PAZZI, Ranieri
PAZZI, Ranieri (o Rinieri). – Detto Ranieri Pazzo, del Valdarno, vissuto a cavallo della metà del XIII secolo, fu uno dei capi della fazione ghibellina attiva nell’area tra Arezzo e Firenze.
Nacque presumibilmente nel Valdarno agli inizi del Duecento: nel 1248 suo figlio Guglielmo risulta, infatti, testimone in un documento di suo zio, il vescovo Guglielmo Ubertini il quale aveva sciolto un canonico dalla scomunica per essersi legato a Federico II.
In età già relativamente avanzata (sulle sue precedenti esperienze non si sa nulla), Pazzi fu vicario imperiale nella contea di Arezzo e nel territorio di Città di Castello come consta da un documento del febbraio 1250.
A seguito dell’esclusione dei ghibellini dalla città di Firenze (agosto 1251), Farinata degli Uberti e il conte Guido Novello dei conti Guidi riuscirono a impadronirsi del borgo di Figline, grazie alla complicità dei senesi e di altri alleati, non ultimo il re Corrado, figlio di Federico II. Il coinvolgimento del sovrano svevo nelle lotte toscane indusse Innocenzo IV a proporre in modo più stringente trattative di pace tra il Comune popolare di Firenze e i fuoriusciti ghibellini. Questi ultimi, valutate le forze avversarie, decisero di accettare l’offerta dei messi pontifici. Il 29 settembre 1252 il podestà di Firenze riunì presso Figline i principali esponenti della cittadina, informandoli che Farinata e Pazzi avevano accolto la richiesta di abbandonare Figline in cambio della revoca di tutte le sanzioni loro inflitte, dal 1248 in poi, e del permesso di rientrare in Firenze o nei loro domini del contado. Essi inoltre rinnegarono le alleanze con i ghibellini e giurarono, l’indomani, che avrebbero combattuto contro tutti i nemici di Firenze.
All’indomani della vittoria ghibellina di Montaperti (1260), Pazzi e i suoi figli costrinsero gli abitanti di Castelnuovo d’Avane a sottomettersi a un arbitrato del cittadino di Firenze, Durazzo di Guidalotto de’ Vecchietti. Essi però si rifiutarono di versare tributi in natura e di contribuire alle spese per l’investitura dei nuovi cavalieri del casato dei Pazzi. Al loro rifiuto, Guglielmo e Ubertino, figli di Pazzi, arrestarono e uccisero i renitenti, devastando campi e vigneti del borgo. Gli abitanti del borgo tentarono invano di ottenere giustizia dal Comune di Firenze e dall’arbitrato del vescovo di Arezzo, il quale, a motivo del legame di parentela, giustificò l’azione dei nipoti. Solo il moto antimagnatizio del 1294 permise a costoro, molto più tardi, di ottenere giustizia.
Pazzi, nel dicembre del 1267, fu anche autore di un grave attentato, per comprendere il quale è necessario contestualizzarlo nell’aspro conflitto che opponeva il papa e Carlo d’Angiò a Corradino e i suoi alleati. Nell’agguato perse la vita, tra gli altri Garcia, vescovo di Silves. Per questa ragione Dante condannò Pazzi in Inferno XII, 135-137, tra i violenti contro il prossimo, immerso nel fiume di sangue bollente ricordandolo, assieme a Ranieri da Corneto, come colui che fece «alle strade tanta guerra».
Il delitto fu probabile conseguenza dell’accordo tra don Enrico di Castiglia, cugino di Carlo d’Angiò e fratello di Alfonso X, e Ranieri e altri ghibellini. L’Infante di Spagna aveva inviato al papa una delegazione per trattare l’elezione imperiale. Assieme al vescovo di Silves vi erano, tra gli altri, l’arcidiacono di Salamanca e il decano del capitolo. I prelati, diretti a Viterbo, furono assaliti presso Ganghereto, tra Firenze e Arezzo. Parteciparono all’agguato anche Squarcialupo di Sofena, i suoi dipendenti, e gli abitanti di Ganghereto, feudo dei conti di Poppi, i quali ultimi però non parteciparono all’imboscata. Alcuni, tra cui lo stesso vescovo, morirono per le ferite riportate, altri furono fatti prigionieri e depredati dei loro beni. I complici dell’agguato trovarono rifugio a Ganghereto, che Clemente IV colpì subito con la scomunica, l’interdetto e l’anatema, così come furono scomunicati gli esecutori materiali i cui parenti non avrebbero potuto prendere alcun ordine ecclesiastico fino alla quarta generazione. Pazzi fu privato di ogni diritto di avvocatura o patronato sulle chiese del territorio signorile del medio Valdarno di sua pertinenza, incorse nella confisca di beni immobili tenuti in nome dell’Impero o altre potestà. Il bando fu rinnovato da Gregorio X e da Onorio IV, mentre il Comune di Firenze li segnò come ribelli e così risultavano ancora nello Statuto del 1322-25 in cui era riportata una legge ad personam contro Ranieri Pazzi, probabilmente redatta su istanza papale tra il 1268 (anno dell’agguato) e il 1280 (anno in cui Pazzi risulta defunto). La legge dovette con buona probabilità essere redatta dopo il 1273, giacché in quell’anno alcuni complici di Pazzi (tra cui suo figlio Guglielmo e un Uberti in qualità di syndici della Parte ghibellina di Firenze) poterono ancora entrare liberamente in Firenze, mostrandoci dunque i malfattori excommunicati, ma non ancora exbanniti. Papa Gregorio si lamentò di questa ambasciata in una missiva indirizzata al vescovo di Orvieto, Aldobrandino Cavalcanti, trasmettendoci l’informazione. La legge emanata non trattava Pazzi come un semplice grassatore o un assassino, ma tenne conto del ruolo che ai tempi egli doveva ricoprire, quello cioè di un temibile capo fazione, con privilegi politici e rivendicazioni di autonomia nei confronti del Comune fiorentino.
Dopo la disfatta di Tagliacozzo (1268) e il ritorno dei guelfi in Firenze, Pazzi partecipò alle guerre del Valdarno, ma fu vittima della reazione guelfa: nel corso delle operazioni militari in Toscana tra il 1269 e il 1270, Guglielmo di Montfort, vicario di Carlo d’Angiò in qualità di podestà di Firenze, attaccò alcuni castelli dei Pazzi alla testa di contingenti francesi, fiorentini e con l’ausilio di un esercito orvietano. Una volta espugnate o distrutte Montefortino, Poggittazzi, Ristruccioli e Piandimezzo, l’esercito guelfo pose l’assedio al castello di Ostina. Dopo aver resistito alcuni mesi, nel tentativo di una sortita, molti degli assediati furono catturati o uccisi. Il castello fu raso al suolo, Pazzi fu condannato e molti dei suoi beni confiscati. Nel 1271 furono demoliti i fortilizi di Ganghereto e Gava, possessi dei Guidi, forse per tradimento di un nipote di Pazzi, Uberto Spiovanato Pazzi, figlio di una sorella del vescovo Ubertini, e simpatizzante guelfo.
Nel frattempo Pazzi, ormai divenuto anziano, si accingeva a passare il testimone, in qualità di capo della famiglia e dell’opposizione ghibellina, al figlio primogenito, Guglielmo.
Quest’ultimo, in seguito, si distinse nella battaglia di Ponte San Procolo (giugno 1275) presso il fiume Senio, a fianco di Guido da Montefeltro, Maghinardo Pagani da Susinana e Teodorico degli Ordelaffi. Probabilmente a seguito di questo successo militare, nel quale i bolognesi guelfi persero addirittura il carroccio, venne eletto dai ghibellini romagnoli capitano di Guerra di Bologna. Cinque anni più tardi, nella così detta pace del cardinal Latino, figura tra i personaggi più compromessi, esclusi dalla pace e mandati al confino, proprio dominus Guglielmus Pazzi de Valle Arni (implicitamente considerato come il capo) mentre Ranieri Pazzi è indicato come quondam; era dunque scomparso tra il 1273 e il 1280.
Guglielmo di Ranieri compare tra i 55 ghibellini fiorentini costretti a lasciare Firenze per recarsi al confino nel Patrimonium Petri, con l’obbligo di non allontanarsi dieci miglia senza il permesso pontificio. Inoltre, il 27 gennaio del 1281 i conti Guidi, i conti di Mangone gli Ubaldini della Pila e i Pazzi del Valdarno sottoscrissero un documento con cui si impegnavano a pagare «mille marche d’argento per ciascuno dandone mallevadori cittadini fiorentini», come riporta lo storico Scipione Ammirato nelle sue Istorie fiorentine (1531-1601). Nel 1287, accanto a Guglielmo, troviamo il figlio di Guido da Montefeltro, Buonconte. Di concerto con il vescovo e con i ghibellini, Guglielmo e Buonconte sovvertirono l’ordine costituito ad Arezzo di intesa con i guelfi, assieme ai quali si erano coalizzati contro un governo popolare. I guelfi aretini chiesero aiuto a quelli fiorentini, innescando una serie di campagne militari culminate nella battaglia di Campaldino (1289).
Dopo una fortunata incursione a Pontassieve, l’assedio del castello di Corvano fallì. Nel 1288 Guglielmo avrebbe guidato l’esercito aretino presso Laterina dove erano schierati i fiorentini. Lo scontro non ebbe però luogo, forse per motivi tattici, essendo i due schieramenti separati dal fiume. Nella via del ritorno l’esercito guelfo avrebbe distrutto i castelli dei Pazzi di Montemarciano, Poggittazzi e Montefortino, quest’ultimo probabilmente ceduto da Uberto Spiovanato Pazzi che per questa azione ricevette dal podestà fiorentino, Fissirago da Lodi, 1100 fiorini, 15 moggi di grano e la possibilità di portare fuori da Firenze tutti i propri beni.
Nel giugno dello stesso anno Guglielmo difese la città di Arezzo dall’assedio della Lega guelfa. Una volta smontato l’assedio, l’esercito senese, separatosi dal contingente fiorentino, venne sbaragliato dagli Aretini guidati da Guglielmo e da Buonconte presso il guado di Pieve al Toppo (26 giugno 1288), episodio passato alla storia come le Giostre del Toppo, a causa delle ripetute, mortali cariche di cavalleria condotte dagli aretini contro i senesi colti di sorpresa (Inferno XIII, 118-121).
Nei mesi che precedettero la battaglia di Campaldino, stando alle parole di Dino Compagni, Guglielmo avrebbe risparmiato lo zio prelato dal linciaggio, in quanto aveva tentato di vendere alcuni fortilizi dell’aretino in cambio di un vitalizio. Nel febbraio del 1289, infatti, un folto gruppo di membri della consorteria ottenne la cancellazione di ogni condanna e del bando, dopo aver giurato fedeltà al Comune guelfo di Firenze, alla presenza del vescovo. Tra questi figurano gli altri figli di Ranieri, Neri e Uberto Spiovanato e i loro figli, e gli stessi figli di Guglielmo, Angelo, Giannozzo, Betto e Geri. Infine, e questa volta è Giovanni Villani che ci trasmette l’episodio, prima della battaglia che gli sarà fatale, avrebbe scambiato il proprio scudo (indentato d’oro e rosso) con quello dello zio vescovo (d’oro al leone rampante di rosso), per evitargli la morte. Entrambi i cronisti ricordano Guglielmo come un famoso cavaliere, definendolo anzi uno dei più famosi capitani di guerra del suo tempo, titolo probabilmente dovutogli per il suo ruolo in Romagna: sia Guglielmo sia lo zio vescovo morirono in battaglia (11 giugno 1289).
Guglielmo non è il solo figlio politicamente attivo di Ranieri Pazzi: altri membri della casata dovevano prendere parte alle turbolenti vicende di questi anni, optando per posizioni più moderate. Nel 1280 dunque fruirono dell’amnistia concessa a molti ghibellini il figlio di Squarcialupo di Sofena, Baldo e due figli di Ranieri, Uberto Spiovanato e Ubertino, nonché alcuni suoi nipoti. Quest’ultimo sposò invece una sorella del vescovo aretino, Guglielmino Ubertini, imparentandosi così con l’altra potente casata aretina (una vicenda questa che è all’origine di vari fraintendimenti da parte dei genealogisti).
Assieme a loro morì anche un altro figlio di Ranieri, anch’esso di nome Ranieri, assieme a due nipoti della parte degli Ubertini. Nel 1302, nelle sentenze emanate da Cante de’ Gabrielli, furono condannati a morte, per decapitazione, il figlio di Ranieri, Uberto Spiovanato, e molti dei suoi nipoti.
Fonti e Bibl.: F. Cristofori, Di Raniero da Corneto e di Ranieri Pazzi ricordati da D. nel c. XII dell’Inferno, in L’Arcadia, I (1889), pp. 77-84; P. Santini, Documenti dell’antica Costituzione del comune di Firenze, Firenze 1895; M. Sanfilippo, Guelfi e Ghibellini a Firenze: la Pace del Cardinal Latino, in Nuova rivista storica, LXIV (1908), pp. 1-24; E. Regis, Una legge fiorentina inedita contro Ranieri de’ Pazzi, in Atti R. Accademia Scienze Torino, XLVII (1911-1912), pp. 1092-1110; C. Lazzeri, Guglielmino Ubertini, vescovo di Arezzo e i suoi tempi, Firenze 1920; R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1972 (Ranieri: II, pp. 483, 564, 723, 801; III, pp. 22 s., 68, 103, 109, 134, 227, 443; Guglielmo: II, pp. 483 s., 724; III, pp. 22, 134, 154 s., 179, 227, 428, 431, 456, 458, 462 s.); I. Lori Sanfilippo, La pace del cardinale Latino a Firenze nel 1280. La sentenza e gli atti complementari, in Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano, LXXXIX (1980-1981), pp. 193-259; La battaglia di Campaldino e la società toscana del ’200, Atti del Convegno, Firenze 1989; M.E. Cortese, Signori, castelli, città. L’aristocrazia del territorio fiorentino tra X e XII secolo, Firenze 2007; F. Canaccini, Ghibellini e Ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino (1260-1289), Roma 2009 (Ranieri: pp. 108, 179, 183, 209, 235; Guglielmo: pp. 96, 162, 247, 261).