RANUCCIO I Farnese, duca di Parma e Piacenza
RANUCCIO I Farnese, duca di Parma e Piacenza. – Figlio di Alessandro e Maria d’Aviz, nipote di Sebastiano re di Portogallo, nacque a Parma il 28 marzo 1569, preceduto da Margherita e seguito da Odoardo. La sua infanzia, segnata dalla lontananza del padre al comando delle truppe spagnole nelle Fiandre, dalla morte della madre nel luglio del 1577 e dalla separazione dai fratelli, cresciuti in Abruzzo dalla nonna Margherita d’Austria, dovette non poco incidere sul suo carattere ombroso.
Uno dei suoi primi atti fu il viaggio a Mantova nel giugno del 1582 per riprendere la sorella Margherita andata sposa a Vincenzo Gonzaga (2 marzo 1581). Il matrimonio, funzionale al riavvicinamento dei due casati, dichiarato nullo da Carlo Borromeo (9 ottobre 1583) per un impedimento congenito della ragazza e seguito dalla sua monacazione, si rivelò foriero di profondi attriti tra le famiglie. Altrettanto fallimentari furono le rivendicazioni della successione di Ranuccio a Sebastiano e al cardinale Enrico sul trono portoghese (1578-80) che impegnarono Ottavio, il fratello cardinale Alessandro e Margherita d’Austria, oltre a una schiera di giuristi, ma cui si opposero Filippo II e Gregorio XIII.
Dopo la prima formazione umanistica sotto la guida del letterato Pomponio Torelli, fu inviato nel 1582 al collegio Ancarano a Bologna e nell’ottobre del 1584 a Padova dove, accudito dal celebre medico Girolamo Mercuriale, alloggiò presso Guido Panciroli, docente di diritto civile, e frequentò lo Studio almeno fino all’estate del 1585. In questi anni si susseguirono voci e concrete trattative per accasarlo, tra le quali acquistò una certa consistenza quella concernente una pronipote di Sisto V. Questo progetto, concepito dal cardinale Alessandro e non realizzatosi, condusse Ranuccio tra marzo e aprile del 1586 a Roma, dove il papa lo accolse festosamente e si fece da lui accompagnare in varie cerimonie religiose e dove il cardinale Alessandro spese 12.000 scudi in fastosi intrattenimenti in suo onore. Sulla via del ritorno sostò alla corte medicea, precedutovi da Papirio Picedi, inviato da Ottavio per trattare il suo matrimonio con Maria de’ Medici, figlia del granduca Francesco, che non si concretò per l’ostilità di Filippo II, timoroso che la riconciliazione tra le due casate potesse, da un canto, contrastare l’egemonia spagnola in Italia, dall’altro, favorire l’ascesa al papato dell’inaffidabile cardinale Alessandro.
Poco dopo il suo ritorno a Parma (2 maggio), la morte di Ottavio (18 settembre 1586) e l’opposizione di Filippo II al rientro del duca Alessandro in Italia costrinsero Ranuccio ad assumere la reggenza, interrotta tra il giugno del 1591 e il luglio del 1592 per raggiungere nelle Fiandre il padre deciso a iniziarlo alle imprese militari che avevano dato lustro al casato. Egli non solo non si distinse nella campagna di Francia, ma il suo carattere rissoso creò non pochi problemi e indusse il padre a rinviarlo nei ducati. Quella prima esperienza negativa dovette macchiare indelebilmente la sua reputazione di uomo d’armi e di governo, se tutte le sue future aspirazioni a ricoprire incarichi prestigiosi vennero frustrate: dal generalato del Mare alla nomina a vicario del monarca cattolico in Italia, a capitano generale dell’esercito delle Fiandre, a governatore dei Paesi Bassi e di Milano, a capitano generale della cavalleria di Milano, a luogotenente generale dell’arciduca Mattia in Ungheria e capitano generale dell’esercito imperiale agli esordi della guerra dei Trent’anni, fino alla proposta nel 1617 a Filippo III di armare un esercito per cacciare i turchi dai Paesi balcanici e farsene re.
Il 3 dicembre 1592 moriva Alessandro lasciando una situazione finanziaria dissestata dovuta alle esorbitanti spese militari sostenute nelle Fiandre, causa di un indebitamento di 800.000 ducati su cui ancora nel 1616 il figlio lamentava di pagare 43.000 ducati di interesse. Di qui il ricorso costante ai sovrani spagnoli per sovvenzioni e aiuti raramente concessi. A tal fine nel 1601 Ranuccio, reduce dall’impresa di Algeri, cui aveva partecipato sulle galere spagnole, raggiunse Filippo III a Valladolid, dove gli venne conferito il Toson d’oro e fu padrino dell’infanta Anna, ma ottenne soltanto una pensione di 15.000 ducati nel Regno di Napoli e una rendita ecclesiastica di 6000 ducati per il fratello Odoardo, creato cardinale da Gregorio XIV (6 marzo 1591), a integrazione delle scarse entrate di cui godeva. Tali elargizioni furono, però, vanificate l’anno dopo dall’imposizione del governatore di Milano, conte di Fuentes, di restituire Novara, infeudata da Carlo V nel 1538 per 225.000 scudi d’oro a Pier Luigi Farnese con patto di retrovendita. Incurante delle pressioni a favore di Ranuccio dei cardinali Federico Borromeo e Pietro Aldobrandini, Fuentes riuscì nel 1605 a incorporare il territorio novarese nello Stato di Milano, causando ai Farnese ingenti danni economici, oltre che strategico-militari, già anticipati del resto nel 1603 dall’ordine del re di smantellare le fortificazioni di Borgo San Donnino. È indubbio che a indebolire il potere negoziale del duca, più che il fatto di essere al governo di un ‘piccolo Stato’, peraltro essenziale nel gioco politico, diplomatico e militare delle potenze europee, contribuivano la mancanza di un erede legittimo, protrattasi fino al 1612, e la politica papale di revisione dei titoli feudali volta a incrementare le entrate della Camera apostolica che, dopo la devoluzione di Ferrara, costituiva una seria minaccia per i feudi pontifici di Parma e Castro.
È in questo contesto che si collocano il soggiorno di Ranuccio tra aprile e luglio del 1598 a Ferrara dove, scortato da un sontuoso seguito, rese omaggio a Clemente VIII, nonché l’avvio del progetto di matrimonio con Margherita, pronipote del papa, figlia di Gianfrancesco e Olimpia Aldobrandini, sorella del cardinale Pietro. Le trattative, condotte da Picedi, furono lunghe per le divergenze tra il papa riluttante e il cardinale Pietro favorevole alle nozze, nonché per l’esosità della dote richiesta (300.000 scudi) – sia a compensazione dell’alleanza con un casato ritenuto dai Farnese di parvenus, sia al fine di rimpinguare le esauste casse ducali – e si conclusero, consenziente Filippo III, il 17 settembre 1599 con l’accordo su 200.000 scudi di dote. Il 7 maggio 1600 il papa celebrò nella cappella Sistina, alla presenza di 36 cardinali, le nozze, rievocate da Annibale Carracci nel Trionfo di Bacco e Arianna della Galleria di palazzo Farnese a Roma. Preceduta dal marito, Margherita giunse a Parma il 4 ottobre 1600, accolta da straordinarie rappresentazioni teatrali e musicali, da tornei e naumachie che, coinvolgendo poeti e musicisti famosi, diedero prestigio e visibilità a una dinastia politicamente fragile.
Nonostante i legami parentali, i rapporti con gli Aldobrandini seguitarono a essere turbolenti. Già nel marzo del 1592, a seguito di una rissa con gli sbirri e dopo un processo sommario, cinque servitori del cardinale Odoardo erano stati impiccati, mentre il nobile Gabriele Foschetti venne decapitato. Ad agosto del 1593 fu arrestato Alessandro Boccabarile, auditore giudiziario del ducato di Castro. A marzo del 1596 l’abate Tiburzio Burzio, già maggiordomo del cardinale Alessandro, sorpreso in casa dell’amante, fu arrestato e trattenuto in prigione per tre mesi. Sullo sfondo di queste vicende non mancavano attriti causati dalla pesante ingerenza di Ranuccio in reati di pertinenza dei tribunali inquisitoriali dello Stato, dal pervasivo controllo delle istituzioni ecclesiastiche e dalla sua ostilità all’intransigente difesa della giurisdizione ecclesiastica da parte di Ferrante Farnese, vescovo di Parma che, nell’agosto del 1606, riuscì a fare sostituire con il fidatissimo Picedi. Da parte romana si moltiplicavano le minacce di spogliarlo del feudo pontificio di Parma – della cui investitura, trasferita alla Spagna in base agli accordi segreti di Gand, aveva chiesto la conferma nel 1594 a Filippo II – nonché di quello di Castro, dove i funzionari farnesiani pretendevano di controllare i decreti papali prima di dare loro esecuzione. Tuttavia, l’episodio che scatenò un vero e proprio conflitto fu il rifiuto del cardinale Odoardo nell’agosto del 1604 di consegnare al tribunale del governatore un prigioniero rifugiatosi a palazzo Farnese. Dopo un alterco con il cardinale Pietro Aldobrandini, Odoardo lasciò Roma per Caprarola scortato dalla famiglia armata, mentre l’ambasciatore spagnolo marchese di Villena incitava i grandi feudatari – ostili agli Aldobrandini sia perché colpiti nei loro interessi dall’istituzione della Congregazione dei baroni (1596), incaricata di eseguire mandati sui beni dei signori indebitati, sia perché allarmati dalla devoluzione di Ferrara – a manifestare la loro solidarietà ai Farnese precipitandosi armati dinanzi al palazzo e il popolo romano a sollevarsi contro gli Aldobrandini.
Si aprì allora una crisi in seno alla stessa famiglia papale: il cardinale Pietro si schierò contro il cardinale Odoardo, mentre Olimpia e i cardinali Silvestro e Cinzio Passero Aldobrandini si adoperarono per una ricomposizione, che avvenne dopo l’arrivo del duca a Roma nel settembre del 1604 e l’accettazione da parte del papa di condizioni umilianti che, se salvarono l’onore dei Farnese, furono una cocente sconfitta per Clemente VIII. Il ruolo della Spagna nel clamoroso incidente indusse il papa a consolidare i rapporti con la Francia di Enrico IV e i nuovi equilibri europei spinsero lo stesso Odoardo ad aderire al partito filofrancese e a sostenerne nel conclave del 1605 il candidato Leone XI. Una scelta, questa, destinata a ripercuotersi sulle relazioni con la Corona spagnola, come testimoniano le tensioni con il conte di Fuentes per l’incameramento di Novara, per gli ostacoli alle tratte di grano da e verso i ducati e per il minaccioso ammasso di truppe nel 1609 ai confini lombardo-padani, oggetto di lunghe controversie. Inoltre, la partecipazione di Ranuccio alla guerra di successione del Monferrato con tremila fanti e duecento cavalli, malgrado le ripetute richieste dei suoi inviati a Madrid, non gli aveva fruttato né il governatorato di Milano, né la restituzione di Novara, né la permuta di Casalmaggiore, feudo militarmente ed economicamente strategico, posseduto dai d’Avalos, con quello abruzzese di Ortona. Né aveva attenuato la conflittualità con i Gonzaga che minacciarono interventi bellici fino al 1618, quando, grazie alla mediazione del cappuccino Giacinto da Casale Monferrato, le due casate si rappacificarono.
In questi frangenti la vita coniugale di Ranuccio e Margherita fu funestata da una serie di aborti e parti prematuri con esito letale e dalla nascita nel 1610 di un figlio sordomuto, inabile alla successione. Solo nel 1612 nacque un figlio sano, Odoardo, seguito da Maria (1615), Vittoria (1618) e Francesco Maria (1619). Deciso ad assicurare la continuità dinastica, Ranuccio, contro il parere del cardinale Odoardo che aspirava alla successione, nel 1605 aveva legittimato il figlio Ottavio nato nel 1598 dalla relazione con Briseide Ceretoli e nel 1607 lo aveva investito, salvi i diritti degli eventuali figli legittimi, di vari feudi nei ducati e in Abruzzo. Tuttavia, una volta dimostratosi Odoardo in grado di succedergli, il duca accusò Ottavio di aver congiurato ai suoi danni, lo privò dei feudi concessigli e nel 1621 lo fece incarcerare nella Rocchetta dove morì nel 1643.
La legittimazione di Ottavio non aveva, però, placato le sue ansie. Uomo dalla religiosità profondamente intrisa di superstizione, solito ricorrere a esorcisti, impostori e ciarlatani, frequentatore di celebri santuari (nel 1607 si recò a piedi a Loreto), attribuì la propria malferma salute e le difficoltà ad avere eredi alle pratiche magiche dell’ex amante Claudia Colla e della madre Elena. Strumentalizzando le loro macchinazioni, di cui era a conoscenza fin dal 1603, e ingigantendo il numero di presunte streghe e di vittime dei loro malefici, dopo l’arresto delle due donne e dei loro complici, il 28 aprile 1611 il duca incaricò una speciale commissione – presieduta da Giulio Barsotti, formata dai fidati collaboratori Filiberto Piozasco e Cesare Riva e condizionata dall’esterno dal potente consigliere e tesoriere generale Bartolomeo Riva, vero architetto del disegno persecutorio – di svolgere indagini e processare gli imputati, escludendo gli inquisitori e il vescovo Picedi i quali, intimoriti dalla determinazione del principe, si astennero dal rivendicare la giurisdizione sui reati di stregoneria limitandosi a fornire la loro consulenza ai giudici secolari. Dalle confessioni estorte con la tortura sarebbero emerse le verosimili trame di alcuni aristocratici ai danni dei Farnese, gonfiate dai giudici fino ad assumere i contorni di una congiura ordita da parte di esponenti della feudalità parmense e piacentina, con la connivenza di Vincenzo Gonzaga, allo scopo di sterminare la famiglia ducale e spartirsi i ducati. Seguì, tra il giugno del 1611 e il febbraio del 1612, l’arresto dei ‘congiurati’: a essere presi di mira furono soprattutto i Sanvitale, Alfonso, Barbara Sanseverino Sanvitale e il secondo marito Orazio Simonetta, il figlio Girolamo e la moglie Benedetta Pio, il nipote Gianfrancesco, oltre a Teodoro Scotti, Girolamo da Correggio, Pio Torelli, Giovanni Battista Masi, mentre altri complici o ispiratori ‘stranieri’ come il duca di Modena, Agnese Argotta del Carretto marchesa di Grana, favorita di Vincenzo Gonzaga e amante di Gianfrancesco Sanvitale, Alessandro Pico della Mirandola, non poterono essere perseguiti. Resi noti i capi d’accusa a metà marzo del 1612, la sentenza, che prevedeva l’impiccagione dei rei seguita da squartamento dei cadaveri, venne emessa il 26 aprile dal Consiglio di giustizia e letta il 4 maggio da Piozasco. Le voci diffusesi sugli spietati tormenti inflitti agli imputati (Scotti ne morì in carcere), indussero Ranuccio a dare un segnale di clemenza graziando Benedetta Pio e Girolamo da Correggio e ordinando la decapitazione invece dell’impiccagione dei rei aristocratici. La ‘gran giustizia’ ebbe luogo il 19 maggio 1612 con imponente spettacolarità e suscitò profondo raccapriccio in Italia e in Europa, costringendolo, per uscire dall’isolamento, a divulgare versioni manipolate degli eventi tese a illustrare i crimini dei ‘congiurati’ e a presentare sé stesso come inviato da Dio per salvare con il giusto castigo le loro anime e garantire loro «dal sommo male un infinito bene» (Boutier, 1996, p. 349).
All’indomani dell’esecuzione della sentenza la Camera ducale si arricchì, oltre che di palazzi cittadini e collezioni d’arte dei giustiziati, dei feudi di Colorno, lungamente appetito e conteso da Ranuccio, Sala, Fontanellato, Montechiarugolo, Coenzo, Rossena e Felino, e per il protrarsi degli strascichi della congiura fino al 1618 anche di altri feudi. Con tali incameramenti Ranuccio riprendeva, con cinismo e spregiudicatezza, la politica di Ottavio e di Alessandro i quali, gonfiando presunti complotti o approfittando di liti successorie, si erano impossessati di Borgotaro dei Landi e dello ‘Stato Pallavicino’, «terre traverse» che, incuneate tra i ducati di Parma e Piacenza, ne interrompevano la continuità territoriale e politica. Spoliazioni e confische ai danni dei feudatari erano del resto proseguite nei primi anni di governo di Ranuccio, ma fu con le confische attuate dopo la ‘gran giustizia’ soprattutto nel Parmense, dove essi detenevano il 70% della proprietà terriera, che riuscì a raggiungere due obiettivi da sempre perseguiti dai Farnese: la dura repressione delle maggiori casate e il ridimensionamento del loro potere territoriale, nonché il rilevante incremento del patrimonio ducale che consentì di ridurre la dipendenza dalle rendite di Castro e del Regno di Napoli, che passò dal 53,27% nel 1593 al 26,9% nel 1622.
La ‘grande congiura’ segnò la vittoria definitiva della nuova entità statuale sulla potente feudalità, ma alla luce delle successive investiture al ceto dirigente di nuova creazione di piccoli feudi dietro ricchi esborsi essa non può essere letta come la conclusione di un lucido disegno antifeudale. Si iscrive semmai nell’indirizzo accentratore dei primi Farnese volto al rafforzamento del potere ducale attraverso provvedimenti amministrativi, finanziari, fiscali e giudiziari che colpivano il consolidato sistema delle libertà cittadine e dei privilegi feudali. Le Constitutiones del 1594, che diedero allo Stato la sua organizzazione definitiva destinata a durare fino all’epoca napoleonica, sottoponevano, infatti, l’intera potestà giurisdizionale al duca, unificavano i due ducati istituendo governatori a Parma e Piacenza con il conseguente indebolimento delle magistrature cittadine, determinanti nella vita economica dello Stato, e attribuivano alle Camere ducali più ampie funzioni in materia fiscale. Erano state, inoltre, precedute e sarebbero state seguite da misure che le integravano, quali la riforma del Consiglio di grazia e giustizia (1589), la revisione dell’estimo delle proprietà fondiarie e immobiliari (1596), il divieto ai sudditi di risiedere fuori dei confini dello Stato senza licenza ducale (1602) e le limitazioni dei diritti di caccia (1606), misure queste ultime destinate ad alimentare un diffuso malcontento tra i nobili. Altri interventi riguardarono la riorganizzazione militare con la creazione di un piccolo esercito, la tutela della Chiesa e degli ebrei, la regolamentazione delle istituzioni caritativo-assistenziali poste sotto la diretta sorveglianza del duca, la vigilanza sui vagabondi, costretti a forme più o meno coatte di lavoro, la riforma della congregazione dei Cavamenti per la cura di acque, strade, ponti e la realizzazione di bonifiche e argini sui fiumi. Ranuccio avviò anche una politica di controllo del commercio dei grani, ponendo al centro della produzione le fattorie camerali, e affiancò a un’economia basata sostanzialmente sulla coltivazione di cereali e legumi e sulla fabbrica del sale di Salsomaggiore, gestita dalla Camera ducale, la produzione di oggetti di lusso, incentivando le industrie della seta e della maiolica.
A questo processo di profondo rinnovamento istituzionale, amministrativo ed economico si accompagnarono un’importante attività edilizia, un notevole mecenatismo artistico e culturale e un rilevante sviluppo delle istituzioni educative, in linea con le tradizioni farnesiane. La graduale stabilizzazione della corte a Parma comportò ingenti spese per la difesa militare e la costruzione di adeguate residenze, pur se non venne trascurata Piacenza, dove furono erette le statue equestri, opera di Francesco Mochi, raffiguranti Ranuccio e il padre. Sotto le direttive di questi, era stata portata a termine la cittadella parmense tra il 1590 e il 1592, rispondendo, tra l’altro, con lavori pubblici alla grave carestia di quegli anni. Ranuccio ampliò e fece decorare da illustri artisti, tra i quali Agostino Carracci, il palazzo del Giardino, iniziato da Ottavio. Per i servizi della corte e i giochi cavallereschi progettò il monumentale palazzo della Pilotta, sotto la direzione di Simone Moschini, e lo dotò di un teatro stabile. Tale iniziativa, commissionata nel 1617 all’architetto ferrarese Giovan Battista Aleotti, nasceva dalla volontà di emulare la corte medicea – dove il duca nel 1604 aveva potuto assistere alla Dafne musicata da Jacopo Peri – in vista del progettato, poi non avvenuto, passaggio di Cosimo II, una delle cui figlie era destinata a Odoardo. La trasformazione della sala d’armi del palazzo in un grandioso teatro per la rappresentazione di spettacoli pastorali-cavallereschi, se rispondeva al bisogno di eguagliare lo splendore di altre corti, rifletteva anche l’autentica passione di Ranuccio per la musica e il teatro, che lo aveva portato a circondarsi di famosi musicisti, cantori, castrati, strumentisti e a chiamare a corte varie compagnie di comici.
Contribuì altresì al prestigio dei Farnese la politica dell’istruzione con la creazione o il rilancio di istituzioni educative di alto livello, che coincise significativamente con il rafforzamento degli organi dello Stato e con la fondazione dell’Archivio farnesiano. Ranuccio favorì, infatti, la rinascita dell’antica università, dotandola di cospicui finanziamenti e di numerosi edifici, e affidandone il governo ai gesuiti, presenti nei ducati fin dal 1564. Inaugurato nel 1600, lo Studio di S. Rocco, grazie al reclutamento di docenti prestigiosi, rigidamente controllato dal duca, vide una crescente affluenza di studenti da tutta Italia. A questa istituzione si affiancò il Collegio dei Nobili che egli fondò nel 1601 e affidò nel 1604 ai gesuiti, deputato alla formazione di una classe dirigente devota alla Chiesa e al principe. Le sue ingerenze nel governo dell’istituto e la sua imposizione di programmi educativi che davano largo spazio agli esercizi cavallereschi e militari, se lo posero in urto con l’Ordine, attrassero a Parma da tutta l’Europa cattolica nobili convittori, dando lustro alla città e gloria alla dinastia.
«Molto più temuto che amato» (Bentivoglio, 1934, p. 18), morì a Parma il 5 marzo 1622 e fu sepolto nella chiesa dei cappuccini di S. Maria Maddalena.
Tra i tanti ritratti pervenuti meritano di essere segnalati quello da bambino di Alessandro Mazzola Bedoli (Parma, Galleria nazionale), quello da giovane di Agostino Carracci (Parma, Collezione Banca del Monte) e infine quello da adulto di Cesare Aretusi (Parma, Galleria nazionale).
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