzione accennata è la sola che risolva anche il problema della sovranità, rendendola per l'appunto capace di attuarsi o di esercitarsi positivamente da sé. Giacché la sovranità, sia stata essa attribuita ab origine e in proprio al monarca o al popolo o allo stato, si è sempre concepita in guisa da non potersi esercitare direttamente, ma rappresentativamente: mediante un tramite esterno di carattere strumentale. Perciò appunto, come si è detto, rappresentativi sono tutti gli stati storicamente determinatisi, se per rappresentanza s'intende, come si deve, l'istituto giuridico che presuppone e accoglie la distinzione reale tra la potestà di volere e il suo esercizio, fra il titolare dell'autorità e chi, per esso, in concreto l'esercita.
Così intesa la rappresentanza, rappresentativo è lo stato autocratico, in quanto la sovranità, spettante in proprio al monarca o a un singolo individuo, non si può poi esercitare in concreto che per l'esterno tramite di delegati o rappresentanti, i quali le rendano appunto possibile di coestendersi e di aderire alla collettività. Rappresentativo è lo stato democratico, in quanto la sovranità del popolo, come molteplicità dissociata, non si può anch'essa esercitare da sé, ma solo per mezzo di un organo, che le assicuri quell'unità e permanenza di cui essa originariamente difetta. Rappresentativo è infine lo stato teorizzato dalla moderna scienza del diritto pubblico come personalità a sé stante, ma meramente fittizia (persona ficta), in quanto la sua propria sovranità non ha mezzi suoi, cioè un'attività e struttura sua, per manifestarsi direttamente, ma ha bisogno di mezzi estrinseci, di un'attività e organizzazione apprestatagli dal popolo e dalla preesistente istituzione monarchica (legittimismo): attività e organizzazione, le quali debbono appunto operare non iure proprio, ma iure repraesentationis. In queste forme di stato, tutte rappresentative, la rappresentanza è l'espressione e la dimostrazione dell'originaria impotenza della sovranità ad esercitarsi concretamente da sé.
Nello stato corporativo fascista, quale viene attuandosi, la sovranità invece è propria dello stato nella titolarità e nell'esercizio: si realizza da per sé stessa nell'ordine istituzionale. Per il fatto stesso di coincidere con l'organizzazione corporativa del popolo come organizzazione unitaria e permanente, la sovranità di questo stato non è fittizia, ma reale, e di per sé stessa reale. La sua realtà e attività è quella stessa del popolo corporativamente organizzato, con cui coincide.
Bibl.: Per una più ampia trattazione del problema, cfr. A. Volpicelli, Legislazione e rappresentanza nello stato corporativo fascista, in Nuovi studi, 1935, fasc. 1-2.