GUALANDI, Ranieri
Nacque a Napoli, nel 1514, dal nobile Alfonso e da Cornelia Delli Monti, parente del barone Pompeo Delli Monti, protagonista di un celebre caso di eresia nel 1566.
Mosso da profonde aspirazioni religiose, a vent'anni, il 3 marzo 1534 il G. entrò nella Compagnia dei Bianchi. La confraternita, dedita all'assistenza dei condannati a morte, raccoglieva in Napoli le persone più sensibili agli ideali della riforma religiosa, allora portati avanti, con esiti opposti, soprattutto dai seguaci di Gaetano Thiene e dal circolo eterodosso di Juan de Valdés.
Entrambe le correnti avevano individuato nei Bianchi lo strumento migliore per espandersi a Napoli, iscrivendovi i loro aderenti. In particolare, proprio nel 1534, molto prima della condanna ufficiale delle tesi valdesiane da parte della Chiesa, si iscrissero alla Compagnia numerosi valdesiani, a partire da Pietrantonio Di Capua, arcivescovo di Otranto dal 1536; in seguito il sodalizio fu affidato, alternativamente, a elementi filoteatini e valdesiani, fino a che i primi non prevalsero definitivamente ed espulsero i secondi tra il 1552 e il 1553.
In questo contesto il G. finì, e non fu il solo, con il legarsi sia agli uni sia agli altri: nel 1538, insieme con l'amico medico Antonio Cappone, si aggregò al circolo del Valdés, frequentando contemporaneamente Gaetano Thiene, presente a Napoli tra la fine del 1536 e l'aprile 1540, e poi dal 1543 alla morte, avvenuta il 7 ag. 1547. La "doppia appartenenza" del G. è provata tanto dalle fonti teatine (secondo le quali egli, dopo un giovanile cedimento al valdesianesimo, fu presto convertito dal Thiene, diventando uno dei suoi più fedeli penitenti), quanto dalle valdesiane che lo citano ancora negli ultimi anni di vita del Thiene. Nel maggio 1544, a Roma, il G. ebbe infatti rapporti con Bernardo de Bartoli (secondo quest'ultimo, il G. gli avrebbe confessato di credere nella giustificazione per fede, dandogli uno scudo d'oro come pegno di confermazione), nel 1546, a Napoli, con Pietro Carnesecchi e nel 1547 ricevette in lettura dal barone Mario Galeota (un eminente valdesiano che aveva conosciuto proprio tra i Bianchi) alcune opere del Valdés.
Probabilmente il suo distacco dal valdesianesimo avvenne con gradualità e non sembra possibile imputare a sue supposte delazioni al Thiene lo scioglimento del gruppo valdesiano di Napoli, nel 1541, come fece il biografo di Paolo IV, Antonio Caracciolo, dato che egli continuò a frequentare ambienti valdesiani anche dopo quella data. Gli atti del processo al cardinale Giovanni Morone, invece, citano il G. come pentito già "seductus" da Vittoria Colonna, da Luigi Priuli, da Marco Antonio Flaminio e come frequentatore del circolo viterbese del cardinale Reginald Pole. Allo stato attuale delle ricerche, però, non sembra che i rapporti del G. con queste note figure della riforma italiana abbiano avuto un particolare rilievo, poiché il suo nome non figura mai tra quelli delle persone presenti a Viterbo tra il 1541 e il 1542.
Nel 1551, a seguito delle numerose denunce di valdesiani pentiti, spaventati dalla nomina di Gian Pietro Carafa ad arcivescovo di Napoli, anche al G. fu tuttavia ordinato di presentarsi a Roma davanti all'Inquisizione.
La deposizione avvenne nel 1552 e si concluse con una completa abiura. Secondo una lettera di Augusto Cocciano a Girolamo Seripando del 19 marzo 1552, il G. rivelò i nomi di molti valdesiani e fu posto a confronto con Apollonio Merenda, il cappellano calabrese del Pole arrestato pure a Napoli nel 1551, che fu riconosciuto colpevole e condannato a una breve detenzione, seguita dall'obbligo di indossare la veste da penitente.
Risolti, almeno temporaneamente, i problemi con Roma, il G. poté tornare liberamente a Napoli, dove si legò ancora di più all'ambiente teatino. Nell'anno seguente andò in Calabria per accompagnare da Catanzaro ad Aielli la moglie del conte di Popoli Giovanni Cantelmo. Durante il viaggio incontrò Mario Galeota, che lo rimproverò di avere parlato agli inquisitori contro di lui e contro il Merenda, e il G. gli rispose di aver agito secondo coscienza. L'episodio è indicativo del rancore che serpeggiava tra i suoi ex compagni, destinato ad accrescersi. Nel 1555 il G. fu nuovamente denunciato, insieme con molte altre persone, all'Inquisizione romana da Giulio Basalù che l'accusava di credere nella giustificazione per fede. Riuscì però a far valere la precedente abiura e fu scagionato. A ulteriore dimostrazione della sua conversione, giunse l'ordinazione sacerdotale, che egli ottenne pochi anni dopo, nel 1560, a Venezia, dal patriarca Giovanni Trevisan.
Ricevuta l'ordinazione, il G. tornò nella sua città, si stabilì nei pressi della chiesa di S. Maria dei Vergini e continuò a frequentare regolarmente quella dei teatini, S. Paolo Maggiore.
L'11 luglio 1566 fu convocato come teste nel palazzo arcivescovile di Napoli nel terzo processo contro il suo vecchio compagno Mario Galeota.
Di fronte all'arcivescovo e commissario dell'Inquisizione Mario Carafa, il G. accusò il Galeota di essere stato ed essere ancora valdesiano, e uno fra i più intimi discepoli del Valdés, del quale gli aveva prestato in passato alcune opere, e di avere eluso il successivo divieto di leggere i libri valdesiani avendone imparato a memoria il contenuto. Da parte sua, egli ribadì la sconfessione del valdesianesimo, dicendo che vi aveva aderito in gioventù credendo si trattasse di una dottrina spirituale, ma da tempo ormai la giudicava un'eresia diabolica, pari a quella di Lutero, che aveva infettato tutta l'Italia. Inoltre, dopo aver indicato i nomi di alcuni testimoni a proprio favore, elencò quelli di tutti i valdesiani da lui conosciuti in passato, molti dei quali ormai morti: Marcantonio Flaminio, Vittore Soranzo, Pietro Carnesecchi, Andrea Sbarra, Ferrante Trotta, Giovan Tommaso Minadois, Ferrante Brancaccio, Galeota e Merenda, Antonio Imperato, Antonio d'Alessio, Giovan Tommaso Bianchi e "la secta del Barone de Bernaudo", ossia Cesare Cardoino, Giovan Francesco Alois e altri loro seguaci di bassa estrazione sociale.
Le accuse del G. provocarono la condanna del Galeota alla pubblica abiura in S. Maria sopra Minerva e a cinque anni di prigione lontano da Napoli (il G. è citato nel dispositivo della sentenza emessa a Roma il 12 giugno 1567). Successivamente il G. non ebbe più a che fare con questioni ereticali, ma dovette recarsi ancora davanti alla Congregazione inquisitoriale napoletana per testimoniare sul lungo caso della popolana Alfonsina Rispoli, una protagonista di singolari fenomeni mistici sospettata di simulazione di santità.
Il G. depose il 15 marzo 1590, ma era stato coinvolto nella vicenda sin dall'inizio, nel 1581. Il 1° agosto di quell'anno, infatti, nella chiesa di S. Francesco, una terziaria francescana gli presentò la Rispoli, che desiderava confidargli le rivelazioni che riteneva di aver ricevuto, durante le proprie visioni, dalla Vergine e da alcuni santi. Il G. non le dette credito. Un mese dopo, però, essendo venuto a conoscenza che la Rispoli sosteneva di avere le stimmate come s. Francesco e soleva mostrarle, spogliandosi, ad alcune signore, ne informò l'arcivescovo, il quale inviò il suo vicario Vincenzo Quattromani a esaminare la donna, nella chiesa dello Spirito Santo. Il G. seguì la fase iniziale dell'esame, ma non prese parte all'interrogatorio, che si concluse con l'invio della Rispoli nel monastero della Consolazione. Scettico ma curioso, il G. chiese informazioni ad alcune suore di nobile condizione presenti nel monastero, le quali gli confermarono di aver visto le stimmate. Successivi esami condotti nel monastero, però, non fugarono i dubbi. Sicché, senza una regolare sentenza, la donna fu costretta alla reclusione conventuale. Solo nel 1589, quando ormai la stessa Rispoli dubitava delle proprie visioni, si aprì una nuova fase del processo, che richiese la testimonianza del G. e l'invio del fascicolo a Roma. Il S. Uffizio richiese un supplemento di indagini e, nel 1592, la Rispoli smentì, in parte, la versione fornita dal G., asserendo che era stato il sacerdote a recarsi in visita da lei, accompagnato da alcune signore, non il contrario. Ma il processo si arenò di nuovo e la donna, ormai malvista dalle suore, passò in monastero il resto della sua vita.
Il G. trascorse serenamente i suoi ultimi anni, molto stimato dalla comunità teatina napoletana. Morì a Napoli alla fine del XVI secolo: una lettera del santo teatino Andrea Avellino al padre generale Giovanni Scorcovillo del 1600 parla del G. al passato.
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