DELLA TORRE, Raimondo
Figlio di Pagano capo della Credenza di S. Ambrogio a Milano, e fratello di Napoleone detto Napo signore di Milano, nacque attorno al 1230 e fu pregto avviato alla carriera ecclesiastica. Già nel 1247, non ancora ventenne, ottenne una prebenda, da papa Innocenzo IV. Nel 1251 fu insignito dell'arcipretura di Monza, una delle più cospicue prelature della diocesi milanese. Nel 1257 si rese vacante la sede arcivescovile milanese; i canonici della metropolitana divisero i loro suffragi fra il D. e Francesco da Settala. Nel 1262 quest'ultimo ritirò la propria candidatura: tuttavia, secondo i canoni, dopo la lunga discordia degli elettori la scelta spettava alla S. Sede. Urbano IV, forse su istanza del cardinale Ottaviano degli Ubaldini, elesse Ottone Visconti e contemporaneamente, per non scontentare i Della Torre, fece promuovere il D. alla sede vescovile di Como. Fallito il disegno di ottenere l'elezione del loro congiunto, i Torriani requisirono i beni e i castelli dell'arcivescovado, impedirono a Ottone di accedere alla sede metropolitana e con la forza delle armi lo cacciarono dalla Lombardia. La Curia romana rispose immediatamente scagliando l'interdetto sulla città.
Nel 1262-64 abbiamo notizia di un'intensa attività del D. Presso la Curia papale: si ritiene che in quegli anni egli preparasse, con un'accorta iniziativa diplomatica, nuovi orientamenti politici della sua consorteria. I Torriani, dopo aver governato a Milano con Oberto Pelavicino, ghibellino ed eretico scomunicato, si riavvicinarono alla Sede romana e al partito guelfo angioino, e con il trattato di Aix del gennaio 1265 consentirono all'esercito di Carlo d'Angiò il libero transito in Lombardia.
La parte svolta dal D. nel determinare il nuovo indirizzo politico della sua casata è confermata da un successivo trattato di cui egli fu promotore, stipulato il 25 febbraio dello stesso anno, che estendeva l'accordo tra i consociati lombardi e l'Angiò a un'altra coalizione guelfa, composta dal marchese d'Este, dal conte di San Bonifacio e dalle città di Ferrara e di Mantova. Gli alleati si impegnavano tra l'altro a favorire l'elezione del D. alla cattedra milanese e a ottenere dal pontefice la sua elezione a legato apostolico nell'Italia settentrionale, con una lauta prebenda e 300 armati per tre anni, per combattere a favore della causa della Chiesa e della coalizione guelfa. Al vescovo di Como era inoltre delegata la nomina dei podestà delle città consociate per cinque anni; infine, i membri della lega si impegnavano ad ottenere dalla Sede romana la remissione di tutti i guasti e i danni procurati dai Della Torre alla Chiesa milanese. Il nuovo papa Clemente IV, si oppose con fermezza a queste pretese che in una lettera dell'agosto definì "indecentes", riferendosi soprattutto alla non spenta ambizione del D. di essere insignito della cattedra arcivescovile milanese ai danni del Visconti; nel 1266 l'arcivescovado fu definitivamente confermato a quest'ultimo.
Durante questi anni, mentre i Torriani si impegnavano in un'azione politica intesa a consolidare politicamente e militarmente le posizioni conquistate in Lombardia, il D. contribuì all'incremento della sua casata, prendendo parte attiva in numerose azioni diplomatiche e in delicati interventi di arbitrato, "vera mente direttiva della politica milanese e lombarda nei tredici anni che corrono dalla riscossa dei guelfi in Lombardia (1264) alla battaglia di Desio" (Franceschini, p. 304). Nel 1269 il D. era a Brescia per pacificare in città le fazioni avverse e ricondurre i cittadini all'obbedienza milanese. Nel 1270, durante uno scontro con i Venosta, potenti feudatari della Valtellina, il D. fu catturato e imprigionato nel castello di Boffalora, ma fu presto rilasciato. Restano, infatti, numerose testimonianze dell'attività diocesana del vescovo di Como nei mesi successivi, e sappiamo inoltre che fin dal febbraio 1270 la chiesa di Chiavenna anticipò al "cariepario" del vescovo il fodro che servì a pagare il riscatto (cfr. G.R. Orsini, La giurisdizione ... del vescovo di Como, in Arch. stor. lombardo, LXXXI-LXXXII [1954-55], p. 179). Nel giugno successivo il D. era a Lodi, dove trattava con una consorteria locale nel tentativo di assicurare la città ai Torriani per via diplomatica, prima di ricorrere alla forza delle armi.
Nel dicembre del 1273 Gregorio X promosse il D. alla sede patriarcale di Aquileia, la carica ecclesiastica forse più ragguardevole in Italia per ricchezza, potenza e grado. La nomina coronava le ambizioni del D. e lo insigniva di un principato esteso e potente e di una diocesi ricca, dotata di un gran numero di benefici, prebende, uffici civili ed ecclesiastici che da quel momento furono elargiti largamente alla clientela torriana. Di più, il D., che ambiva all'incarico di legato apostolico, era confortato nella sua speranza dall'esempio di Gregorio da Montelongo, suo illustre predecessore ad Aquileia e legato pontificio. L'elezione del D. fu indubbiamente un riconoscimento dell'accresciuta potenza torriana, e un incoraggiamento alla pacificazione della città e al futuro ritorno di Ottone Visconti, ma è anche da mettere in relazione con una più ampia strategia di Gregorio X, che intendeva opporre nuove forze politiche e nuovi schieramenti al guelfismo angioino. In vista di questi obiettivi, il pontefice vide con favore l'elezione di Rodolfò d'Asburgo a re dei Romani nel settembre del 1273, e successivamente incoraggiò il collegamento di questo con i Della Torre, che passarono dalla tutela angioina a quella del re germanico. Il patriarcato friulano era tradizionalmente la porta d'Italia per i re di Germania: tra il nuovo patriarca e Rodolfo si stabilirono stretti rapporti.
Gli eventi relativi alla decisione di papa Pregorio di conferire al D. il patriarcato sono narrati dagli storici con versioni discordanti. Gregorio X era di passaggio in Lombardia per recarsi a Lione; del suo seguito faceva parte Ottone Visconti, al quale fu imposto di arrestarsi a Piacenza. Secondo alcune versioni, il papa soggiornò brevemente a Milano mostrandosi freddo verso i Torriani; secondo altre narrazioni, al contrario, Gregorio fu da loro ricevuto con magnifiche accoglienze, e sollecitato caldamente a conferire il patriarcato al loro congiunto. Stefanardo da Vimercate ritiene che il pontefice fosse pienamente a conoscenza delle trame che a Milano si ordivano contro il Visconti, e il Giovio asserisce anzi che Gregorio era a conoscenza del fatto che il D. avesse assoldato alcuni sicari per uccidere a Piacenza il suo avversario (cfr. sulle differenti versioni la Prefazione di G. Calligaris al poema di Stefanardo, pp. XXIX-XXXII). Emerge comunque in queste vicende la comunanza d'azione e di interessi dei vari membri della domustorriana, qui unita attorno al D. anche nel delitto ("in id scelus tota familia conspirante") secondo Paolo Giovio, che giudica severamente il vescovo di Como, uomo "multa morum gravitate, sed profunda ambitione et nefaria simulatione insignis".
Impegnato nel serrato gioco politico ombardo, il D. si recò ad Aquileia soltanto nel luglio del 1274, accompagnato da un ricchissimo seguito, con un ingresso sfarzoso e solenne. Insediatosi in Friuli, il patriarca dovette affrontare immediatamente il problema delle relazioni con i potentati confinanti, e segnatamente quelle con il conte di Gorizia, contro il quale il suo predecessore Gregorio da Montelongo aveva combattuto aspramente per recuperare le terre usurpate dai Goriziani alla Chiesa aquileiese, subendo anche l'umiliazione della cattura e della prigionia. Il nuovo patriarca intavolò con il potente vicino difficili trattative, che si protrassero per due anni, nonostante l'intervento del re di Boemia e di Rodolfo d'Asburgo. Nel 1275 i due contendenti si disposero a un accordo che diede inizio a un lungo arbitrato sui territori e sulle città contese.
La nomina del D. ad Aquileia non lo allontanò dagli affari milanesi, ma al contrario, quando i nemici dei Torriani si coalizzarono e iniziarono, dal 1275, a maturare propositi di riscossa, le forze armate radunate dal patriarca a Udine e nel Friuli furono inviate in più occasioni in Lombardia a sostenere il partito torriano. Dopo la rotta di Desio, nel 1277, molti membri della consorteria e i loro fautori cercarono rifugio in Friuli presso il patriarca, che li insignì di beni, feudi e uffici. Nello stesso anno un gruppo numeroso di lombardi si insediò a San Vito dove ottennero dal D. la concessione di feudi "d'abitanza" con l'obbligo del servizio militare.
I rovesci militari dei Della Torre in Lombardia resero più difficili, di riflesso, i rapporti tra il patriarca e i potentati confinanti. Le questioni rimaste in sospeso con il conte di Gorizia attendevano ancora una definizione, mentre il potente feudatario, avvocato della Chiesa aquileiese, rafforzava la sua posizione alleandosi con Rodolfa d'Asburgo. Alla fine del 1277 il patriarca si recò presso il re Rodolfo, forse per condurre a termine le trattative con i Goriziani, ma soprattutto per ottenere dal re dei Romani un aiuto militare in Lombardia dove i Torriani, da un castello nei pressi di Como, iniziavano a riorganizzarsi. Nel maggio del 1278 il D. partì da Cividale con un contingente numeroso di milizie per prestar soccorso ai suoi a Lodivecchio; ma prima ancora di ricevere i soccorsi friulani i Torriani diedero battaglia ai Viscontei e riportarono una vittoria che assicurò loro il controllo sulle terre dell'Adda. Anche negli scontri avvenuti successivamente a San Colombano e a Gorgonzola i Della Torre seppero mantenere le posizioni acquisite. Il marchese del Monferrato, che conduceva l'esercito milanese, si vide perciò costretto a entrare in trattative con il D., l'esponente più autorevole della famiglia dopo la morte di Napo, avvenuta in prigione nel castello di Baradello. Per tutto il 1278 e il 1279 il patriarca si trattenne in Lombardia: gli atti da lui firmati sono datati dal palazzo vescovile di Lodi.
La pace stipulata dal D. nel 1279 fu presto rotta da nuove ostilità: all'inizio del 1281, in assenza del marchese, i Torriani diedero battaglia, sostenuti da cinquecento cavalieri giunti dal Friuli. La battaglia di Vaprio, alla quale il D. non volle partecipare personalmente, si risolse in una gravissima rotta per i Della Torre, inferiori numericamente e attestati su una posizione svantaggiosa: ai caduti si aggiunsero centinaia di fuggitivi che trovarono la morte annegati nell'Adda. Il patriarca riparò in Friuli con le i sue truppe decimate. Il gran vessillo della città di Cividale, conquistato dai Viscontei, fu esposto in piazza a Milano.
Nel 1284 il patriarca si accinse a prendere il comando dei suoi in un nuovo tentativo di riscossa. Per il tramite del fidato Accursio Cutica, comasco, il D. stipulò un accordo con Guglielmo VII marchese del Monferrato e gli versò una forte somma per ottenere il suo aiuto militare nel tentativo di liberare i familiari ancora prigionieri a Como, e per iniziare la guerra contro i Visconti. Gli scontri tra l'eterogenea coalizione antiviscontea e i Milanesi si protrassero per tutto il 1285, senza eventi decisivi, finché il 3 apr. 1286 si giunse al trattato di pace. I Torriani ottennero la restituzione dei loro beni, ma fu loro impedito di rientrare a Milano; il principato friulano accolse nuovamente gli esuli, sotto l'ala protettrice del patriarca. L'anno successivo fu rinnovato contro di loro il bando, e nuovamente requisiti i loro possedimenti.
Gli affari friulani, intanto, impegnavano seriamente il patriarca: nei primi anni del suo governo il D. era riuscito a salvaguardare l'integrità territoriale dello Stato, grazie al proprio personale prestigio e all'alleanza con l'Asburgo. Dal 1283 si fece più pressante e temibile l'espansione politica e commerciale di Venezia, soprattutto in direzione dell'Istria. Il D., in nome degli antichi diritti del governo patriarcale sulla penisola, prese l'iniziativa e impedì ai Veneziani l'accesso ai porti del territorio aquileiese, quindi fece lega con il conte di Gorizia e iniziò una lunga guerra che ebbe come teatro Trieste e la penisola istriana dal 1283 al 1291. Una prima fase degli scontri si concluse a favore di Venezia, ma la pace fu presto rotta da nuove iniziative militari del patriarca, che tra il 1287 e il 1288 mobilitò le leve friulane, moltiplicò le imposizioni fiscali e rinnovò le spedizioni militari in Istria per sostenere i fautori della Chiesa di Aquileia. La pace tra i due contendenti, che fu raggiunta nel 1291 con la mediazione del signore di Treviso, favorì soprattutto Venezia, verso la quale Trieste dovette confermare gli impegni già assunti, e arrecò dei vantaggi anche al Goriziano, che si assicurò Cormons ed ebbe dal patriarca il feudo di Venzone.
In quegli anni si era anche accresciuta l'influenza politica di Gerardo da Camino, dal 1283 signore di Treviso. Nel 1291 il D. rivendicò alcuni territori usurpati dal Caminese e iniziò contro di lui una lotta che condusse con grande determinazione, procurandosi l'alleanza e l'aiuto militare di Padova. Per i Padovani, nel 1294, il D. trattò la pace con il marchese d'Este, riportando buoni risultati diplomatici. Grazie a questa accorta iniziativa politico-militare, il D. riuscì ad arginare l'incremento politico dei signori confinanti; ciononostante, i suoi ultimi anni di governo furono segnati dal crescere della potenza delle formazioni territoriali vicine, a danno del territorio aquileiese. Attorno al conte di Gorizia e al signore di Treviso, che si erano alleati, si coagulava il malcontento dei vassalli e dei nobili friulani, oppressi dal governo forte ed energico del patriarca.
Tra il 1296 e il 1297 si susseguirono scaramucce e piccoli fatti d'arme derivanti dalle irrisolte controversie territoriali cop il Goriziano e con i feudatari friulani che lo sostenevano. Pendevano anche le questioni relative alla pace con Venezia: convocato a Roma da Bonifacio VIII per definirle, il D. non si presentò, provocando le rimostranze del pontefice.
Vecchio, stanco e malato, il patriarca si avviava alla morte, che avvenne a Udine il 23 febbr. 1299. Fu sepolto ad Aquileia, nella cappella che egli stesso aveva fatto preparare all'interno della basilica.
Nella sua attività di governo in Friuli il D. agì sempre con grande lucidità e con polso fermo. Partecipando senza riserve al serrato gioco politico tra i potentati laici ed ecclesiastici dell'Italia nordorientale, il D. condusse una politica accorta ed energica, spesso aggressiva sul piano militare, e riuscì a preservare lo Stato friulano dalle ambizioni delle dominazioni confinanti, rallentando così - pur senza interromperla - una secolare tendenza alla disgregazione della formazione territoriale aquileiense, che venne peraltro a compimento nel secolo successivo ad opera di Venezia, interessata al controllo delle vie commerciali che conducevano Oltralpe e alle zone costiere dell'Istria.
Il governo del patriarca torriano non fu sempre ben accettoll e soprattutto il favore accordato alle proprie clientele lombarde gli costò l'ostilità dei feudatari e dei Comuni friulani, come dimostra, fra i tanti, un episodio avvenuto a Gemona nel 1292: un nipote del D. che rivestiva l'ufficio di capitano, fu ferito da alcuni cittadini, e il patriarca represse duramente i colpevoli e stroncò sul nascere successivi tentativi di ribellione. A forse da ricondurre alla volontà di colpire Gemona - pur favorita da altri provvedimenti del D. - il noto episodio registrato dalle fonti e dai cronisti: nel 1297, in un campo presso la città, il D. piantò una croce dichiarando solennemente di voler erigere in quel luogo un nuovo centro abitato ed un mercato, che avrebbero assunto il nome orgoglioso di "Milano di Raimondo". Peraltro, la politica del D. favorì i Comuni friulani, ai quali accordò dazi e proventi, franchigie e autonomie; edificò le mura a Tolmezzo, approvò gli statuti di Sacile, restaurò e fortificò San Vito e Tolmino. La città di Udine, dove il D. risiedeva, continuò ad accrescere la sua popolazione sotto il governo del D. e si arricchì di edifici e palazzi che egli vi fece costruire.
Fu soprattutto il sentimento dell'onore e della potenza della domus torriana, prima e dopo i rovesci militari del 1277-1281, che ispirò costantemente gli atti del presule torriano, dagli inizi della carriera ecclesiastica fino alla promozione all'importante cattedra aquileiese. Questo traguardo si proiettava, nelle speranze del D., in un futuro dominato dalla prevalenza dei Torriani a Milano e in Lombardia. Gli eventi furono invece meno propizi alla consorteria milanese, e il patriarcato di Aquileia divenne in un primo tempo una fonte di risorse militari e finanziarie per la famiglia, e in seguito un rifugio e un terreno di conquista per una numerosa e agguerrita colonia lombarda, che scalzò la tradizionale preminenza dei Toscani in Friuli.
Sin dall'epoca delle prelature lombarde e durante il governo patriarcale in Friuli, l'attività pastorale ed ecclesiastica dei D. non ebbe grande spicco, sempre subordinata alle preoccupazioni del governo temporale. Negli anni meno tormentati del suo governo ecclesiastico e civile il D. ebbe modo di lasciare la sua impronta di "gran costruttore, principe splendido" (C. Baroni): a Monza, ad esempio, dove contribuì a ricostituire il tesoro disperso del duomo e dove costruì edifici e palazzi. Tuttavia, le necessità politiche e militari condizionarono e limitarono la sua munificenza: a Como concesse in feudo molti beni della mensa vescovile, procurandosi con questo mezzo vassalli e clientele armate. Lo stesso tesoro di Monza fu impegnato dai Torriani nel 1273, forse per sostenere le spese del grandioso ingresso del D. ad Aquileia. Il D. ebbe, ovunque si recasse, residenze sfarzose e splendidi palazzi; la sua residenza milanese nel vasto quartiere torriano fra S. Fedele e porta Nuova dovette distinguersi per magnificenza e splendore: nel 1271 il D. vi ospitò il re di Francia di passaggio a Milano. Nel 1283 il D. impegnò il palazzo con tutte le pertinenze nonché le possessioni nel Comasco, per 10.000 lire di mezzani, che restituì alla sua famiglia, probabilmente a compenso delle spese sostenute per il suo ingresso ad Aquileia, o forse per finanziare la guerra in corso contro Venezia.
L'indole bellicosa, la smisurata ambizione all'incremento della potenza della sua famiglia, l'inclinazione alla vita sfarzosa e al lusso furono i lati negativi della sua personalità; tuttavia il giudizio unanime dei contemporanei e degli storici gli riconosce una grande severità dei costumi, un carattere forte ed energico e indubbie qualità politiche, che ne fecero uno dei personaggi di maggior spicco della casata torriana.
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