DELLA TORRE, Raimondo
Figlio di Francesco e di Laura d'Arco, nacque attorno al 1555 (v. voce del padre, ambasciatore cesareo a Venezia, per notizie sulla famiglia).
È quel "Raimundus puer" nominato nell'ultimo verso d'un'apostrofe rivolta al padre dal letterato comasco Publio Francesco Spinola, che Bernardino Regazzola - celebrando nell'orazione funebre la figura paterna - designava quale "cum quinque puellulis marem unicum Raymundum optima indole puerum". Orfano d'entrambi i genitori in tenera età, venne perciò, affidato ai tutori. Purtroppo il migliore tra questi, Teobaldo Teobaldis, per contrasti con altri, rinunciò, sì che finì col prevalere la tutela interessata del cugino Mattia Hofer figlio della sorella di suo padre, che il D. accuserà d'aver messo mano nelle sue sostanze amministrandole a proprio vantaggio. E il D. col tempo pupillo sempre più diffidente, si svincolò, appena possibile, da una tutela cosi ingombrante esigendone il rendiconto.Unico erede di prestigiosa famiglia, il D. doveva essere già autonomo quando capeggiò la nobile comitiva di quattrocento cavalieri recatasi ad incontrare l'arciduca Carlo in prossimità di Gorizia. Effimero capo da parata nell'omaggio all'arciduca, fu, invece, nella giurisdizione, trasmessagli dal padre, su Cormons che il D., volendo comandare veramente, s'abbandonò, non senza tracotanza, a gesti d'imperio.
È del 1572 un suo proclama contro il podestà Carlo Pontebus e i dodici del Consiglio comunale per ostacoli frapposti a lavoranti d'una sua tesa, e sempre nel 1572 riuscì ad ottenere, con un atto sottoscritto, il 1° aprile, dal podestà e dai nobili e privilegiati del luogo, l'utilizzo di quei boschi per la legna necessaria pel suo castello di Vipulzano. Prime avvisaglie d'un'accesa tensione - durante la quale il D., anche se talvolta redarguito nelle disposizioni arciducali, ora minaccia la prigione, ora arresta il podestà, ora fa irrompere soldati che sparano a scopo intimidatorio - dalla quale egli esce vincente a danno dei margini d'autogoverno, fondati sulle consuetudini, sullo statuto, sulle concessioni. Infatti, nell'investitura del 5 marzo 1604, l'arciduca Ferdinando gli riconosce la seconda istanza nelle cause, il diritto di nomina del cancelliere, la facoltà di costruire ad uso civile, l'autorità "super nobilibus" locali. E la successiva convenzione del 27 giugno 1623 sara una vera è propria sottomissione, quasi una capitolazione a suo vantaggio: preve de la presenza di quattro giurati eletti dal "giusdicente", cioè il D., nelle sentenze civili e criminali; esclude dal Consiglio i nobili provinciali e include, invece, il rappresentante del D., cui spetta, inoltre, la decisione in fatto di fabbrica delle prigioni e d'udienze da tenersi nella loggia restauranda. Un sistematico ampliamento d'attribuzioni che resterà valido per gli eredi e che farà definire Cormons "signoria con mero e misto impero della casa della Torre" (in A. dall'Agata, Gorizia in giubilo per V ... arrivo dell' ... imp. Carlo VI..., Venezia 1728, p. 53).
Parallelamente colla smania, evidente nella vicenda di Cormons, di riempire con autentici contenuti di potere le altrimenti labili prerogative feudali, il D., come suddito, vuole figurare nelle scadenze celebrative, distinguersi nei servizi di lusso, sfoggiare e vesti e servitù. Se nelle sue terre ama il comando, a corte desidera farsi apprezzare come cortigiano. Le occasioni non mancano: è coppiere dell'arciduca Carlo; il 26 ag. 1571, in veste di maresciallo di Gorizia, è alla testa dei gruppo di cavalieri giunti ad assistere alle nozze di questo con Maria di Baviera; è al seguito di Carlo quando si reca a presenziare all'incoronazione, del 26 sett. 1572, del nipote Rodolfo a re d'Ungheria; è nel novero di quanti accolgono, pomposamente, il 24 giugno 1574, Enrico di Valois a Vienna; nelle esequie dell'imperatore Massimiliano II, morto il 12 ott. 1576, regge lo stendardo della contea di Gorizia; nel 1582 accompagna, con nutrito corteggio di servi vestiti alla tedesca, Carlo alla Dieta d'Augusta. Ma il D. non è solo presente nella liturgia di corte. A anche seriamente impegnato, in Croazia, nella lotta contro i Turchi, cui partecipa con un centinaio di cavalieri assoldati a sue spese; ed è in questa che, mentre si prodiga per sedare un tumulto degli Uscocchi, una fucilata lo ferisce alla gamba.
Nel frattempo, i già aspri dissapori col cugino Mattia Hofer - che, consigliere arciducale e capitano e signore pignoratizio di Duino, è uomo influente - divampano ancor più forti per la caparbia determinazione, da quello contrastata con pari tenacia, del D. di sposarne la figlia Ludovica. Insensibile ai suggerimenti e alle pressioni più autorevoli, Hofer rifiuta, nel 1573, di sottoscrivere il contratto nuziale, mantenendo quest'atteggiamento anche negli anni successivi. In compenso il D. è appoggiato dall'arciduca Carlo il quale, il 12 febbr. 1579, chiede al papa Gregorio XIII la concessione della dispensa - questa è necessaria: Ludovica è "tertio gradu consanguinitatis iuncta" al D., ché Chiara Della Torre, sua nonna paterna, è, pure, zia paterna di questo - nell'auspicio le nozze fughino "nes lites et differentias ... hucusque" intercorse. Si verifica, quindi, la clamorosa fuga di Ludovica da Duino per riparare, presso il D., a Vipulzano; e, una volta pervenuta la dispensa papale, i due si sposano. Furibondo Hofer intenta un inutile processo per ratto contro il genero e - fatta salva la legittima, nel testamento del 17 febbr. 1585 - disereda la figlia. Ancora una volta interviene, con tutta la sua autorità, Carlo, il quale invia espressamente a moderarne le ire il suo consigliere intimo e presidente della Camera inferiore dell'Austria Giovanni Cobenzl. Questi, adoperando tutte le accortezze della più affinata capacità di mediazione, riesce a convincere Hofer a modificare, con un codicillo del 28 ott. 1586, il testamento, sì che Ludovica v'è reintegrata erede della metà dei suoi beni, spettando l'altra metà alla sorella Chiara.
Così il D. (nel frattempo uno dei deputati degli Stati provinciali agli affari camerali, alla correzione degli abusi amministrativi e al controllo delle finanze), alla morte dei suocero, toccando a sua moglie, nella divisione, il pegno dei castello e della signoria di Duino, ne viene investito, coll'aggiunta della nomina a capitano, da Carlo il 26 apr. 1587. Inserito, accanto al proprio, lo stemma degli Hofer e col cognome di Della Torre-Hofer Valsassina, il D. diventa (così dai versi d'Erasmo di Valvasone), dunque, signore di "sublime rocca", dove ama occuparsi dell'allevamento di cavalli: suo vanto, infatti, "nutrir gran razza di cavalli egregi", arditi, veloci, in grado di superare "tutte le prove". Non altrettanto soddisfacente il rapporto con Trieste con la quale si mette subito in urto per delle vigne piantate dai suoi in un terreno controverso.
"Insopportabile insolenza" quella dei Triestini che denuncia, nel sett. del 1588, all'arciduca non senza osservare che essi, a suo avviso, godono di troppa libertà. Indigesta pel suo orgoglio la pertinenza triestina di Canovella che veramente rivendica come "cuore e ornamento di Duino", altrimenti solo "vestito dei suoi sassi". A lui grato, invece, perché occasione di burbero comando sulla città invisa, il compito di polizia affidatogli da Carlo: egli, allora, ristabilisce a Trieste la quiete pubblica cacciando energicamente i malviventi, per lo più banditi dallo Stato pontificio, che la turbavano.
Lungi dal rinchiudersi nell'angusto spazio duinate, il D. nel 1590 assiste Carlo moribondo e presiede alla regia delle esequie. Nominato dalla vedova Maria luogotenente di Gorizia, nel 1592 accompagna a sue spese in Polonia Anna, figlia di quella e di Carlo, sposa del re Sigismondo III. Nel 1593-94 il D. è tra i fautori d'una consistente presenza cappuccina a Gorizia- si sobbarca, nella costruzione della chiesa, le spese del coro e viene altresì preposto alla riscossione degli arretrati da parte dei donatori - c'era stata una sorta di sottoscrizione a vantaggio dei frati - non in regola coi versamenti. Nominato, intanto, ancora nel 1592 (anno alla fine del quale si reca a Parma ed Urbino a sollecitarvi aiuti contro il Turco), ambasciatore cesareo a Venezia, il D. vi soggiorna - non senza intervalli, specie nel 1595, quando, nel maggio, s'assenta "per ricreatione" e, tra la seconda metà di luglio e i primi d'agosto, per ordine imperiale fa "un viaggio in Italia" e quindi, più a lungo, tra l'ottobre e il dicembre, per "alcuni" suoi "particolari negoci" cui s'aggiungano "gagliarda doglia di schena" e il ritardo, nel rientro, dovuto al maltempo - dalla fine del 1593 o inizio del 1594 (è del 4 gennaio la sua prima comparsa appurabile in Collegio) sino al 16 febbr. 1596.
Ora protesta per ostacoli frapposti dai Gradensi a "quelli di Fiumicello" che pascolavano in "luoghi", a suo parere, "indubitati di Sua Altezza" l'arciduca, ora chiede il rilascio di merci e imbarcazioni sequestrate, ora insiste per la liberazione di "poveri redenti" per contrabbando, di "poveri pescatori", specie fiumani, a suo giudizio innocenti. Invano il D. si sforza di sensibilizzare la Repubblica alle necessità della lotta antiturca che l'Impero sta sostenendo, invano s'ingegna di indurla ad un concorso finanziario. Questa si limita a suggerire il trasferimento massiccio "alla guerra di Ungheria" di tutti gli Uscocchi, fomite di costante attrito tra Venezia e Vienna, ché ad ogni loro rapina segue puntuale la ritorsione veneta; tant'è che più volte il D. reclama per l'operato del capitano contro gli Uscocchi Almorò Tiepolo ed esige, il 7 marzo 1595, "si levino subito" le "galere et barche armate" attuanti una sorta di blocco nei "contorni di Segna". Né -accoglie la proposta di trasferirli da questa: premesso che anch'egli "odiava le loro" piratesche "operationi", afferma, tuttavia, che "erano buoni soldati che difendevano la Crovatia et, se non fossero stati loro, Pessina non si saria ricuperata". Ferma, altresi, l'opposizione del D., spalleggiato dall'ambasciatore spagnolo Iffigo de Mendoza, all'erezione, appena avviata, della fortezza di Palma. Ne nega anzitutto l'utilità di sbarramento al Turco, che va fermato ben prima; c'è, semmai, nella malaugurata ipotesi d'un suo "progresso", il terribile rischio se ne impadronisca e l'utilizzi come avanzata testa di ponte. In realtà la costruzione in corso sta assumendo un carattere provocatoriamente antiasburgico, tanto più che il "fosso" pare finisca coll'intaccare "il stato austriaco". La fortezza - così il D. in Collegio il 13 genn. 1594 - reca "molto pregiudicio et offesa alli confini ... della casa austriaca et alli paesi della Stiria, Carintia et Cragno, poiché è fabricata, a punto, in mezzo delli luoghi della Maestà Sua" imperiale "et di Sua Serenità" il doge "et del ser. arciduca" d'Austria. Difficilmente argomenta, una volta ultimata, "si potrà impedire che non seguano ogni giorno disordini et scandali tra li confinanti". E notorio, insiste, che "questa fortezza è tanto vicina alli luoghi di Sua Maestà che la spianata di essa venirà a congiongersi con essi".
Il D. giunge a Roma, al più tardi ai primi di marzo del 1596, in veste d'ambasciatore cesareo presso la S. Sede, preceduto da una lettera, del 17 febbraio, del nunzio pontificio a Venezia, il vescovo di Lodi Ludovico Taverna, il quale rivela lo scopo immediato della sua missione.
Avendo, poco innanzi, l'imperatore Rodolfò II nominato "per suo luogotenente generale in Ongaria contra Turchi" il duca di Ferrara Alfonso II, il D. deve "darne conto" al papa e "insieme procurar" - altrimenti Alfonso d'Este non rispetta l'impegno di portarsi di persona con un nutrito contingente alla guerra - "la renovatione dell'investitura di Ferrara tanto desiderata" dal duca perché possa succedergli anche in quella Cesare d'Este, designato, appunto, come successore nel testamento del 17 lugliO 1595. Un'"instantia", questa di cui il D. è latore, che cozza contro la determinazione pontificia di metter mano su Ferrara: il D. non riesce ad ottenere la benché minima parola tranquillizzante, ed Alfonso, privo della richiesta "sicurtà dei suoi stati", non si muove. Troppo bisognoso, d'altronde, Rodolfò II dell'aiuto romano per appoggiarlo seriamente; né, dopo la morte di Alfonso il 27 ott. 1597, l'imperatore- s'azzarda a sostenere il timidissimo tentativo di Cesare d'insediarsi a Ferrara.
Naturalmente la debolezza dell'atteggiamento imperiale si riflette sulla condotta del D. che dapprima perora con scarsa convinzione, quindi, di fronte alla chiusura di Clemente VIII, lascia del tutto cadere l'infelice "negotio". E, anzi, s'allontana temporaneamente da Roma dove Rodolfò gli ingiunge, il 28 marzo 1598, di rientrare "quani primuni" e senza frapporre "morani"; e la credenziale d'accompagnamento al papa fa pensare che solo ora possa assumere le funzioni d'"orator" a pieno titolo; il fatto, inoltre, che, il 28 apr. 1598, il Senato veneziano deliberi, "dovendo" il D. "partire" da Venezia, di donargli una catena d'oro del valore di 1.000 scudi fa supporre che il D., sino a questa data, abbia continuato a figurare come titolare della rappresentanza presso la Serenissima. Suo compito precipuo richiedere "Pespeditione presta" di "genti" e soprattutto di denaro, laddove Clemente VIII è sempre più deluso dall'assenza di risultati soddisfacenti, è quasi pentito delle enormi somme profuse ("et tout en vain", osserva, ancora il 18 dic. 1596, il cardinale Arnoud d'Ossat scrivendone a Villeroy), è reso diffidente dalle ricorrenti voci di sotterranee trattative volte alla composizione, dubita dell'utilizzo delle somme corrisposte, vorrebbe distribuirle direttamente tramite suoi commissari. Il 6 luglio 1598 Rodolfo - che nelle istruzioni si rivolge al D. quale, oltre che suo rappresentante, "ducatus Carniolae haereditario, curiae praefecto et comitatus Goritiae marshalco heareditario, nostro consiliario" - lo esorta a pungolare Clemente VIII ad esaudire la richiesta di "divortium" di Sigismondo Báthory, dati i pericoli che potrebbero nascere "ex mora" in proposito. Ma ben poco esito hanno le sollecitazioni in tal senso dei D. se egli stesso deve avvisare, il 22 settembre da Ferrara, che "parte dimani" alla volta della Transilvania il gesuita Alfonso Carrillo, inviato da Clemente VIII per persuadere Báthory ad "accomodarsi con la serenissima sua moglie".
Arduo per il D. garantire il flusso dei soccorsi alla guerra assicurando nel contempo il papa - vieppiù sospettoso di trame a sua insaputa, di segrete trattative di pace e perciò incline ad estemporanee iniziative personali - della trasparenza della condotta, militare e diplomatica, imperiale. Indicativo che, mentre il D. s'affanna ad esaltare la "felice nova" della vittoria, del 28 ott. 1599, di Michele il Bravo su Andrea Báthory (è "servitio della cristianità ... opera di Dio per mostrare la sua giustizia", significa "acquisto della Transilvania", è giusta punizione del cardinale ribelle incorso in "errore così grave" per non aver seguito "i paterni raccordi di Sua Beatitudine"), il papa si limiti a farne "un cenno alla sfuggita", brontolando, invece, a lungo perché ha l'impressione d'essere tenuto all'oscuro sui "particolari", appunto "di Transilvania". Ed è curioso - oltre che indicativo d'un confuso intrecciarsi d'appetiti e manovre -quanto riferisce il D. in una lettera del 23 dic. 1600: nel corso d'un colloquio il cardinale Cinzio Aldobrandini, dopo aver deprecata la politica polacca, portato, cosi, il "discorso" sul "governo" della Transilvania, non esita a proporsi quale "governatore" di questa. L'imperatore lo nomini - dice a chiare lettere il prelato allora più che mai mugugnando perché non soddisfatto della sua posizione - e "vedrà che lo servirò bene". Una esplicita avance che il D. caldeggia: il "carico" non potrebbe essere affidato a "soggetto" migliore e, inoltre, si eliminerebbero così i "pericolosi pensieri" - della Polonia. Il D. è talmente scoperto nell'appoggiare la sorprendente autocandidatura del nipote dei papa da far supporre gli sia stato promesso un qualche consistente vantaggio: è "desideroso di gloria - dice del cardinale - et di'mostrare il suo talento, ha spiriti bellicosi et grande inclinatione a questa guerra turchesca et è cosa certa ch'egli è buon austriaco".
Continua, intanto, logorante la petizione d'aiuto: 100.000 gli scudi sborsati da Clemente VIII nel 1602; ma nel 1603 rilutta a rinnovare il versamento, perché pare la somma non sia stata completamente spesa e ci sia addirittura un residuo di 20.000 scudi. Il D., ad ogni modo, l'incalza ad ogni udienza sino ad averne, nell'aprile, la raggelante osservazione che ben poco frutto è stato tratto dai 3.000.000 d'oro corrisposti, sino allora, dalla S. Sede. Una somma enorme specie agli occhi dei parenti del papa desiderosi - come aveva pungentemente notato, in una lettera del 19 apr. 1602, Philippe Canaye de Fresnes - "qu'il pense à eux" piuttosto "qu'à s'embarquer en autre despence" (in Lettres..., I,Paris 1645, p.227). Comprensibile che il D., nel maggio del 1601 mentre attende da Praga l'autorizzazione alla "partita", si agiti e si preoccupi. Le sue "speranze", registra l'ambasciatore veneto a Roma Francesco Vendramin, "nelli aiuti per la guerra di Ongaria pare si siano raffredate assae, non havendo fin hora altro che parole generali dal pontefice"; in assenza di "risolutione alcuna", esse, le "speranze", non possono che andare "fluttuando". E in effetti - sia pure lusingato da un "sontuoso comiato" offerto in suo onore dal card. Pietro Aldobrandini - il D. parte, il 16 giugno, da Roma senza che "dalla bocca" di Clemente VIII sia stata precisata l'entità della cifra chegli s'impegna a versare per la campagna del 1603.
Si ha l'impressione che l'operato del D. venga pesantemente criticato a Praga. Lo si desume dal fatto che Clemente VIII, quasi a scagionarlo, l'elogia calorosamente auspicando, inoltre, il rinnovo della rappresentanza presso la S. Sede. Al che Rodolfo replica, l'8 marzo 1604, non senza una punta di fastidio, che non occorre raccomandargli il D. dal momento che anch'egli lo stima e che non lo rimanda a Roma solo perché lo sa oberato da impegni familiari e desideroso di rimettersi in salute. Futto sta che l'ambasciata romana segna il culmine della carriera politica del D., il quale successivamente pare condurre un'esistenza, più o meno volontariamente, defilata rispetto alla corte. Sfumano, d'altronde, e non per sua colpa, le occasioni d'emergere, sia pure temporaneamente: inviato, nel 1605, a congratularsi col nuovo papa Leone XI, appresane la morte, torna indietro; incaricato antecedentemente, nel 1604, di trattare con Venezia la "vendita de' boschi" di Segna, donde ricavare la somma per coprire le spese del trasferimento degli Uscocchi (una "riduttione", questa "fuori" di Segna, per la quale s'era già fatto il suo nome, come membro della commissione a ciò preposta, ancora nel 1599), il mancato accordo preliminare vanifica il compito prospettatogli. Sgombro, forse suo malgrado, da altri impegni, il D. si occupa delle sue giurisdizioni, riconosciutegli nel 1604, di Cormons, Mariano e Chiopris e riscuote - dopo la permuta fatta, ancora nel 1601, col capitolo aquileiese, cui ha ceduto un affitto di sua spettanza a Villa Corona - i proventi della dogana di San Giovanni in Carso relativamente al transito di merci per Trieste, l'Istria e il "Cragno". Il grosso dei suoi giorni trascorre a Duino, "luogo - spiega Giovan Battista Salvago, il nunzio a Graz che vi sosta durante la visita apostolica ad Aquileia e nel Goriziano - …che ha... in pegno per 120.000 tatari e ne cava 12.000 l'anno". Prima del 1610 gli muore la moglie Ludovica, dalla quale ha avuto ben undici figli. Rimasto vedovo, il risposarsi con Chiara, sorella della moglie, gli si prospetta come la soluzione più conveniente.
Essa è, a sua volta, vedova del barone d'Harrach (col quale, a suo tempo, il D. ha litigato aspramente per la spartizione dell'eredità del suocero), e - grosso vantaggio agli occhi del D. - senza figli. Stando ad un'informazione, del 24 genn. 1611, del nunzio a Graz Pietro da Ponte, Chiara è tutt'altro che sprovvista di beni: "possiede", infatti, "metà" (l'altra è di un suo cugino) del "castello" di "Ranzano" - "nella Carniola", presso il confine col Friuli, poco discosto da Gorizia - con "tre altre villette intorno dette Castagnavizza, Tainnizza et Novella, le quali ... col castello faranno in tutto 1500 anime" di religione cattolica. È altresì impegnata per "recuperar", dai fratelli del defunto coniuge, i "65 mila fiorini della sua dote". Desiderosa - anche se ha oltrepassato la quarantina e l'assodata fama di sterilità alle spalle esclude possa avere, in futuro, figli - di rimaritarsi, nell'estate del 1610 pareva prossima alle nozze con Pirro d'Arco, un "signore assai principale in Trento", ma un deciso intervento del D. sventa la conclusione del "negotio". Egli, anzi, riesce ad indurla a sistemarsi presso di lui. Chiara "vive ... al presente" in casa del D., precisa con un pizzico di disapprovazione il nunzio, e con lui "inangia e suole bene spesso andar in carozza a spasso". Opportuno il matrimonio, a regolarizzare la palese convivenza. Occorre, essendo il D. "cognato carnale", la dispensa papale concessagli - dopo reiterate pressioni dell'arciduca Ferdinando e trattative coi cardinali Borghese e Bellarmino -, il 5 luglio 1612, da Paolo V.Ormai anziano, il D. conduce una vita ritirata, turbata, durante la guerra veneto-arciducale, dal fatto, di cui dà notizia, il 15 ott. 1616, il nunzio pontificio a Venezia Berlinghiero Gessi che "li soldati veneti presero ultimamente nel Friuli" un suo "palazzo che si dice esser luogo bello et di consideratione"; e deve trattarsi, con tutta probabilità, del castello di Vipulzano. Nel 1623 il D. è a Vienna, ove, "non molto ben intentionato" verso Venezia (così, euforicamente, il segretario veneto Marcantonio Padavin), non solo giustifica la condotta del figlio Giammattia, che aveva sequestrato un'ingente partita di "panni et lane di raggion" di sudditi veneti (si veda la notizia datane a Padavin dal Senato, in Arch. di Stato di Venezia, Senato, Secreta. Deliberazioni..., reg. 122, cc. 110v-111r e, per un successivo sequestro in cui hanno a che fare lo stesso e il fratello Francesco Febo, 316), ma esige il rilascio d'una "barca" triestina pur palesemente rea di contrabbando di sale. E a Vienna, di lì a poco, il D., il 17 ag. 1623, muore.
Delle sette figlie avute dalla prima moglie Ludovica Hofer una, Laura, viene destinata al velo, mentre Chiara Emilia muore nubile e tutte le altre si sposano. E precisamente: Maria (che nasce nel 1594) col conte Carlo Della Torre di Sigismondo del ramo udinese della famiglia; Ludovica col barone Costantino di Lamberg; Lucrezia, nel 1608, con Gianfrancesco d'Arco, il quale dovrà lamentare la mancata corresponsione, da parte del D., di 21.000 fiorini di dote contrattualmente stabiliti; Regina Lombarda col conte Ferdinando de Attimis e, vedova di questo, col barone di Kinburg; Chiara col conte Federico de Attimis. Quattro, inoltre, i figli: Francesco Febo, il primogenito, gentiluomo di camera dell'imperatore Ferdinando II, colonnello con accesso al Consiglio di guerra, capitano di Trieste attorno al 1618, sposo di Polissena figlia del barone Giangiorgio di Heisenstein e, una volta rimasto vedovo, sacerdote, Gianfilippo (ma, questo, stando ad A. Geat, sarebbe un figlio naturale del D., frutto del suo soggiorno a Ferrara nel 1598); Giammattia che si sposa con la contessa Giovanna Lantieri di Paratico e, dopo la morte di questa, con la principessa Massimiliana di Lichtenstein e che preferisce, infine, stabilirsi a Krasonitz in Moravia; Raimondo (1605-1634), abate commendatario d'un'abbazia in Alsazia e detentore d'un canonicato nella cattedrale di Trento.
Avvelenatissimo frutto per tutti loro l'eredità paterna, causa di violentissimi contrasti e d'odi prolungati, fornite d'una clamorosa contesa nella quale Chiara Hofer, la matrigna, è un po' vittima, un po' attizzatrice corresponsabile. Essa, donna peraltro decisa nell'esigere il castigo di "chi" lo "merita" e smaniosa di vendicare i "torti" subiti, viene brutalmente cacciata da Duino da Francesco Febo che, furibondo per la sola legittima riserbatagli nel testamento paterno, vi si insedia tracotante non senza accordarsi, però, con Gianfilippo, anch'egli in urto con la matrigna dalla quale, pure - nella donazione, del 1624, che gli riconosce, fatto salvo l'usufrutto vitalizio, il castello duinate - è stato favorito. Inosservate le disposizioni imponenti il suo rientro a Duino, Chiara è perciò costretta a riparare a Sagrado - "suntuosissimo" quivi il "palazzo" della "casa torriana" (Dall'Agata, cit., p. 65) - protetta da Raimondo e Giammattia, suoi interessati paladini. A scorno dei severi divieti ai sudditi arciducali di schierarsi con questi o con quelli, si costituiscono due contrapposte fazioni armate: Francesco Febo e Gianfilippo da un lato, Raimondo e Giammattia dall'altro. E sono soprattutto il primo e l'ultimo i più accaniti nello ammazar gente, i più decisi allo scontro. Nel 1628 Francesco Febo prende a cannonate la casa, a San Giovanni, dei fratelli Sarotti fautori di Giammattia e questi invia, in loro soccorso, quaranta armati che costringono quello a rinchiudersi a Duino, donde Giammattia, che gode dei favori imperiali, è determinato a stanarlo a costo di usare la fanteria di Lubiana, l'artiglieria di Gorizia, le cernide del Goriziano e del Gradiscano. Impaurito, nel 1629, Francesco Febo cede e si rifugia - per sfuggire alle ire del fratello - a Monfalcone, nel territorio, cioè, di quella Venezia da lui combattuta durante la guerra di Gradisca. Una fuga, comunque, che avvia alla soluzione la convulsa vicenda ereditaria. Questa, infatti, si conclude quando, fattisi, loro malgrado, da parte Francesco Febo (questi celebra la sua prima messa il 1:6 marzo 1638) e Raimondo abbracciando la carriera ecclesiastica; è più facile accontentare gli appetiti dei due rimasti in ballo. E, allora, torna valida, per Gianfilippo, la donazione del 1624 di Duino, mentre spettano a Giammattia Vipulzano, Cormons e Ranzano. Ma, quando questi si trasferisce in Moravia, dette giurisdizioni non sono più al centro dei suoi interessil donde la procura, del 19 marzo 1665, alla seconda moglie e al figlio Carlo Massimiliano (1622-1708: sarà cavaliere del Toson d'oro, maggiordomo maggiore dell'imperatrice Eleonora Gonzaga, consigliere imperiale) di vendere, al prezzo approssimativo di 50.000 fiorini tedeschi, Vipulzailo e Cormons; e sarà questo ultimo a vendere, a nome proprio e dei genitori, il 22 marzo 1669, Mariano, scorporata dalla giurisdizione di Cormons, al cugino (un figlio, appunto, di Gianfilippo) Torrismondo Paolo per 500 talleri ". da esser rimessi a Vienna".
Divisi, dunque, dall'eredità - che scatena un'impressionante carica d'odio e violenza - i figli del D., epperò accomunabili - in fatto di religione - da analogia d'atteggiamenti riconducibili all'esempio paterno. Il D., infatti, amò ostentare la propria devozione, la propria vigile difesa dell'ortodossia nei confronti di eventuali infiltrazioni ereticali e soprattutto volle promuovere la presenza dei serviti a Duino: donde l'erezione, avviata nel 1590, d'una chiesa cui Sisto V concede l'indulgenza plenaria, l'edificazione, tra il 1601 e il 1607, del monastero e l'affidamento ai frati dell'insegnamento grammaticale e, pure, teologico, destinato quest'ultimo agli aspiranti-al sacerdozio della sua minuscola signoria. Una presenza nella vita religiosa proseguita soprattutto dal figlio Gianmattia, il fondatore della cappella e del cenobio della Castagnavizza (C. Vascotti, Storia della Castagnavizza, Gorizia [1848]) affidati, nonostante le pressioni dei francescani per impadronirsene, ai carmelitani, il restauratore della vecchia chiesa di S. Maria di Grignano e l'ultimatore del contiguo convento dei minoriti da lui protetti e beneficiati. Indicativo, altresì, che, a vantaggio dei gesuiti desiderosi d'installarsi a Trieste, la vedova del D. - che, nel testamento del 26 ott. 1626, destina alla loro chiesa 1.000 fiorini (R. Colle, Igesuiti a Trieste, in La Porta orientale, XXIX[1959], p. 49) - versi 3.000 fiorini e che 9.000 ne versi Giammattia (D. Rossetti, Cose ... della Società di Gesù in Trieste...,in L'Archeografo triestino, Il[1830], pp. 247 s.), deciso fautore, inoltre, dell'istituzione del loro seminario teologico.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Collegio. Esposizioni principi, filze 8, 9 passim e regg. 10 (da c. 126v), 11 (da c. 4r), passim; Ibid., Senato. Secreta, reg. 92, C. 12v; Ibid., Senato. Dispacci Germania, filze 19, lett. nn. 61, 78; 20, lett. nn. 97, 100; 33, lett. nn. 40, 53, 60; 64, lett. nn. 132, 136, 145 (allegata copia d'una lett. dei D. al consigliere segreto ed aulico G. B. Verda del 21 luglio 1623); Ibid., Senato. Dispacci Roma, filze 36, lett. nn. 79, 82; 37, lett. nn. 5, 7, 48; 41, lett. n. 72; 50, lett. nn. 21, 27, 29, 34, 38, 42, 46; Archivio segreto Vaticano, Nunziatura Venezia, 31, c. 209v; Vienna, Oesterreichisches Staatsarchiv, Staatskanzlei Venedig, fasc. 13, lett. del 7 maggio 1605; B. Regazzola, Oratio ... in funere ... F. Turriani..., Venetiis 1566, cc. non num.; P.F. Spinola, Opera, Venetiis 1563, p.6 della sezione Poematon; E. di Valvason, La caccia..., con annotazioni di O. Marcucci, Bergamo 1593, ff. 47v-48v e nelle "annotazioni" relative alle stanze 189, 194 del canto II; dedicata al D. l'Oratione a Dio per Ridolfo secondo ... imperatore... (Verona 1595; nell'esemplare Misc. 1371-13 marciano la dedica, del 21 marzo 1595, reca all'inizio e alla fine, aggiunto a penna, "in eccellentissimo" quasi a correggere l'"illustrissimo" affibbiato al D.) di Agostino Michiel; A. d'Ossat, Lettres..., a cura di N. Amelot de la Houssaye, III, Amsterdam 1708, pp. 198, 304 (a p. 311 l'espressione citata nel testo: "le comte de la Tour" di cui in IV, pp. 214, 218 è, invece, suo cognato Sigismondo inviato dall'arciduca Ferdinando a Roma nel 1601); Monumenta Hungariae historica, s. 1, V,a cura di E. Simonyi, Pest 1859, pp. 210 s.; XXXII, a cura di E. Veress, Budapest 1906, pp. 644 s.; Docc. ... delle famiglie Strassoldo e della Torre..., Venezia 1863, pp. 53-60; Al pontefice... amb. ven. stroard. in Ferrara, a cura di R. Fulin, Venezia 1865, p.2; P. 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