Cardona, Ramón de
Uomo d’armi e politico spagnolo (1467-1522). Viceré di Napoli dal 1509, capitano generale della lega Santa antifrancese (151112), fu sconfitto a Ravenna (→) l’11 aprile 1512. Comandò il contingente che, nell’agosto successivo, rovesciò la Repubblica fiorentina di Piero Soderini per rimettere i Medici a capo della città. Nel 1515 tornò al vicereame, dove restò fino alla morte.
Scrivendo «a una gentildonna», dopo il 16 settembre 1512 (Lettere, pp. 231-35), M. narra gli ultimi giorni della Repubblica. Schierato l’esercito presso Prato, il viceré chiese ai fiorentini di aderire alla lega Santa e deporre il gonfaloniere Soderini. Una terza condizione, lasciata in ombra da M. nella lettera, imponeva di accettare il rientro dei Medici a Firenze come privati cittadini (cfr. F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di C. Panigada, 1929, p. 223). Dopo che Soderini fece respingere dal Consiglio grande l’ipotesi della propria decadenza dalla carica, gli spagnoli misero in atto un primo assalto a Prato (secondo M., fu un «grande assalto»; secondo Guicciardini, un semplice tiro di falconetti, durato poche ore), che fallì. In seguito a ciò, secondo quanto riferisce la lettera machiavelliana, il viceré di Napoli offrì una più mite proposta di accordo, ossia che gli si pagasse «certa somma di danari; et de’ Medici si rimettessi la causa nella Cattolica Maestà, che potessi pregare e non forzare e fiorentini a riceverli». Secondo Guicciardini invece (Storia d’Italia, cit., p. 223), C. «inclinava alla concordia […], consentendo che i Medici ritornassino eguali agli altri cittadini, né si parlando piú della deposizione del gonfaloniere». Ma Soderini – scrive M. – «andò dilatando» la risposta (secondo Guicciardini, la procrastinò artatamente), «benché quella pace fussi consigliata da’ savi» (R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, 1978, p. 207, immagina che tra questi vi fosse lo stesso M., che anni dopo, in Discorsi II xxvii, avrebbe criticato la decisione dei fiorentini). Accadde così che, per stringente bisogno di vettovaglie, il 29 agosto le truppe di C. entrarono di forza a Prato e, dissoltasi la milizia fiorentina, la saccheggiarono. Allora, continua M., a Firenze «cominciò ciascuno a temere del sacco, [...] il qual timore cominciò ad essere accresciuto da tutta la nobiltà, che desideravano mutare lo stato». Il 1° settembre, fuggito Soderini e «composte le cose della città con il viceré», Giuliano de’ Medici rientrava nella città come cittadino privato. Tuttavia, il governo di ottimati che si era subito formato non soddisfaceva C. – «non parendo[gli] che vi fosse la sicurtà della casa de’ Medici né della lega» – il quale «significò a questi signori, essere necessario ridurre questo stato nel modo era vivente il magnifico Lorenzo», come si fece il 16 settembre. In effetti, secondo Guicciardini, mentre il viceré «soggiornava ancora in Prato, né aveva, quale si fusse la cagione, l’animo inclinato che nella città si facesse nuova alterazione», fu il cardinale legato, Giovanni de’ Medici, a insistere con lui sul rischio che un libero governo fiorentino avrebbe comunque rappresentato per la Spagna; e, con questo argomento, ottenne il necessario sostegno del viceré al colpo di Stato mediceo (cfr. F. Guicciardini, Storia d’Italia, cit., p. 234).
Il nome di C. compare occasionalmente nello scambio epistolare tra M. e Francesco Vettori, a proposito della tregua franco-spagnola del 1513 e delle prospettive politiche della Spagna nell’aprile 1514. Per Vettori, la tregua non corrisponderebbe agli interessi di Ferdinando il Cattolico, al punto che si può dubitare «di quella prudenzia l’ho giudicato insino ora, perché e’ può molto bene avere inteso per la esperientia dell’anno passato [a Ravenna] che l’esercito suo non è per far giornata con i franzesi» (Francesco Vettori a M., 21 apr. 1513, Lettere, p. 247). M. risponde che sempre Ferdinando gli è «parso più astuto e fortunato che savio» (M. a Francesco Vettori, 29 apr. 1513, Lettere, p. 249). Esempio di tale fortuna sarebbe proprio la battaglia di Ravenna, «per la quale poteva temere che con una giornata ne andassino tutti li stati suoi» – Napoli, ma anche Aragona e Castiglia, minacciate da una discesa francese attraverso la Navarra –, in modo che «subito dopo la nuova della rotta ordinò di mandare Consalvo a Napoli, ch’era come per lui perduto quel Regno, e lo stato di Castiglia li tremava sotto» (Lettere, p. 250; l’ipotesi della sostituzione di C. con Consalvo di Cordova – non attuata – trova conferma nella Historia del Rey Don Hernando el Católico di Jerónimo Zurita, 1580, c. 288r). Il giudizio sulla battaglia di Ravenna è solo politico e non tocca le responsabilità militari di C.: infatti, M. ammette «non ci essere armi [in Italia] che vagliono un quattrino, dagli spagnoli in fuora» (M. a Francesco Vettori, 10 ag. 1513, Lettere, p. 277). Il viceré viene citato espressamente nella successiva lettera di Vettori: rotta la tregua tra i francesi e la lega, l’imperatore «voleva ancora pigliare Padova, dove, come sapete, è stato Gurgense [rappresentante dell’imperatore] e il viceré qualche giorno per acamparsi, e visto la difficultà non l’hanno facto» (Francesco Vettori a M., 20 ag. 1513, Lettere, p. 281).
L’anno dopo M. scrive a Vettori prendendo in esame le prospettive della Spagna davanti all’alleanza tra il papa e gli svizzeri: «Parmi ancora che, stando le cose di là da’ monti in guerra, [tanta potenza della Chiesa e degli svizzeri] non faccia per lui, perché non sempre può riuscire la guerra tavolata, come l’anno passato» (M. a Francesco Vettori, 16 apr. 1514, Lettere, p. 317). È notevole che M. giudichi «tavolata», ossia finita in un pareggio tra Francia e Spagna, la campagna militare del 1513: i francesi hanno perduto Milano, ma gli spagnoli si trovano ora di fronte la coalizione elvetico-pontificia. Vettori, nella risposta, insiste sulla buona fortuna che ha assistito il re Cattolico da quando si è mischiato negli affari d’Italia. Dopo Ravenna, afferma, «il regno [di Napoli] non aveva rimedio: furonli favorevole la fortuna e le discordie» tra i francesi.
Nondimeno, non contento a questo, con un capo più presto da stare in camera che in campo, essendo egli [Ferdinando] lontano mille miglia, rimesse su il viceré, il quale gli ha messo due volte quell’esercito in sul tavoliere, donde, se era rotto, ne seguiva la perdita degli stati suoi (Francesco Vettori a M., 16 maggio 1514, Lettere, p. 323).
Il «capo più presto da stare in camera» è, per Corrado Vivanti, lo stesso viceré, un «comandante in capo a cui si addicevano più gli intrighi di camera che la guerra in campo» (in N. Machiavelli, Opere, 2° vol., 1999, p. 1588 nota 21). Tuttavia, viene da chiedersi se qui Vettori non si riferisca piuttosto alla testa del re, stimato, anche da M., principe astuto e incline ai tranelli. L’interpretazione di questo passaggio rimane dubbia. Certo invece è che, a giudizio di Vettori, C. mise a repentaglio l’esercito spagnolo e, con esso, gli Stati del re Cattolico per ben due volte. La prima, «quando venne a Firenze dove portò pericolo e non faceva per il re rimettere un cardinale, che ha dependere dal papa, in casa» (Lettere, p. 323). Infatti, C. non era sicuro di poter sopraffare i fiorentini, e solo l’insistenza del cardinale de’ Medici favorì la discesa del suo esercito; d’altronde, conseguita la vittoria, a Ferdinando poteva non convenire lasciare la città in mano a un legato pontificio. La seconda volta era stata «questo anno, a Vicenzia, quando si condusse in luogo, che altro che la poca pazienzia di Bartolomeo d’Alviano non lo poteva aiutare» (Lettere, p. 323). Il 7 ottobre del 1513, infatti, l’esercito spagnolo – trovandosi in posizione sfavorevole, presso Vicenza – fu precipitosamente affrontato dalle forze veneziane dell’Alviano, che finirono battute da Prospero Colonna, comandante della retroguardia spagnola.
Vettori chiude la sua lettera accennando all’inferiorità dell’esercito spagnolo rispetto a quelli francese e svizzero, e all’insufficienza di C.:
Vedesi ancora che Spagna ha sempre amato assai questo suo viceré, e per errore che abbia fatto non l’ha gastigato, ma più presto fattolo più grande, e puossi pensare, come molti dicono, che sia suo figlio [del Cattolico], e che abbia fantasia lasciarlo re di Napoli (Lettere, pp. 324-25).
La voce secondo cui C. era figlio del re fu raccolta anche da Zurita (Historia del Rey don Hernando el Católico, cit., p. 288r), ma è smentita dagli studiosi (Teixidó i Balcells 1969; Planells 2012), e comunque tra il re e C. correvano solo quindici anni di differenza.
Bibliografia: Fonti ed edizioni critiche: J. Zurita, Historia del Rey don Hernando el Católico: de las empresas y ligas de Italia, 6° vol., Zaragoza 1580; F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di C. Panigada, 3° vol., Bari 1929.
Per gli studi critici si vedano: M. Ballestreros-Gaibros, Ramón de Cardona, colaborador del rey católico en Italia, Madrid 1953; J. Teixidó i Balcells, Estudi biogràfic del gran capità català Ramon Folch de Cardona, Bellpuig 1969; A.J. Planells, Ramón de Cardona y la batalla de Ravena 1512, Madrid 2012.