COLLALTO, Rambaldo
Nato in località imprecisata il 21 settembre del 1579 da Antonio (1548-1620) e dalla sua prima moglie, la contessa mantovana Giulia Torelli, che era già vedova di Collatino Collalto amato da Gaspara Stampa, il C. respirò sin da bambino un'atmosfera satura d'orgoglio e, insieme, d'ansia.
Arroccata nel castello avito di San Salvatore, la sua famiglia - indubbiamente la più prestigiosa di tutto il Trevigiano, con una consuetudine d'autonomia alle spalle - doveva comunque far i conti con l'"alto dominio" della Serenissima, con la determinazione di questa a ridimensionare prerogative e privilegi. E la soppressione, del 1595, delle pretese di mero e misto impero dei Collalto, la brusca confisca dei loro possessi nel Montello (Venezia voleva disporre liberamente del "bosco" per la sua cantieristica) costituirono per il C. giovinetto un'onta intollerabile. Al contrario di Giacomo Collalto, cugino del padre, che, reduce dalle guerre di Fiandra e Francia, militerà per Venezia divenendo, nel 1607, governator generale della fanteria, al contrario del padre stesso, dal 1589 apprezzato "collaterale generale degli huomini di arme" della Serenissima, al contrario, infine, d'un suo fratello, Massimiliano preposto, nel 1600, ad una compagnia di genti d'arme, il C. rifiuta ogni prospettiva d'impiego sotto le insegne venete (e pure un suo fratello, Vinciguerra [1591-1616], già fondatore dell'Accademia padovana dei Fecondi, si farà cavaliere gerosolimitano e si batterà valorosamente contro i Turchi, cfr. A. Favaro, G. Galilei e lo Studio di Padova, Padova 1966, I, pp. 147-220; II, pp. 153 s.).
Fremente di sdegno, appena sedicenne abbandona i suoi per cercare fortuna sotto il vessillo imperiale. Arruolatosi come soldato semplice, ha modo di distinguersi nella guerra contro i Turchi acquistandosi la simpatia e la stima di Giorgio Basta. Quando, ai primi d'ottobre 1604, si verifica il "gagliardo et general" assalto ottomano al forte di San Tommaso presso "Strigonia", il C. fornisce una clamorosa prova d'ardire e di bravura.
"Fra quelli che sono stati osservati... in queste fattioni" per comportamento, scrive, l'11 ottobre da Praga, il rappresentante veneto Francesco Soranzo, "è avisato l'imperatore et tutta la corte che valorosissimo s'è mostrato il conte... Collalto che, se bene giovanetto, ha fatto di sé gloriosissima mostra et della sua persona si parla universalmente con molta riputatione et con grande honore".
Quanto a Venezia, i suoi furori da feudatario non abbastanza rispettato devono essere nel frattempo un po' sbolliti, se è il C. stesso a preoccuparsi di mettersi in contatto col Soranzo, cui, inoltre, si propone, all'inizio del 1606, quale "mezano" nel ventilato "negocio" del passaggio del Basta, insoddisfatto per i non adeguati riconoscimenti imperiali del suo "merito", al "servitio" della Repubblica.
E, a mitigare la rigidezza dello sprezzante rifiuto che l'aveva indotto a partire, c'era stato, all'inizio del 1604, un temporaneo soggiorno nel castello paterno, nel corso del quale partecipa con fasto ostentato alle giostre indette dall'Accademia degli Aspiranti di Conegliano per il carnevale: "cavalier del Barco" in quella dell'11 febbraio, "cavalier Fidelfo" nella successiva del 26, i giudici lo proclamano "il più leggiadro portator di lancia". E gli astanti dapprima l'ammirano mentre monta "un altissimo caval morello" che, vivacissimo, "lo portava in mille capricciose giravolte"; poi l'applaudono quando egli e il cognato Giacomo Malvezzi (aveva, infatti, sposato sua sorella Vittoria) incedono "con suntuosissimo apparato... sopra due grandissimi e bellissimi ginetti d'Andaluzia", entrambi "infocati".
L'opzione asburgica resta, comunque, definitiva: morto il padre, il C. ignorerà - rifiutando di riconoscersi vassallo della Repubblica - le convocazioni del magistrato sopra i Feudi e rinuncerà, con atto legale stipulato a Gorizia nel 1621, a favore dei fratelli ai suoi possessi in Italia; e nel 1628 la terza moglie del padre, la contessa bolognese Isabella Malvezzi, chiederà vengano investiti i suoi tre figli della "portione" dei "feudi di Collalto e S. Salvatore", di per sé "spettante" al C., ma dalla quale egli, per la sua "negligenza", era stato dichiarato "decaduto".
Rapida la sua carriera: brillante ufficiale in Ungheria e Transilvania, già l'imperatore Rodolfo lo nomina consigliere di guerra. Tale rimane col successore Mattia il quale lo crea altresì cameriere della Chiave d'oro e lo utilizza saltuariamente per missioni diplomatiche a Roma e in Ispagna. Ma l'affermazione del C. rischia di franare allorché, indispettito d'essere escluso da talune riunioni. si dimette incautamente certo lo si preghi di ritornare sulla sua decisione. Calcolo errato: Mattia ne prende atto, i cortigiani gli fanno il vuoto attorno. Non gliresta che rientrare a San Salvatore donde, dopo un anno di forzata inattività, muove alla volta di Graz, dove si guadagna la fiducia dell'Eggenberg e dell'arciduca Ferdinando. Sicché, quando questi diventa imperatore, grazie alla "molta estimatione" concessagli, la sua posizione è di nuovo forte.
La guerra in corso gli offre il destro di dimostrare indubbie doti d'organizzazione e di comando e d'elaborare una strategia che, come rileverà il trattatista Floriani, puntava anzitutto al controllo del territorio e ad "occupare alcuni posti più principali per impedir a' nemici la communicatione delle cose necessarie", per bloccare l'accesso dei soccorsi. Di fatto gli uomini, da lui "condotti", destinati al ricupero di Neuhäusel, "fortezza" di grande importanza, in mano del ribelle Thurzó, si scatenano devastando l'Ungheria anche per rifarsi della mancata corresponsione di più paghe. Suo merito il fallito congiungimento tra le truppe di Bethlen Gabor e quelle di Ernst Mansfeld; ma va d'altra parte addebitata al C., in una situazione che esige avvedutezza politica oltre che perizia militare, scarsa duttilità sul piano delle trattative. Non a caso gli "ambasciatori di Gabor" non lo vogliono quale interlocutore. E certo l'"attione memorabile" di togliere, quand'era commissario imperiale alla Dieta d'Ungheria, "con le proprie mani" il seggio di Bethlen "dal primo luogo" per sostituirlo col suo sguainando la spada in pieno consesso, se fu gesto coraggioso - e come tale lo ricorda Gregorio Leti -, costituì, d'altro canto, una gravissima provocazione per i convenuti, molti dei quali - a cominciare da György Rákóczy - abbandonarono clamorosamente l'aula. Ne derivò il fiero ridestarsi della ribellione antiasburgica e anticattolica.
Saldo, ad ogni modo, l'attestamento del C. al vertice delle gerarchie imperiali, progressiva l'accumulazione di cariche e titoli: signore di Pirnitz e di altre località morave, consigliere privato, ciambellano, presidente del Consiglio di guerra, il 18 marzo 1628 ottiene dal re di Spagna anche l'ambita nomina a cavaliere del Toson d'oro. È in grado ormai di fare ombra alla stessa grandezza del Wallenstein: si è incerti - informano i dispacci del settembre 1625 del segretario veneto a Vienna Padavin - se affidargli il comando di tutte le truppe operanti in Ungheria oppure quello dell'"essercito che è in imperio con titolo di maestro de campo general" ovviando, in tal caso, all'ostilità dell'ufficialità nei confronti del troppo energico condottiero la cui "asprezza" nel "proceder" aveva "hormai disgustati tutti i collonelli et capitani et datta occasione ai soldati di fuggirsene".
Comunque tra i due non si può dire ci siano una dichiarata ostilità ed un'esplicita rivalità: anche se non mancano le occasioni di attrito - una volta il Wallenstein mette agli arresti il C. che s'era ritirato senza sua licenza; un'altra si irrita oltremodo per un sequestro effettuato da un colonnello del C. su della merce per la quale egli, invece, aveva rilasciato salvacondotto -, i loro rapporti sono improntati da una certa cordialità e non mancano attestazioni di stima, da parte del Wallenstein, verso il Collalto. E quando, nel giugno del 1628, occorre convincere un uomo come il Wallenstein dal "cervello vastissimo et avidissimo di gloria" della necessità di ridurre gli effettivi e di lasciar slittare le operazioni antiturche - cosa non facile vista la sua inclinazione a "non far caso de gli ordini del consiglio di guerra e dello stesso imperatore se non quando e quanto le pare" -, solo il C. sembra avere l'autorevolezza per trattare con lui. "Fu preso per espediente - informa il 10 giugno il nunzio Pallotto - di mandare il conte di Collalto dal duca di Fridland a trattar di qualche rimedio et ho penetrato essersi stabilito che si licentino quattro regimenti di cavalleria di quella che si trova in Franconia". I due restano, tuttavia, profondamente diversi: insofferente della corte il Wallenstein, agitato da una debordante smania di grandezza; accorto cortigiano, il C. sa apparire ligio servitore dell'Impero, intransigente difensore dell'autorità di questo. Una patina di legittimità si stende pertanto sulle sue azioni; la stessa ferocia repressiva che lo induce, come risulta dai dispacci del luglio 1626 del Padavin, a voler muovere una vera e propria "guerra" contro i "villani" in rivolta ("voltatisi all'hostilità, hanno cominciato attaccare con il cannone... Linz") diventa zelo di suddito devoto. I suoi ambiziosissimi propositi sono sempre inquadrabili entro tale rassicurante cornice, anche quando provocano, come scriverà nella sua relazione del 1631 l'ambasciatore veneziano Sebastiano Venier, immani "mali" alla "misera provincia di Italia" sottoposta, a causa del C., ad una somma inaudita di "estorsioni barbarie et iniquità".
L'insediamento a Mantova di Carlo I Gonzaga Nevers è per il C. un'occasione eccezionale per fondere le spinte dell'ambizione personale con le motivazioni della devozione più conseguente al prestigio asburgico. Punta tutto sulla guerra e, nel contempo, l'ammanta di legalità. In combutta col primo ministro Eggenberg e coll'ambasciatore spagnolo si forma un "triumvirato" che la vuole a tutti i costi, "contro il parere degli altri ministri". Il C. è giudicato negli ambienti vicini alla imperatrice Eleonora "homo cupo, malinconico, che sempre rumina et avido di gloria"; "capo mal affetto, altiero", così il vescovo di Mantova che a Vienna invano s'adopera in contrario, "s'ha proposto questa guerra fine et oggetto della sua grandezza". Egli, l'Eggenberg, l'Olivares sono come un'"anima e spirito in tre corpi", congiurano perché il conflitto scoppi, vanificando gli sforzi di mediazione, accantonando gli stessi appelli papali.
Dalla guerra il C. s'attende molto: fama potere, ricchezze. Sin dalla fine del 1628 intriga con la diplomazia spagnola, rafforza i reggimenti, amplia l'arruolamento, alletta i soldati col miraggio dell'imminente calata in Italia. Membro - ne aveva dato notizia il nunzio nel marzo - della commissione incaricata della "cognitione della causa" vertente "de sequestranda possessione ducatuum Mantuae et Montisferrati", è subito evidente che ne approfitta per inasprirla. Eppure il Wallenstein - così il vescovo Vincenzo Agnelli Soardi - protesta: "batte i piedi in terra per la guerra d'Italia", osservando "che se Svetia fosse stato bono astronomo... poteva scorrere tutto l'imperio, perché tutto l'esercito cesareo passava in Italia". Al che il C. va replicando che, anzi, era "espediente per gl'interessi di Germania tener occupati Francia e Venetia in Italia, acciò non diano assistenza allo Sveco". Lo scrive Giovan Battista Pallotto, che con crescente angoscia riceve notizie sempre più allarmanti. Corre voce la guerra debba investire anche Venezia, offra il destro al C. d'una trionfale vendetta. La diceria si gonfia preoccupante: "non manca - avvisa il nunzio il 15 sett. 1629 - chi creda riputarsi... necessario mortificar et indebolir, quando non si possa destrugger, la potenza veneta e che stimino congiuntura opportuna" l'aggravarsi della situazione. Si diffonde la convinzione che "Venetia... non sia per poter resistere alla forza da più bande et alle secrete intelligenze e propensioni all'imperio che si pretendono nelle loro principali città e massime guidando l'esercito C., del quale ho sentito questi disegni", laddove "altre volte" s'è "lasciato intendere che, se l'imperatore facesse la guerra, ma per da vero, a' Venetiani et egli la guidasse, speraria anche lui di arrivar al titolo di altezza". Certo il C. si colloca sulla linea del più esasperato oltranzismo, cela in cuor suo ambizioni di smisurata grandezza. Una tempesta di sciagure incombe sull'Italia: egli e l'Eggenberg - insistono gli accorati dispacci dell'estate del 1629 di Agnelli Soardi - proponendosi ad esclusivi difensori degli interessi irrinunciabili della "casa d'Austria", minacciano, di fatto, "ruine" alla penisola; sta per venire un "altro Attila".
Dilagano, ormai nel settembre 1629, le soldatesche in Lombardia. Innescato il meccanismo bellico, si bruciano le speranze di pacifica composizione, anche se ci si ostina a sperare, come scrive il 13 ottobre il vescovo di Mantova, che "gli eserciti sono mandati non per far male, ma per mostrar che possono farlo; il C. s'avvicina a Mantova non per attaccare ma per far credere che può farlo". Speranze patetiche. È la stessa presenza della marea armata ad essere orribile. È il suo solo afflusso a risultare devastante. Discordanti le cifre sull'entità delle truppe di cui il C. ha il comando supremo: si va da 25 mila fanti e 4 mila cavalli di cui parla l'agente genovese a Milano ai 35 mila fanti e 6 mila cavalli annotati dall'inviato lucchese al governatore di Milano Ambrogio Spinola.
Si sa che questi è perplesso; ma non può opporsi alle direttive di Olivares e deve, suo malgrado, accogliere di buon grado il C., dargli la destra, trattarlo da "eccellenza". Il 27 settembre il Mazzarino, allora frenetico agente pontificio, scrive al cancelliere gonzaghesco Alessandro Striggi d'aver "fatto vive instanze" con entrambi perché accettassero di "soprassedere un poco a muover l'armi". Invano: "non è stato possibile impetrar cosa alcuna". Già il 23 l'agente mantovano a Milano aveva accertata la determinazione del C. di provocare un incidente. Bastano l'invio d'"alcuni puochi cavalli ad una delle fortificationi" mantovane, una timida "moschettata" di reazione "contra detti cavalli" per ostruire definitivamente "la strada ad ogni trattato". Il C. pare non desiderare altro.
Il 15 ottobre presiede a Lodi un consiglio d'ufficiali che decide la penetrazione nel Mantovano, mentre un tracotante "comandamento" a firma del C. intima ai "feudatarii... subfeudatarii e altri sudditi di Mantoa e Monferrato... di non obedire né assistere... al duca di Nevers come principe inobediente a Sua Maestà Cesarea"; loro dovere, anzi, fornire "aiuti" e "consigli" alle armi imperiali e, di più, unirsi a queste. In caso contrario il C. promette di procedere "castigandoli nelle persone e nelle robbe". Il 17 il feroce Aldringen passa l'Oglio a Ostiano, in concomitanza coll'avanzata spagnola nel Monferrato. Arrendevolissimo il duca cede il castello di San Giorgio, "che si può dire il cuore della città", fidente nella "protettione dell'imperatrice", che - come avvisa Pallotto il 10 novembre- è sdegnatissima per le "sceleraggini esecrande commesse da soldati alemanni contro li sacerdoti... l'imagini e... l'istessi... sacramenti". Momentaneamente sospeso il conflitto, si riaprono spiragli di trattativa che il C. s'affretta ad otturare esigendo dal Nevers altre e più umilianti prove di sottomissione. Il castello ceduto è "mera apparenza"; vuole la cittadella di Porto e una porta della città, "ch'è - commenta il Senato veneziano - quanto l'impatronirsi di tutta la città". Terrorizzato dalla morsa dell'assedio il duca propende ad ulteriori cedimenti; occorrono le più decise rimostranze venete e francesi perché non accolga un presidio cesareo a Porto. Né questa sarebbe l'ultima pretesa del C., che, dopo la resadel 29 novembre, di Goito, incontentabile si lascia "intendere voler il deposito della stessa città". A questo punto Francia e Venezia riescono ad imporre un diniego preciso.
Fermezza produttiva ché è il C. ora, avvisato dei preparativi francesi, a mostrarsi più malleabile di fronte a nuove proposte di sospensione e tregua. A ciò concorrono l'inverno incombente, la scarsità di cibo e foraggio. Fiacche le operazioni militari e non direttamente guidate dal C. per lo più fisso nel monastero di S. Benedetto, più ostinata del previsto la resistenza mantovana. La guerra è meno rapida di quanto egli abbia calcolato: deve, inoltre, fare i conti coll'ostilità dell'imperatrice, l'indecisione dell'imperatore, le pressioni pontificie. Per quanto abbia "poca dispositione" alla pace, per quanto non vi sia da supporre "di conseguirla per mezzo suo", ogni tanto anche il C. s'abbandona a vagheggiarla: vorrebbe, così, almeno, avvisa il 13 dicembre il nunzio in Lombardia Gian Giacomo Panciroli, "attaccare la spada ad un chiodo e godersi il privilegio d'intervenire a i consigli di stato" senza "pensar più" a sfoderarla. Certo non l'incoraggia la necessità d'abbandonare Porto e San Giorgio, d'arretrare a Borgoforte, Canneto e Gazzuolo. Una vera e propria ritirata suggerita dal timore dei Francesi, imposta dal rincrudire del freddo. Praticamente l'assedio il 25 dicembre s'allenta: Mantova respira, mentre è il territorio circostante, orribilmente devastato, a rimetterci. Più autorevole risuona l'invito papale alla tregua. Stizzito il C. scrive, l'8 genn. 1630, da Reggio Emilia, dova ha spostato la residenza, al marchese Ercole Gonzaga che "il mondo è pieno di buone intenzioni... siamo a mezo genaro senza aver fatto niente". Comunque propende per il negoziato: non sta bene di salute. vuole tornare alla corte; d'altronde ha ormai fatto "buona colletta di denari". Sono i Francesi, invece, ad irrigidirsi; è Richelieu a rifiutare, aizzato dalle esibizioni aggressive dello Spinola. Impossibile tirarsi indietro. Non resta al C. - che già il 1º gennaio ha dichiarato all'inviato lucchese come, "hora" che è in ballo la "iurisditione" imperiale, "è tempo che si conoschino li amici e i confederati di Sua Maestà" - che esigere contributi esosi dai "feudatari dell'impero", imporre loro l'alloggio delle truppe. Il duca - di Modena - che ancora nel novembre del 1629 aveva cercato d'ingraziarsi il C. col dono di "due bellissimi cavalli" - lo schiva colla promessa di 150 mila ducati, mentre quello di Mirandola "sostenta 5 mila fanti e 1.500 cavalli". Gli altri - sono almeno 20 mila i "fanti effettivi" da "porre a quartiere" - gravano sui "signori Sessi, Novellara... Gonzaga, Bozzolo e Correggio", e in "ogn'uno di questi luoghi si sentono giornalmente esclamationi e doglienze estremi". Il prolungato saccheggio al posto della sfolgorante vittoria. A dirigerlo bastano gli ufficiali. Superflua la presenza del Collalto.
Questi, infatti, si sposta in febbraio in Piemonte per fronteggiare la pressione francese, quanto mai pericolosa dopo la caduta, il 21 marzo, di Pinerolo. Ma il C., lo Spinola, il duca di Savoia sono troppo discordi e perciò incapaci d'una controffensiva coordinata a fondo. Richelieu può tranquillamente ripartire, il 2 maggio, per la Francia cedendo ai marescialli Schomberg e La Force il comando. Lo stesso C., anteponendo l'impresa di Mantova alla cacciata dei Francesi che era, invece, l'obiettivo prioritario dello Spinola, "torna - scrive Fulvio Testi il 18 maggio - sotto Mantova con rinforzo di nuova soldatesca e con pensiero di attaccare in un medesimo tempo anche una piazza di Viniziani". S'incontra a Guastalla con l'Aldringen, il Galasso, e il colonnello Giovan Battista Rivarra coi quali stabilisce la stretta decisiva dell'assedio. C'è la clamorosa rotta di Valeggio, di cui il C., peraltro, privo d'autorizzazione in tal senso, non approfitta per un'irruzione nel Veronese; si limita a far presente che sarebbero proseguite le rappresaglie finché Venezia continua "a tener genti in Mantova". Conquistata, il 18 luglio, questa dall'Aldringen e dal Galasso con una "sorpresa" che pare sia stata concertata anche col C., egli è finalmente soddisfatto.
Si tratta d'una conclusione vittoriosa e nel contempo d'uno smacco cocente per lo Spinola alla vana ricerca d'analogo successo. Ora, rispetto all'inizio della guerra, le parti sono totalmente invertite. Prima della caduta della città, così acutamente un'instruction del Richelieu, il C. "sembloit estre celuy qui désideroit le moins la paix, et lors Spinola l'en blasmoit ouvertemente". Ma, "depuis la prise... de Mantoue, l'envoie que Spinoia porte à Collalto fait que c'est luy qui empesche la paix".
Il C. - che all'inizio di luglio nulla ha fatto per frenare i saccheggi nel Lodigiano di 400 suoi cavalieri, che vi ha imposto "contributioni esorbitanti" ai contadini - è oggetto perciò di "tutte le maledittioni et li più cattivi augurii che dare può mai lingua humana". E circola la voce, tanto è odiato, sia capo degli untori, sia il responsabile della peste che infuria. A lui si rivolgono, nell'agosto, gli sventurati mantovani perché freni gli orrori del saccheggio, mitighi la scatenata avidità della truppa imbestialita. L'invocano di "comandare che siano i sudditi trattati come sudditi di Sua Maestà Cesarea". Supplica cui il C. risponde, il 5 settembre da Torino, con tono duro e sostanzialmente coprendo l'operato dei suoi sottoposti. E i miseri sottoscrittori dell'inascoltata petizione dovettero poi subire vendicative ritorsioni: "furono maltrattati tutti quelli che testificarono la verità" ricorderà un successivo memoriale.
Certo non è da un uomo come il C. che poteva venir loro un minimo di comprensione e d'appoggio. Avido di denaro - basta verificare le sue pretese di cospicuo "laudemio" nel complicato "negozio di Correggio", nel quale, così il duca Francesco d'Este, per mano del Testi, il "punto principale" è, appunto, quello dell'"aggiustamento del prezzo", nel qual proposito il C. "terà più alta la mira che per lui si potrà" -, il sacco di Mantova è un'occasione anche per lui. Non esita ad invitare l'Aldringen a non "usar cerimonia" con gli ebrei e, appena informato della presa della città, s'affretta ad ordinargli d'avvisarlo "quanto appresso a poco si potrà cavare". Né le pressioni della corte, le proteste d'Eleonora, le esortazioni alla mitezza dello stesso imperatore l'inducono a porre fine alla brutalità spietata delle razzie, ad intervenire per proibirle. È troppo preso, d'altronde, dalle operazioni belliche in Piemonte per preoccuparsi della prolungata tortura del saccheggio sistematico che Mantova sta subendo: non "solamente contro le persone e robe degli innocenti infieriscono quei cani, ma anche contro le stesse case e muraglie" ricorderà il Muratori. Quanto al C., si sa che dispose che tutto il sale venisse inventariato; ne ordinò quindi la confisca e riserbò per sé il ricavato.
Destreggiandosi nell'intreccio tra diplomazia e guerra, procedendo, tutto sommato in sintonia col duca di Savoia, il C. pare aiutare ben poco lo Spinola vanamente intestardito nella presa della cittadella di Casale.
Corre voce negli ambienti spagnoli che egli, anzi, gioisca delle difficoltà del rivale. Già la relazione d'un anonimo, con tutta probabilità al seguito del duca di Lerma, aveva rilevato come il C. "pidiendole el... Spinola que le ayudase con gente para el sitio de Casal, ha respondido que el no quiere ayudar a la gloria che ha de resultar al marqués de la toma desta plaza, sino ganar honra por si y volver por sus armas".
Responsabilizzato nell'applicazione del trattato di Ratisbona del 13 ottobre, che pubblica senza preventivamente comunicarlo ai ministri ispanici, il C. è a Vercelli, quando, il 25, lo raggiunge l'instancabile Mazzarino che l'esorta ad usare i pieni poteri avuti dall'imperatore; e riesce, soprattutto, a strappargli il consenso alla consegna di Casale nelle mani del duca di Mantova. Di lì a poco, mentre sta rientrando a Vienna, muore a Coira, pare per un'infiammazione polmonare, il 18 novembre 1630.
Freddamente dà notizia della sua scomparsa l'ambasciatore veneto Sebastiano Venier il quale scrive il 30: "corre voce che habbi lasciato gran facoltà, ma li suoi dicono andar egli creditore di Sua Maestà di oltre 100 mila taleri che egli ha speso del suo proprio in queste occorenze... si pressente che qualche lite se gli habbia a mover sopra le baronie... in Moravia et che molti consiglieri tedeschi, da' quali anzi era odiato che amato, siano per esserli contrarii. Si tiene che spagnuoli habbino perduto un gran ministro tutto da loro dipendente et che tutti li capi che han maneggiata la guerra contro Mantova, doppo haverla consigliata et fomentata in pochi mesi vi habbino lasciata la vita: ... Savoia... Spinola... Collalto". L'immagine del C. è irrimediabilmente legata alla guerra di Mantova, inclusa l'orrenda appendice del sacco. Egli è inoltre, come scriverà Cantù, il generale di quei "terribili lanzichenecchi che... regalarono la peste all'Italia". Solo il duca di Modena pare sentirne la "perdita con singular dispiacere, non tanto per l'interesse di Coregio, al quale bisogna confessare che il conte portava grande aiuto, quanto perché a cotesta corte viene a mancarci un otimo amico et un ministro di grande autorità, nostro parziale e confidentissimo".
Sepolto a Vienna nella chiesa dei minoriti, il C., che s'era sposato nel 1617 con la contessa Bianca Polissena di Girolamo Vincislao Della Torre, lasciava una figlia, Giulia, che s'accaserà con un conte di Solms, e due figli, Claudio (1627-1661), uomo d'armi e diplomatico, e Anton Francesco (1630-1696), futuro consigliere arciducale e ciambellano imperiale.
Fonti e Bibl.: Svariata document. relativa al C. nel ricco arch. della famiglia Collalto ora in Brno, Státni Oblastní Arch. (cfr. A. Ive, Di... lettere di... Muratori... nell'archivio... Collalto a Pirnitz (Moravia), in Arch. stor. lomb., XVI [1889], p. 430); Arch. di Stato di Venezia, Senato Secreta, regg. 131, cc. 84r, 137v, 190r; 132, cc. 15r, 57v, 67v, 71v, 84r, 95r, 96r, 99r, 125v, 130v, 131r, 145v, 156v, 216r, 263r, 293, 331r, 351v; 133, passim; Ibid., Senato corti, reg. 1, cc. 99r, 104v; Ibid., Senato. Dispacci Germania, filze 34, lett. dell'11 ott. 1604; 35, lett. 13 febbr. 1605 m. v. con allegata lettera del C. del 4 febbr. 1606; 74, lett. 25 ottobre e 30 nov. 1630; Ibid., Senato. Dispacci Svizzera, filza 24, lett. del 12 ag. 1608; Ibid., Senato. Dispacci Roma, filza 98, lett. nn. 275, 280; Ibid., Senato. Dispacci Savoia, filza 70, lett. del 24 dic. 1629; Ibid., Senato. Dispacci Inghilterra, filza 35, lett. del 12 aprile, 17 maggio, 7 giugno 1630; Ibid., Senato. Dispacci Spagna, filza 67, lett. del 16 luglio 1630; Ibid., Consultori in iure, 53, c. 116; 56, cc. 55v-57r; Venezia, Civ. Museo Correr, Mss. P. D., 113 b/I; Ibid., Cod. Cicogna, 3416/1; Ibid., Mss. Correr, 1378, cc. 206r-210r; Nuntiaturberichte aus Deutschland…, s. 4, Die Prager Nuntiatur des... Ferreri und die Wiener... des... Serra..., a C. di A. O. Meyer, Berlin 1913, pp. 170, 239, 478, 504, 512; Nuntiatur des Pallotto..., a C. di H. Kiewning, ibid. 1895-97, 1-11, ad vocem; Monumenta Hungariae Historica, s. 1, XIX, Budapest 1873, pp. 425 s.; s. 3B, VIII, Buda-Pest 1882, pp. 41, 232; Diplomat. relationum Gabrielis Bethlen cum Venetorum Republica, a C. di L. Óváry, Budapest 1886, ad vocem; Fontes rerum Austriacarum, s. 2, XXVI, a c. di I. Fiedler, Wien 1866, pp. 107, 111, 147, 159, 198; XLI, a C. di F. Tadra, ibid. 1879, pp. 243, 287, 289, 293, 305, 307, 383; LXIII e LXV, a c. di H. 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