RAGGI X e raggi γ
Il fisico tedesco W. K. Röntgen, che intorno al 1895 eseguiva delle ricerche sul passaggio della scarica elettrica attraverso ai gas rarefatti (fenomeno estremamente importante, lo studio del quale doveva fornire la chiave delle relazioni tra l'elettricità e la materia), scoprì una nuova radiazione, allaquale si dà il nome di raggi X o di raggi Röntgen, e che suscitò in un primo momento una grande curiosità a causa della possibilità che offriva per la prima volta di vedere e di fotografare attraverso i corpi opachi.
La vera natura dei raggi X è stata lungamente discussa a causa delle grandi differenze presentate dalle loro proprietà rispetto a quelle delle radiazioni allora conosciute: ma sappiamo oggi che questi raggi si possono collocare nella vasta scala dello spettro elettromagnetico, che comprende le onde elettriche, l'infrarosso, la luce visibile e l'ultravioletto, non differendo da quest'ultimo che per la piccolezza della lunghezza d'onda alla quale, del resto, essi devono il carattere speciale delle loro proprietà.
È un po' arbitrario il luogo ove porre l'inizio dei raggi X nello spettro, poiché questo è stato esplorato in modo continuo fino ai raggi ultravioletti che l'ottica già conosceva.
Si può dire che le radiazioni della serie ultravioletta dell'idrogeno si ricolleghino ai raggi Röntgen, rappresentando essi il primo termine della serie K del primo elemento della tavola di Mendeleev. D'altra parte oggi, facendo funzionare delle ampolle con tensioni che possono toccare e anche sorpassare il milione di volt, si sanno produrre raggi di piccolissima lunghezza d'onda che si classificano nella serie dei raggi γ emessi da sostanze radioattive. Se si vogliono definire i raggi X attraverso le strette relazioni ch'essi presentano con gli strati elettronici esterni al nucleo degli atomi, si può fissare il loro limite dalla parte delle piccole lunghezze d'onda alla discontinuità d'assorbimento K dell'uranio, ossia a circa 0,107 unità Ångström (l'unità Ångström equivale a 10-8 cm.).
L'importanza dei raggi X, nelle teorie e nei fenomeni della fisica, non può essere ben compresa se non richiamando alcune nozioni della teoria dei quanti e della costituzione degli atomi.
Le recenti teorie della luce considerano questa come costituita da quanti elementari (v. quanti, teoria dei) o fotoni, l'energia individuale W dei quali è connessa alle frequenze della radiazione dalla relazione di Planck:
h essendo la costante di Planck e ν = c/λ la frequenza della radiazione. Spesso si esprime questa energia W in volt-elettrone, prendendo per unità l'energia che la carica elettrostatica di un elettrone assume sotto l'influenza di una differenza di potenziale di 1 volt.
L'energia di un fotone di luce visibile è in tal modo dell'ordine di due volt-elettrone, quello di una radiazione ultravioletta giunge fino a qualche diecina di volt-elettrone, e infine quello dei raggi X può arrivare a 10.000 o 100.000 volt-elettrone. Siccome i fenomeni quantici, così importanti per la fisica atomica, divengono tanto più appariscenti quanto più l'energia dei fotoni è grande, si comprenderà che lo studio dei raggi X ha potuto divenire) il punto di partenza di molteplici scoperte in questa branca.
I raggi γ, dei quali sarà fatta menzione più avanti, posseggono quanti che possono raggiungere parecchi milioni di volt-elettrone, e nella gamma dei raggi cosmici vi sono radiazioni che mettono in giuoco energie individuali mille volte superiori.
Le moderne teorie considerano gli atomi come costituiti da una carica centrale positiva concentrata in un nucleo, circondato a sua volta da un certo numero di elettroni (v. atomo). L'atomo di un elemento che occupa nella tavola di Mendeleev il posto di numero d'ordine Z contiene Z elettroni che circondano un nucleo, la cui carica positiva è uguale a Ze, e essendo la carica degli elettroni.
Gli elettroni che circondano il nucleo non sono tutti in posizioni equivalenti: essi sono disposti su di un certo numero di livelli energetici caratterizzati dal lavoro necessario per estrarli. Combinando questi diversi livelli si possono ottenere le linee spettrali d'emissione dei corpi. Abitualmente s'indicano con le lettere K, L, M, ecc., i livelli successivi allontanantisi dal centro, e la frequenza di una riga di emissione è in generale rappresentata da una espressione della forma:
che può esprimersi dicendo che al momento dell'emissione di una linea spettrale, un elettrone passa da un certo livello a un altro più vicino al centro. Si rappresenta l'assorbimento col procedimento inverso, ma nel caso dei raggi X e per le condizioni sperimentali ordinarie, un elettrone situato a un certo livello non può essere spostato che a condizione di essere completamente strappato dall'atomo, per la qual cosa occorre un'energia almeno eguale al lavoro di estrazione corrispondente a questo livello.
Emissione dei raggi X. - Da quanto è stato detto si vede che, affinché una sostanza possa emettere raggi X, è necessario che un elettrone sia strappato da uno dei livelli normali dell'atomo; lo spazio vuoto è colmato successivamente da un passaggio di elettroni i quali arrivano dai livelli più lontani. La suddetta condizione risulta soddisfatta:
1. quando gli atomi sono ionizzati da urti sufficientemente intensi con altri atomi, come può prodursi nei tubi a scarica, per raggi X di grande lunghezza d'onda, o per agitazione termica alle alte temperature, per es. quelle delle stelle calde;
2. quando l'estrazione di un elettrone a partire dal suo livello normale e, per conseguenza, l'eccitazione corrispondente degli spettri delle linee che ne risultano, può essere ottenuta a mezzo del fenomeno fotoelettrico. Se un fascio di raggi X di frequenza ν colpisce un atomo, può estrargli degli elettroni appartenenti ai livelli per i quali il lavoro di estrazione W è inferiore al quanto hν del fascio incidente. Un corpo colpito dai raggi X ne emette altri che gli sono caratteristici. Si classificano spesso questi ultimi col nome di raggi X di fluorescenza.
3. quando gli atomi sono colpiti da elettroni veloci, come nel caso del passaggio della scarica nelle ampolle a gas rarefatto o come nei tubi Coolidge a catodo incandescente, dove la tensione applicata serve direttamente ad accelerare gli elettroni prodotti dal filamento (fig. 1). In quest'ultimo caso la semplicità delle condizioni permette di verificare che l'emissione di righe corrispondenti al ritorno degli elettroni su un livello determinato comincia allorché l'energia del fascio catodico eccitatore raggiunge e sorpassa il valore necessario al lavoro di estrazione che definisce tale livello; aumentando il voltaggio applicato si raggiungono successivamente livelli più vicini al nucleo, eccitando ogni volta un gruppo di righe nuovo, di lunghezza d'onda sempre più corta. Al tempo stesso si ha emissione di un fondo spettrale continuo, il cui limite dalla parte delle alte frequenze è legato all'energia degli elettroni eccitatori dalla relazione dei quanti (fig. 2).
La distribuzione dell'intensità in funzione della lunghezza d'onda nello spettro continuo mostra un inizio brusco dalla parte delle piccole lunghezze d'onda, passa per un massimo per ridiscendere lentamente verso le grandi lunghezze d'onda, presentando così una vaga rassomiglianza con l'emissione del corpo nero (salvo che per i raggi X le radiazioni di frequenza superiore a un certo limite non sono rappresentate). Allorché si misura la radiazione in differenti azimut, in rapporto al fascio catodico eccitatore, l'andamento generale dello spettro resta invariabile, ma la forma della curva si modifica; l'irradiazione globale è, in media, di frequenza più elevata in direzione dei raggi catodici. L'energia del fondo continuo è in prima approssimazione proporzionale al quadrato della tensione applicata al tubo, vale a dire che il rendimento del bombardamento dell'anticatodo (rapporto fra l'energia dei raggi X e l'energia dei raggi catodici) è proporzionale alla tensione. D'altronde la radiazione totale è proporzionale al numero atomico dell'elemento emittente.
Quanto alla intensità delle righe corrispondenti a un determinato livello, essa è tanto più grande, quanto maggiore è l'eccesso della tensione applicata su quella minima di eccitazione del livello stesso.
I raggi X prodotti a bassa tensione sono poco penetranti; sono sufficienti pochi centimetri d'aria per arrestarli ed è necessario munire l'ampolla di finestre speciali affinché i raggi ne possano uscire; a misura che la tensione aumenta la penetrazione cresce: verso 30.000 volt si possono cominciare ad utilizzare i raggi per vedere attraverso a corpi opachi, finché a 100.000 volt e più, grossi spessori di metallo sono facilmente attraversati. Torneremo più avanti sulle leggi notevoli e semplici che regolano l'assorbimento dei raggi Röntgen da parte della materia.
Proprietà ottiche e fisiche dei raggi X. - Poco dopo la loro scoperta ci si rese conto che i raggi X differivano profondamente, nelle proprietà, dalla luce; non si poteva notare né riflessione né rifrazione, né polarizzazione e i metodi ottici d'interferenza e di rifrazione, che servono a misurare le lunghezze d'onda, non daranno alcun risultato. Ciò dipendeva in realtà dalla estrema piccolezza della lunghezza d'onda che per i raggi X è quasi 10.000 volte inferiore a quelle della luce visibile.
Interferenze e diffrazione. - Nel 1912 M. v. Laue e i suoi collaboratori ebbero l'idea di sperimentare per la diffrazione dei raggi X le strutture periodiche naturali che presentano gli atomi nella materia cristallizzata. Si sa che gli apparecchi di diffrazione utilizzati in ottica sotto il nome di reticoli (v. reticolo) consistono in una serie di tratti o di punti allineati tracciati su una superficie che si illumina e che, a mezzo di un fenomeno di interferenza, dànno dei fasci luminosi concentrati in certe direzioni. È necessario per questo che la distanza fra i tratti del reticolo non sia molto più grande delle lunghezze d'onda; ora, l'allineamento naturale nei cristalli differisce dai reticoli ottici tracciati dalla mano dell'uomo a causa della distanza piccolissima che si trova essere precisamente dell'ordine di grandezza conveniente per la diffrazione dei raggi X. Allo stesso tempo i cristalli costituiscono dei reticoli a tre dimensioni, il che conferisce loro particolari proprietà. Le esperienze del v. Laue hanno dimostrato che un fascio di raggi X che attraversa un cristallo, si divide in modo da dare su una lastra fotografica, un diagramma regolare di macchie, che dipende dalla costituzione e dalla simmetria del cristallo impiegato; si comprende come si sia così trovato un mezzo potente e prezioso per studiare non soltanto i raggi X, ma tutte le strutture cristalline, e infatti, la cristallografia se ne è trovata completamente rinnovata (figg. 3, 4; v. anche cristalli).
Sir William Bragg e suo figlio hanno dimostrato che un fascio di raggi X di lunghezza d'onda λ, che colpisce una superficie cristallina facendo un angolo θ con essa, si riflette regolarmente, a condizione che valga la relazione
tra λ, ϑ, un numero intero n,. corrispondente all'ordine dello spettro nel reticolo, e la distanza costante d che separa, nel cristallo, i piani reticolari paralleli alla faccia considerata.
Si vede dunque come possa calcolarsi λ se si conosce d e se si misura ϑ (fig. 5).
In seguito si poté ottenere la diffrazione dei raggi X per mezzo di reticoli ottici ordinarî, a condizione d'impiegare questi ultimi sotto un'incidenza estremamente radente; per la grandissima obliquità dei raggi, un reticolo anche abbastanza grossolano (50 a 100 tratti al millimetro) può analizzare radiazioni di lunghezza d'onda inferiori a 10-8 cm. È chiaro che il confronto dei risultati ottenuti da una parte con questo procedimento e dall'altra con la diffrazione cristallina permette di confrontare le distanze reticolari dei cristalli con le distanze conosciute dei tratti di un reticolo tracciato dalla mano dell'uomo.
Si è arrivati infine, con l'aiuto di fessure sufficientemente sottili e con dispositivi appropriati, a ottenere con i raggi X frange d'interferenza veramente analoghe a quelle ben note dell'ottica. La riflessione ordinaria può egualmente osservarsi con i raggi X, se le lunghezze d'onda sono abbastanza grandi e l'incidenza sufficientemente radente, su uno specchio molto levigato.
Le polveri cristalline composte di un gran numero di cristalli microscopici aventi tutti gli orientamenti forniscono, quando sono attraversate da un fascio di raggi X, diagrammi di diffrazione che appaiono su di una lastra fotografica perpendicolare ai raggi come una serie di cerchi concentrici, le posizioni dei quali dipendono dalla composizione spettrale del fascio e dalle costanti cristallografiche delle sostanze (M. de Broglie, 1914).
Si sono utilizzate numerose varianti a questo metodo importantissimo per le sue applicazioni. In particolare, se il mezzo microcristallino presenta un certo grado di orientamento sistematico (foglie metalliche laminate, stirate, materie fibrose, ecc.), i cerchi registrati non presentano un annerimento uniforme su tutte le loro circonferenze e possono ridursi a dei settori più o meno estesi. Si può gradualmente passare al caso di orientazione completa e di un cristallo unico.
Il passaggio di raggi X attraverso sostanze dette amorfe o attraverso liquidi dà origine ad aloni diffusi, di diffrazione. La loro interpretazione, spesso difficoltosa, si deve ricercare nella disposizione degli elettroni nell'atomo, nella disposizione degli atomi nella molecola, e, qualche volta, anche nella disposizione delle molecole nel mezzo. Si possono anche trovare indicazioni analoghe per lo stato gassoso.
Molte sostanze organiche e minerali presentano inoltre un orientamento superficiale, quando esse sono in strati sottili; infine i diagrammi dei raggi X sono preziosi per mettere in evidenza una struttura lamellare delle disposizioni molecolari.
Indice di rifrazione. Polarizzazione. - Con esperienze delicate si può mettere in evidenza un indice di rifrazione definito come per l'ordinario da:
dove λ′ è la lunghezza d'onda nel secondo mezzo. Gli indici sono inferiori all'unità di una quantità compresa fra 10-5 e 10-8. Ne risulta che, passando dall'aria o dal vuoto nei diversi mezzi, un raggio incidente subisce una rifrazione e in certi casi una riflessione totale; per il vetro crown, ad es., l'angolo limite di riflessione totale è di alcuni primi o alcune decine di primi e il fenomeno può essere studiato usando convenienti precauzioni.
Si può egualmente, come dimostrano Siegbahn e Larsson, far cadere un fascio sottilissimo in prossimità dello spigolo di un piccolo prisma di vetro sotto un'incidenza sufficientemente radente; una parte del raggio è totalmente riflessa e un'altra traversa il prisma subendo una rifrazione in senso inverso alla deviazione ottica normale (giacché μ è inferiore all'unità). Variando l'indice con λ si presenta una vera dispersione che dà luogo a uno spettro prismatico come nel caso di raggi luminosi (v. rifrazione; spettro).
L'esistenza di un indice di rifrazione apprezzabile ha per conseguenza una correzione alla forma semplice della legge di Bragg, alla quale abbiamo accennato precedentemente, e che vale soltanto in prima approssimazione. È il fenomeno della riflessione totale che rende possibile l'impiego dei reticoli ottici ordinarî per l'analisi spettrale dei raggi X quando l'incidenza è radente.
La piccolissima differenza tra l'indice di rifrazione dei raggi Röntgen e l'unità è un'ostacolo ai tentativi di polarizzare i raggi X per riflessione, ed a tutt'oggi non è stato possibile osservare il fenomeno della doppia rifrazione.
La teoria indica, pur tuttavia, che la diffusione può fornire un metodo per ottenere raggi polarizzati rettilineamente. Il Barcla ha dimostrato, molto tempo addietro, che adoperando un diffusore costituito da un elemento leggiero ed esaminando la radiazione diffusa in una direzione perpendicolare a quella di un fascio incidente si doveva osservare, e infatti si osserva, una polarizzazione più o meno completa. Utilizzando la diffrazione cristallina in condizioni tali che il raggio diffratto faccia un angolo retto con il raggio primitivo, si può notare un grado di polarizzazione relativamente elevato.
Spettroscopia dei raggi X (v. spettroscopia). - Abbiamo visto che gli spettri dei raggi X si possono dedurre semplicemente dalla conoscenza dei livelli energetici degli atomi; un posto vuoto su di un certo livello permette il passaggio fino a tale livello di un elettrone situato su ciascuno dei livelli più esterni, originando in tal modo una serie di righe di lunghezza d'onda crescenti, caratterizzate dal fatto che esse hanno lo stesso livello di arrivo; si ha così la serie K, la serie L, la serie M, ecc. Per applicare la regola precedente bisogna ugualmente tener conto di una complicazione dovuta al fatto che i livelli sono, fatta eccezione per il primo, divisi in un certo numero di sottolivelli e di una semplificazione dovuta all'applicazione di certe regole quantistiche che limitano il numero delle linee, proibendo alcune transizioni.
I livelli interni degli atomi, quelli che corrispondono all'emissione di raggi X duri, sono indipendenti dallo stato fisico o chimico degli atomi stessi; essi presentano inoltre, quando si seguono attraverso la serie naturale dei corpi semplici, una regolarità notevolissima che è espressa dalla legge scoperta nel 1913 dal Moseley: √ν = A Z + B, dove ν è la frequenza di un livello determinato per un elemento di numero atomico Z; A e B sono costanti. Questa legge generale può essere utilizzata a determinare il numero atomico Z di un elemento; essa ha servito a giustificare l'ordine e la classificazione di Mendeleev ed a scoprire parecchi nuovi corpi semplici, di cui gli spettri di raggi X erano stati previsti.
La relazione di Moseley, mettendo in evidenza delle proprietà atomiche non periodiche, ma regolarmente crescenti, nel sistema degli elementi, ha avuto un'importanza fondamentale nella storia della fisica degli atomi. La legge che è stata enunciata per la frequenza dei livelli energetici degli elementi, in funzione del loro numero atomico, ha naturalmente come conseguenza una relazione dello stesso tipo fra le frequenze delle linee spettrali omologhe dei diversi corpi semplici; è del resto sulle frequenze che Moseley scoprì la legge che porta il suo nome.
Metodi spettroscopici. - Il principale metodo di analisi spettroscopica di un fascio eterogeneo di raggi X deriva dalla legge di Bragg sulla riflessione dei raggi da una faccia cristallina sotto un conveniente angolo. Abbiamo visto che possono soltanto riflettersi i raggi soddisfacenti alla relazione
Una fessura o sistema di fessure definiscono il fascio da analizzare, e, allorché si vuole esplorare una regione spettrale un po' estesa, bisogna far ruotare il cristallo in maniera da offrire ad un gran numero di lunghezze d'onda l'angolo d'incidenza che loro conviene. Considerazioni geometriche semplici permettono di disporre le cose in modo che i raggi riflessi si taglino così da riprodurre le immagini della fessura su una superficie dove può essere posta una pellicola fotografica; ne risultano spettri simili a quello della figura 7. Si può anche porre su queste superficie focali una fessura attraverso alla quale i raggi penetrino in una camera di ionizzazione che riveli e misuri i massimi d'intensità corrispondenti alle righe. Si sono ugualmente utilizzati cristalli curvi, o flessi. Si può ottenere così tutto uno spettro esteso e anche, con opportuni dispositivi, ridurre molto i tempi di posa utilizzando una larga apertura dei fasci incidenti. In genere gli apparecchi per la spettroscopia dei raggi X presentano disposizioni diverse secondo i raggi dello spettro da studiare.
I raggi X di grande lunghezza d'onda non possono essere analizzati che a mezzo di spettrografi nei quali si è fatto il vuoto; la diffrazione su reticoli artificiali e sotto un' incidenza radente conviene qui particolarmente bene per ottenere le righe spettrali. Infine il fenomeno fotoelettrico del quale parleremo più tardi può in egual modo servire alla spettroscopia dei raggi X, e diventa molto prezioso per raggi che, per la loro piccolissima lunghezza d'onda, si rifletterebbero con angoli d'incidenza molto piccoli.
Studio spettrale delle discontinuità d'assorbimento. - Basta interporre sul percorso di un fascio di raggi X, aventi uno spettro continuo, uno schermo contenente un elemento chimico dato, per vedere apparire sullo spettro continuo due zone nettamente separate nel punto corrispondente alla lunghezza d'onda critica. È particolarmente facile di ottenere la discontinuità K: la fig. 6 ne mostra la dentellatura regolare, in funzione del numero atomico dello schermo, conformemente alla legge di Moseley. Il semplice esame di uno spettro di assorbimento può dunque permettere di riconoscere immediatamente quale è il corpo semplice interposto.
Quando si registra uno spettro continuo di emissione di raggi X, l'assorbimento da parte dell'emulsione fotografica dà luogo ad un fenomeno molto appariscente; quando si traversano le loro discontinuità, il bromo e l'argento dello strato sensibile intercettano bruscamente una quantità di energia più grande per le radiazioni dello spettro continuo di lunghezza d'onda più corta. Questa energia dà luogo ad effetti fotografici e le zone di assorbimento del bromo e dell'argento si traducono così sullo spettro con un maggiore annerimento, contrariamente all'azione che produrrebbero gli stessi corpi se fossero impiegati come schermi (v. figg. 6 e 7).
Le discontinuità di assorbimento, ad eccezione della prima (discontinuità K), hanno una struttura fine, corrispondente ai sottostrati degli elettroni dell'atomo di Bohr; esistono, p. es., tre discontinuità L, 5 discontinuità M, ecc. (fig. 8).
Spettri d'emissione caratteristici degli elementi nella gamma dei raggi X. - Ciò che si è detto mostra che le righe d'emissione sono strettamente legate alle discontinuità d'assorbimento. Perciò si indicano con le medesime lettere le discontinuità ed i gruppi di linee caratterizzati da un passaggio elettronico che fa capo al livello di questa discontinuità, ad es. la serie K, la serie L, la serie M, ecc. La fig. 9 mostra come le serie di linee si dispongono in rapporto ai salti della curva d'assorbimento; la lunghezza d' onda corrispondente alla discontinuità è un po' più corta della riga di più corta lunghezza d'onda della serie (segue da ciò il fatto notevole che si può, con una conveniente energia catodica, eccitare nello spettro continuo d'emissione una radiazione che manca nello spettro di linee emesse nelle medesime condizioni).
Le serie di righe dei differenti elementi presentano tra di loro una grande analogia e le linee omologhe si possono calcolare approssimativamente con la legge di Moseley. La fig. 7 mostra lo spettro del tungsteno (K e L) ove si notano ugualmente le bande d'assorbimento dell'argento e del bromo dell'emulsione fotografica.
La fig. 10 mostra come si dispongano le principali righe delle diverse serie, in funzione del numero atomico. Gli spettri dei raggi X sono spettri atomici nei quali i legami chimici non si manifestano, in prima approssimazione; i loro caratteri presentano, al contrario degli spettri ottici, una variazione regolare e continua in tutti gli elementi della tavola di Mendeleev.
Allorché gli elettroni periferici degli atomi sono messi in giuoco e particolarmente per i livelli energetici più esterni, i fenomeni dell'atomo normale si complicano con l'apparizione di righe di scintilla emesse dagli atomi ionizzati in diversa gradazione, e a poco a poco appare la complessità degli spettri ottici (fig. 11). Con osservazioni accurate si può notare una leggiera influenza dei legami chimici sulla posizione delle discontinuità e delle righe, quando gli elettroni messi in movimento sono assai vicini alla periferia dell'atomo, perché l'energia dei legami molecolari divenga sensibile.
La regolarità con la quale gli elementi sono caratterizzati dal loro spettro di raggi X, e la possibilità di dedurre dallo spettro il numero atomico del corpo emittente, ha permesso di ricercare e scoprire molti elementi che mancavano nella serie naturale dei corpi semplici, come i corpi aventi i numeri atomici 43,72 e 75.
Assorbimento dei raggi X. - Noi insisteremo particolarmente sui fenomeni d'assorbimento dei raggi X, perché essi presentano leggi notevoli e perché essi precisano gli spettri d'emissione di linee e gli spettri corpuscolari derivati dai fenomeni fotoelettrici.
È noto che, per le onde più lunghe dello spettro (infrarosso, spettro visibile, ultravioletto), si osservano dei fenomeni d'assorbimento complicatissimi in cui intervengono gli stati fisici e chimici degli atomi e delle molecole.
Allorché, dopo gli ultravioletti, si entra nella regione intermedia esplorata da Schumann, Lyman, e Millikan, i raggi vengono assorbiti in modo molto considerevole da una sostanza qualsiasi, e lo stesso avviene nei riguardi dei raggi X; ma a misura che la lunghezza d'onda di questi ultimi decresce, si osserva in generale che la trasparenza aumenta rapidamente, sino a presentare la proprietà strabiliante che è utilizzata per osservare l'interno dei corpi opachi. Ma non bisogna trascurare il fatto che l'assorbimento in un dato corpo, quando la lunghezza d'onda diminuisce, presenta una serie di salti bruschi nei quali l'opacità aumenta per ricominciare poi a decrescere; essi si producono quando il quanto di radiazione incidente raggiunge i differenti valori dei livelli energetici dell'atomo e scaturisce qui un nuovo modo d'assorbimento. Per paragonare in maniera semplice l'assorbimento dei diversi corpi, bisogna portarsi in un campo di lunghezza d'onda che faccia intervenire nel medesimo modo i differenti livelli di questi corpi, per es., utilizzare i raggi di lunghezza d'onda abbastanza corta perché i salti K di assorbimento siano stati sorpassati.
La perdita di energia subita da un fascio nell'attraversare uno schermo avviene infatti in realtà in due modi differenti. Una parte dei raggi viene diffusa e rinviata in tutte le direzioni (subendo in certi casi una diminuzione di frequenza che costituisce l'effetto Compton). Un'altra parte subisce quello che si chiama l'assorbimento vero o assorbimento fotoelettrico. Questo assorbimento è caratterizzato dalla cessione di un intero quanto all'atomo assorbente; l'energia di questo quanto è impiegata in parte a lasciare l'atomo in uno stato "eccitato" d'energia più grande e in parte a comunicare a uno degli elettroni degli strati di Bohr una velocità più o meno considerevole che si manifesta una volta uscito l'elettrone dall'atomo. L'assorbimento per risonanza che si rappresenta schematicamente con il trasporto di un elettrone da un certo livello atomico fino ad un altro livello più distante dal centro, e che è legato con la frequenza di "linee di assorbimento" poiché si tratta di energia perfettamente determinata, ha per i raggi X solo una importanza secondaria. Linee di assorbimento si hanno solo nella immediata vicinanza delle discontinuità critiche e sono da considerare come residuo di fenomeni ottici.
I coefficienti di assorbimento sono definiti dalla ben nota legge esponenziale
che lega l'intensità Ix dopo traversato uno schermo di spessore x all'intensità iniziale I0.
Per distinguere tra gli assorbimenti dovuti alla diffusione, σ, e all'effetto fotoelettrico, τ, si pone:
e vengono introdotti i coefficienti massici, dividendo i coefficienti precedenti per la densità ρ
Questi coefficienti sono costanti per un medesimo elemento, qualunque ne sia lo stato fisico e chimico.
La teoria classica della diffusione di J. J. Thomson portava a trovare per il coefficiente di diffusione riferito all'unità di massa un valore σ/ρ dell'ordine di 0,2 per tutti gli elementi (salvo che per l'idrogeno, nel qual caso esso deve prendere un valore doppio perché il numero atomico è eguale al peso atomico) e per tutte le lunghezze d'onda purché piccole in rapporto alla dimensione dell'atomo. L'esperienza verifica abbastanza bene la formula di Thomson per i raggi X di lunghezza d'onda media, ma per le grandi e piccole lunghezze d'onda l'esperienza fornisce dei valori molto diversi che possono essere anche molto più piccoli nel caso di raggi durissimi.
Effetto Compton. - Gli elettroni degli atomi diffusori divenuti essi stessi centri di vibrazione riemettono onde della stessa frequenza dell'onda incidente. Se questa non è polarizzata, l'intensità diffusa in una direzione formante un angolo ϑ col fascio primario è:
Le formule della teoria elettromagnetica di J. J. Thomson sono verificate nelle grandi linee dell'esperienza; però, per i raggi di lunghezza d'onda inferiore a 0,1 Å e per i raggi γ, σ/ρ diminuisce di molto, mentre la frequenza dell'onda diffusa differisce da quella dei raggi incidenti. Il fenomeno noto sotto il nome di effetto Compton dà la spiegazione di queste divergenze e presenta grande interesse teorico. Esso consiste in ciò che una parte dei raggi subisce una diffusione con cambiamento di lunghezza d'onda con un meccanismo del tutto diverso da quello previsto dalla teoria elettromagnetica. Se si prende lo spettro dei raggi diffusi da un corpo di piccolo numero atomico irradiato da una radiazione monocromatica, lo si trova composto di due righe, la riga della diffusione normale con frequenza non modificata e un'altra di lunghezza d'onda più grande; la differenza di lunghezza d'onda è funzione dell'angolo di diffusione. L'intensità di questa seconda riga è tanto più grande quanto più i raggi sono di corta lunghezza d'onda e quanto più piccolo è il numero atomico del diffusore. Per i raggi γ la diffusione Compton è completamente dominante.
La fig. 12 mostra lo schema della spiegazione adottata; l'elettrone colpito dal fotone primario è proiettato e prende un'energia cinetica che, divisa per h, misura l'abbassamento di frequenza del fotone diffuso.
Il calcolo mostra che
m essendo la massa dell'elettrone; il fattore h/mc, caratterizzante il cambiamento di lunghezza d'onda per una diffusione ad angolo retto, vale 0,0242 Å. È da notare che λ′ − λ non dipende né da λ né dalla natura del diffusore. L'esperienza ha confermato numericamente queste previsioni e verificato inoltre l'esistenza degli elettroni di rinculo, che le osservazioni mostrano nella camera di Wilson (v. radioattività), con delle energie cinetiche dell'ordine di grandezza voluto.
Una formula alquanto complicata, dovuta a Klein e Nishina, permette di calcolare l'energia diffusa in una direzione data con l'effetto Compton e perciò di trovare in funzione della lunghezza d'onda incidente l'indebolimento del fascio che traversa uno schermo questa formula assai ben verificata dall'esperienza e qualche volta estrapolata in casi in cui la sua validità è dubbia, è spesso il solo mezzo d'avere un'idea della lunghezza d'onda di una radiazione molto penetrante di cui è noto l'assorbimento.
L'assorbimento fotoelettrico, elettroni secondarî, spettri corpuscolari. - Ritorniamo ora all'assorbimento fotoelettrico. Esso ha grande importanza a cagione della sua variazione regolare ed è la causa principale della perdita d'energia dei raggi nel passaggio attraverso la materia, almeno per raggi non molto penetranti. La legge generale di assorbimento enunciata per la prima volta da Bragg e Peirce si presenta in prima approssimazione sotto la forma:
dove A è il peso atomico dell'elemento, C è una costante che non varia nell'intervallo fra due discontinuità di assorbimento consecutive; il suo valore subisce un brusco salto allorquando si traversa una di queste ultime. Allorché un fascio di raggi X di frequenza ν = c/λ incontra un gruppo di atomi, una parte dei raggi incidenti subisce l'assorbimento fotoelettrico, caratterizzato dal fatto che l'elettrone degli strati di Bohr è estratto dall'atomo e proiettato con una certa velocità.
L'esperienza ha mostrato che la legge di Einstein si applica molto esattamente a questi casi. Essa ci dà: energia cinetica dell'elettrone = quanto del raggio incidente − lavoro d'estrazione dell'elettrone.
L'energia cinetica dell'elettrone deve essere valutata a mezzo delle formule relativistiche; se si tratta, ad esempio, d'un elettrone K la relazione precedente si esprimerà con:
formula nella quale β = v/c, e Wk è l'energia del livello K uguale al lavoro d'estrazione. Occorre dunque, affinché il fenomeno si produca, che hν sia più grande di Wk.
Se il fascio incidente ha una lunghezza d'onda sufficientemente piccola, si vede dunque che tutti i livelli potranno essere attaccati e che ne risulterà l'uscita di gruppi di corpuscoli a velocità determinate formanti uno spettro corpuscolare caratteristico, che si potrà analizzare per mezzo di un campo magnetico appropriato. Si ha dunque qui un metodo nuovo per determinare i valori di Wk delle energie dei livelli e, in seguito, di valutare il comportamento spettrale completo di un corpo semplice. Il distacco di un elettrone lascia l'atomo in uno stato eccitato; esso ritorna allo stato normale emettendo raggi X caratteristici che agiscono essi stessi sulla materia circostante producendo un effetto fotoelettrico, che dà elettroni animati d'energia determinata, i cui valori saranno eguali a
e ciò è quel che si osserva negli spettri corpuscolari sperimentati (fig. 13). T. Auger ha mostrato per mezzo di esperienze con la camera di Wilson che elettroni di questo tipo possono essere emessi direttamente dagli atomi eccitati senza che si possa constatare all'esterno emissione di raggi caratteristici. Si può dire che questi raggi subiscono un assorbimento interno; il fatto constatato è che l'energia disponibile può apparire sotto forma elettronica. Il fenomeno fotoelettrico si osserva facilmente col metodo della condensazione di nebbia sulle traiettorie dovuto a Wilson. Lo si osserva isolatamente su ogni atomo che lo presenta; noi vedremo più tardi che è unicamente all'azione ionizzante di corpuscoli così emessi che si deve riferire la conducibilità presentata dal gas sotto l'influenza dei raggi X (fig. 14).
Noi dobbiamo confessare la nostra completa ignoranza riguardo alle condizioni che determinano sia l'effetto fotoelettrico, sia la diffusione, sia l'assenza d'ogni interazione al momento dell'incontro di un atomo e di un quanto di luce, e parimenti non abbiamo alcuna idea del meccanismo con il quale hanno luogo questi distinti fenomeni. Si sa che le teorie più moderne arrivano al punto di impedire ogni rappresentazione esatta e non ammettono come conoscibile che la probabilità, perché tale effetto possa manifestarsi. Noi ignoriamo egualmente dal punto di vista sperimentale che cosa avverrebbe all'incontro di un fotone e di un elettrone libero, di modo che noi non sappiamo se l'organizzazione dello spazio che regna intorno a un nucleo atomico è necessaria per un'interazione di questo genere.
Nessuna parte della fisica fa forse meglio risaltare insieme la profondità e la delicatezza delle nostre conoscenze nel medesimo tempo che la grandezza di ciò che ci sfugge.
Degli elettroni proiettati dall'effetto fotoelettrico è possibile osservare, oltre all'energia e alla velocità, anche la direzione con cui essi escono dall'atomo. È stato notato sin dal principio il fatto, che il numero degli elettroni proiettati nel verso della propagazione della luce incidente è più grande che nel verso opposto. Quando si tratta di raggi di altissima frequenza, la presenza degli elettroni di Compton, la cui proiezione in avanti è carattere essenziale, può far nascere qualche dubbio sulla conclusione relativa ai fotoelettroni; ma si è potuto riconoscere che questi hanno ugualmente una leggiera tendenza ad abbandonare l'atomo nella direzione di propagazione dei raggi incidenti; la registrazione fotografica degli spettri corpuscolari mostra questo fenomeno mettendo egualmente in evidenza il fatto che la maggior parte degli elettroni è emessa in direzione presso a poco normale ai raggi incidenti.
L'osservazione delle traiettorie nelle fotografie prese con il metodo della nebbia e l'impiego di raggi che presentano una notevole polarizzazione, conducono a risultati più completi, permettendo di osservare l'angolo che le velocità iniziali dei corpuscoli fanno col vettore elettrico dell'onda incidente. Bisogna considerare l'angolo ω della velocità iniziale dell'elettrone uscente con il prolungamento del raggio incidente, e l'angolo ϕ del piano passante per il raggio e la velocità iniziale con il vettore elettrico; i risultati sperimentali sembrano verificare le previsioni teoriche indicando che la probabilità d'emissione in una direzione (ϕ, ω) è proporzionale a sen2 ω cos2 ϕ, vale a dire si concentra intorno al vettore elettrico. Come si è detto vi è per altro una certa preponderanza del numero di elettroni che escono in avanti.
Diversi effetti dei raggi Röntgen. - L'energia raggiante che si propaga sotto forma di raggi X si manifesta là, ove si produce un effetto elettronico "fotoelettrone" o "elettrone Compton"; gli effetti dei raggi X sono in realtà da ricondursi agli effetti di questi elettroni. Ciò è stato messo in evidenza per la prima volta al tempo delle esperienze di Wilson per mezzo delle nebbie di espansione.
I fenomeni prodotti dai raggi Röntgen si riportano dunque a quelli ai quali gli elettroni possano dare origine: azioni chimiche e fotografiche, fluorescenza, ionizzazione dei gas e infine calore, quando l'energia cinetica degli elettroni si è trasformata in energia d'agitazione termica; bisogna aggiungere gli effetti delle radiazioni consecutive al distacco degli elettroni.
Ionizzazione. - Allorché un fascio di raggi X traversa un corpo, degli elettroni secondarî vengono a trovarsi liberi, ma il numero di questi elettroni per unità di volume dipende dalla probabilità con cui un assorbimento si produce, e questa è come noi abbiamo visto funzione del numero atomico del corpo attraversato e contemporaneamente della frequenza dei raggi incidenti; in prima approssimazione lo stato fisico e chimico dello schermo e la temperatura non intervengono.
Quando ci si domanda, p. es., quanti ioni vengono prodotti dai raggi di lunghezza d'onda determinata in un gas contenente atomi di numero atomico dato, bisogna dunque considerare il numero di fenomeni d'assorbimento, di cui ciascuno darà origine ad uno o più elettroni, e il numero di ioni che vengono a prodursi lungo la traiettoria di questi elettroni.
La posizione delle discontinuità critiche d'assorbimento degli elementi contenuti nel gas, in rapporto alla lunghezza d'onda incidente, ha una parte considerevole. Così si trova sperimentalmente che la ionizzazione prodotta dai raggi X di 0,5 Å di lunghezza d'onda può essere 250 o anche 300 volte più grande nei gas pesanti come il C2H5Br e il CH3I, che nell'aria.
Azione fotografica. - I raggi X agiscono come la luce sull'emulsione fotografica, con questa differenza che non sembra esserci soglia d'intensità e che i fasci più deboli agiscono con pose lunghissime.
L'annerimento in funzione della lunghezza d'onda dipende naturalmente dall'assorbimento dei raggi nel film e nella sostanza sensibile dell'emulsione; allorquando si traversano le bande d'assorbimento del bromo e dell'argento, l'intensità registrata aumenta bruscamente, di modo che ne risulta una discontinuità e una banda degradata a bordo netto, nella quale l'annerimento è più grande dalla parte delle piccole lunghezze d'onda, al contrario di quello che si produrrebbe se uno schermo di bromo fosse posto tra la sorgente di raggi e la lastra.
Parecchie sostanze, come il platinocianuro di bario, il tungstato di calcio, il solfuro di zinco, ecc., emettono luce visibile sotto l'azione dei raggi X e possono restare luminosi per un certo tempo; i raggi X producono anche numerosi effetti chimici di cui alcuni si manifestano con variazioni di colore, utilizzabili per la stima delle dosi di radiazione ricevute.
L'azione dei raggi X sulle emulsioni fotografiche è enormemente accresciuta con l'impiego di schermi rinforzatori fluorescenti, la cui azione è soprattutto considerevole per i raggi duri e aumenta quando la lunghezza d'onda diminuisce. Quest'azione rinforzatrice è molto meno energica quando l'intensità diviene debolissima. L'azione dei raggi X sulla materia vivente, la cui importanza è grandissima, non può qui essere descritta.
I cattivi conduttori dell'elettricità e anche i buoni isolanti quali lo zolfo, l'ambra e la paraffina, manifestano sotto l'azione dei raggi X una lieve conducibilità; l'azione sul selenio è stata studiata con lo scopo di farne un metodo di misura; ma essa pone in giuoco, come per la luce visibile, dei fenomeni molto complessi.
Raggi γ (v. anche radioattività). - Si dà il nome di raggi γ alle radiazioni, che seguono i raggi X, di cortissima lunghezza d'onda. Il primo esempio di questi è stato fornito da quella parte dell'emissione spontanea dei corpi radioattivi che non presenta un carattere corpuscolare; facendo passare una scarica elettrica sotto la tensione di parecchie centinaia di migliaia di volt, in adatte ampolle, si producono raggi identici ai raggi γ; le radiazioni così ottenute formano un fondo continuo e non presentano righe monocromatiche.
Infine, in numerosi casi di disintegrazione e di radioattività artificiale e soprattutto tra i raggi cosmici, si trovano radiazioni di tipo γ con un quanto altissimo che può raggiungere milioni e anche miliardi di volt-elettrone.
Raggi γ delle sostanze radioattive. - La radiazione γ, scoperta dal Villard, nei corpi radioattivi accompagna generalmente la radiazione e comprende oltre i raggi X caratteristici degli elementi presenti, altri raggi monocromatici, provenienti dal nucleo degli atomi; alcuni appartengono completamente al campo dei raggi X dal punto di vista della lunghezza d'onda (radio D, λ = 261.10-11 cm., cioè 47.200 volt-elettrone), ma la maggior parte corrispondono a lunghezze d'onda ben più piccole, che nel caso del torio C″ possono discendere sino a 4,7.10-11 cm. (2.600.000 volt-elettrone).
Per il radio l'emissione è dell'ordine del 7% dell'energia totale emessa in seguito a fenomeni radioattivi.
Proprietà dei raggi γ. - I raggi γ possono traversare forti spessori di materia; molti centimetri e anche molti decimetri di piombo ne arrestano una frazione che può essere piccolissima. Dapprima, e fino ai quanti dell'ordine di qualche milione di voltelettrone, i raggi γ sono tanto più penetranti quanto più la lunghezza d'onda è corta. L'assorbimento fotoelettrico esiste sempre ma diviene più raro, la diffusione con cambiamento di lunghezza d'onda per effetto Compton predomina sempre più sulla diffusione classica e proietta elettroni di rinculo di grande energia; questi ultimi possono ionizzare il gas e produrre effetti chimici e fotografici. Infine appaiono fenomeni nuovi, fra i quali si può citare la materializzazione o trasformazione dei raggi γ in coppia d'elettroni positivo e negativo (allorché il quanto sorpassa l'energia necessaria per la creazione delle masse dei due elettroni, vale a dire al di sopra di 1.020.000 volt-elettrone) e le azioni di disintegrazione sui nuclei, per es., lo sdoppiamento dei nuclei di idrogeno pesante e l'emissione di neutroni da parte del berillio.
L'assorbimento dei raggi γ è un fenomeno complesso che porta in causa le diverse reazioni, di cui parleremo, fra questi raggi e la materia; una formula assai complicata data da Klein e Nishina lega il coefficiente d'assorbimento alla lunghezza d'onda dei raggi; essa è stata verificata per raggi di qualche centinaio di migliaia di volt-elettrone, ma è probabile che essa non sia più applicabile per quelle frequenze per le quali i fenomeni nucleari hanno una parte importante. L'effetto calorifico dei raggi γ nello sviluppo totale d'energia di una sostanza radioattiva non è trascurabile; si misura questa azione circondando la sorgente γ con un mantello di piombo di spessore sufficiente (1,5 cm., p. es.) per assorbire una parte importante dell'irraggiamento γ e determinando col calorimetro o con una coppia termoelettrica il riscaldamento che ne risulta. Le misure più recenti (Ellis e Wooster) dànno 8,6 calorie per grammo di radio e all'ora. Le radiazioni γ provengono da regioni atomiche molto più profonde che quelle dei raggi X. La loro origine deve essere attribuita a scambî energetici che si producono nel nucleo stesso degli atomi. Confrontando le frequenze delle diverse radiazioni che provengono da un medesimo atomo radioattivo si ritrova il principio di combinazione (le frequenze ν sono tali che si può raggrupparle in tal modo che, per es., sia ν = ν′ + ν″) e ciò suggerisce che esista nell'interno dei nuclei un sistema di livelli energetici tra i quali si possono produrre transizioni di particelle. Durante le trasmutazioni artificiali si constata spesso la presenza di raggi γ di quanto elevato, per es., quando si bombarda il berillio con particelle α o degli elementi leggieri con deutoni accelerati. È stato segnalato in questi diversi casi la presenza di raggi γ da 5 a 10 milioni di volt-elettrone. Nella radioattività provocata, l'emissione di elettroni è accompagnata assai spesso da raggi γ ancora più penetranti.
Infine i raggi cosmici contengono radiazioni complesse tra le quali figurano raggi di specie γ con quanti elevatissimi; le proprietà di questi raggi sono conosciute ancora molto male.
Spettrografia dei raggi γ. - Nel caso di raggi γ di grande lunghezza d'onda i metodi sono i medesimi che per i raggi X duri; impiegando il metodo del cristallo girevole opportunamente modificato è possibile fotografare linee spettrali fino a λ=0,020•10-8 cm. (610.000 volt-elettrone) ma si è presto arrestati: la formula di Klein e Nishina offre un mezzo di valutazione di frequenze molto utile, ma che implica riserve.
Il metodo più conveniente è la misura dell'energia dei fotoelettroni o degli elettroni Compton proiettati.
Il metodo più generale consiste nel determinare direttamente le frequenze, partendo dalla relazione fotoelettrica di Einstein, trasformando lo spettro γ da studiare in elettroni secondarî in un radiatore i cui livelli energetici sono ben noti. È stata dimostrata la grande ricchezza di linee degli spettri γ dei diversi radioelementi delle famiglie radio e torio; lo spettro naturale delle velocità dei raggi β degli elementi radioattivi dimostra che questi elettroni non sono altro che fotoelettroni eccitati dai raggi γ sugli strati elettronici di Bohr degli atomi pesanti (v. radioattività). Disgraziatamente non si possono collegare che in modo indiretto le intensità osservate delle linee dello spettro corpuscolare, alle intensità primitive delle radiazioni γ eccitatrici.
Al contrario il metodo sviluppato da Skobelzyn, molto meno preciso per quello che riguarda le frequenze, permette di risolvere l'importante problema delle intensità relative delle linee di uno spettro γ: consiste nel fotografare, nella camera di Wilson, le traiettorie degli elettroni di rinculo Compton, in presenza di un campo magnetico uniforme che piegherà tali traiettorie ad arco di cerchio del quale si potrà misurare il raggio sulla fotografia. Si ha inoltre il mezzo di determinare i numeri relativi di elettroni di rinculo prodotti dai diversi fotoni dello spettro.
Il confronto delle intensità delle righe omologhe degli spettri β naturali (eccitati negli strati K, L dell'atomo radioattivo che ha emesso il fotone) e degli spettri secondarî (eccitati in un qualunque elemento esterno all'atomo radioattivo) ha condotto alla conoscenza del coefficiente di conversione interna che esprime la probabilità più o meno grande affinché un fotone γ di una determinata frequenza si trasformi istantaneamente in fotoelettrone nell'atomo radioattivo stesso, oppure, al contrario, si manifesti all'esterno. Da questo punto di vista, differenze assai importanti, il significato delle quali è tuttora oscuro, si manifestano per raggi aventi anche talvolta frequenze assai vicine tra di loro.
Radiologia.
Sotto questo nome vanno tutti quei procedimenti tecnici, in cui, usando i raggi X, si esplorano masse opache alla luce ordinaria. Per lo sviluppo assunto e per l'importanza dei risultati cui ha dato luogo, particolare interesse ha la radiologia medica. Ma va ricordato che la radiologia ha trovato altre applicazioni come, per es., nelle ricerche di difetti nell'interno di masse metalliche o di altra natura, nella ricerca di eventuali rifacimenti di quadri o anche di semplici pentimenti dell'autore, ecc. Qualunque sia l'indagine, il mezzo con cui l'operatore vede la varia opacità per i raggi X delle varie zone dell'oggetto esaminato è lo schermo fluoroscopico o la pellicola fotografica. Gli schermi di rinforzo sono costituiti da supporti, generalmente di cartone, spalmati di tungstato di calcio o platinocianuro di bario, sostanze che divengono fluorescenti sotto l'azione dei raggi X.
La pellicola radiologica viene usata racchiudendola tra schermi di rinforzo, che hanno lo scopo di fornire immagini sufficientemente contrastate con pose non eccessivamente lunghe. La pellicola impressionata viene poi sviluppata, fissata, lavata e asciugata con gli ordinarî mezzi in uso nei procedimenti fotografici.
Radiologia medica. - La ricerca dei corpi estranei e lo studio dello scheletro sono state le prime applicazioni dei raggi X alla medicina: ma già sino dal 1896 C.-J. Bouchard, utilizzando i raggi X a livello del torace, che offre un mezzo di contrasto naturale, sia allo schermo sia alla lastra, studiava con H. Guilleminot i polmoni e il cuore. Nello stesso anno T. Tuffier, radiografando una sonda opaca introdotta nell'uretra, metteva a profitto della radiologia il mezzo più semplice di contrasto artificiale; ma si deve a H. Rieder (1904), con l'introduzione del pasto opaco in radiologia per l'esame del tubo digerente, l'impiego di quella serie di sostanze di contrasto che ora dominano tutti i campi della radiodiagnostica.
Accanto al capitolo della radiodiagnostica si andava intanto sviluppando il capitolo della radioterapia. I primi tentativi di radioterapia risalgono al 1896-97 subito dopo la scoperta di Röntgen, ed ebbero origine dall'osservazione della caduta dei peli in seguito agli esami ripetuti.
L. Freund per primo provocò la caduta dei peli, ma insieme provocava anche un'ulcerazione. Quando G. Holzknecht ebbe introdotto il suo dosimetro (1902) in radiologia, il campo di applicazioni della radioterapia si andò sempre più estendendo, benché già prima L. Despeignes (1896) avesse per la prima volta applicato la radioterapia al cancro; E. Schiff al lupus (1897); V. Ziemssen e H. Albers-Schönberg (1898) alla psoriasi. W. A. Pusey e N. Senn (1902-1903) l'applicarono alla leucemia, ecc. La radioterapia, dominata per tanti anni da un certo empirismo, specialmente nelle misure, oggi è divenuta una vera scienza esatta e noi possiamo, mercé i nuovi mezzi di misura e le nuove scoperte di questi ultimi anni, disciplinare quel meraviglioso mezzo d'indagine e di cura costituito dalle radiazioni Röntgen.
Fondamento comune alla radiodiagnostica e alla radioterapia è la conoscenza dello strumentario necessario per procedere all'esame. Schematicamente noi abbiamo bisogno: a) di un apparecchio generatore di correnti ad alta tensione; b) di un'ampolla o tubo generatore della radiazione Röntgen; c) di accessorî per procedere alle misure e per facilitare e rendere agevoli le ricerche sul malato
La radiazione Röntgen viene generata nei tubi radiologici mediante l'arresto brusco di un fascio elettronico, lanciato a grandissima velocità, contro un ostacolo formato da una superficie metallica. L'ampolla è costituita da un recipiente di vetro (a palla nei vecchi tubi, cilindrico nelle ampolle di più recente costruzione) con due elettrodi: uno che fornisce il fascio elettronico (catodo), l'altro che arresta gli elettroni lanciati a grande velocità (anticatodo). A seconda del modo con cui gli elettroni sono liberati, si possono distinguere due tipi di ampolle: le ampolle a scarica ionica nei gas (ampolle di vecchia costruzione); ampolle termoelettriche di costruzione più recente. Le ampolle ioniche sono costituite da una sfera di vetro in cui si trova gas portato a una rarefazione da un centesimo a un millesimo di millimetro di mercurio e da due elettrodi, saldati sul vetro: nel momento di funzione del tubo l'apparecchio ad alta tensione provvede a stabilire una differenza di potenziale fra questi due elettrodi, che da pochi kilovolt può arrivare anche a 200 kilovolt.
Sotto l'azione di questa differenza di potenziale che si stabilisce tra i poli del tubo, il gas si ionizza, cioè la molecola neutra del gas si divide in ioni negativi e ioni positivi. Gli ioni positivi sono sollecitati a correre verso il catodo e quelli negativi verso l'anodo: le particelle positive viaggiando a grande velocità strapperanno alle molecole neutre altri elettroni che, respinti dal catodo da cui escono anche elettroni sotto l'urto del fascio positivo, formeranno i raggi catodici. Questi, battendo a grande velocità contro l'anticatodo, daranno origine a quelle vibrazioni elettromagnetiche dell'etere che formano i raggi X.
Il riscaldamento dell'anticatodo sotto l'urto è notevole e si provvede a reffreddare il tubo con sistemi speciali sia ad alette sia ad acqua. Dopo un certo tempo di funzione per la scissione delle molecole gassose contenute nell'ampolla, questa si esaurisce e si provvede pertanto con speciali "rigeneratori" a ridare molecole gassose nel tubo. Questo tipo di ampolla, che fino alla scoperta dei nuovi tubi elettronici (Coolidge, 1913) ha dominato in modo incontrastato il campo radiologico, non è che un perfezionamento del vecchio tubo di Crookes che servì al Röntgen per le sue esperienze e nelle quali l'emissione della radiazione Röntgen proveniva dalle pareti stesse del vetro colpito dall'emissione elettronica. Quando si cercò di far concentrare il fascio elettronico su un punto (specchio anticatodico) l'ampolla focus (1896) era ideata; con la costruzione dell'anticatodo di platino (metallo che fonde a 17500) la funzione e la durata dell'ampolla (almeno allora) era assicurata.
Verso la fine del 1912 J. Lilienfeld in Germania e E. Coolidge in America pensarono (indipendentemente uno dall'altro) di servirsi, per liberare gli elettroni necessarî al funzionamento dell'ampolla, dell'incandescenza di un filamento metallico (che nel riscaldarsi emette appunto elettroni): per variare il numero degli elettroni basta variare la temperatura del filamento. Schematicamente il tubo di Coolidge (che oggi si può dire abbia sostituito completamente il precedente) è costituito da un recipiente di vetro (a sfera o cilindrico, come oggi si costruisce più comunemente) in cui è stato praticato un vuoto molto spinto, con due elettrodi (catodo e anticatodo) come nel caso dell'altra ampolla. L'anticatodo che funziona da ostacolo è collegato al polo positivo; il catodo, (formato da un filamento di tungsteno) è collegato con il polo negativo. Quando un circuito accessorio a bassa tensione (6-14 volt) porta il filamento all'incandescenza, vengono liberati elettroni, i quali sotto la spinta della differenza di potenziale tra i due poli dell'ampolla, acquistano una grande velocità e battendo contro l'anticatodo, generano le radiazioni Röntgen. Manca in queste ampolle quella caratteristica fluorescenza verde delle pareti del vetro propria delle ampolle ioniche nelle quali gli elettroni che rimbalzano dall'anticatodo sono attratti dalla carica positiva delle pareti del vetro stesso. Tale fluorescenza invece, nell'ampolla di Coolidge, viene a mancare, data la carica negativa delle pareti e l'alto vuoto del tubo nel quale non avvengono dissociazioni ioniche.
Le radiazioni Röntgen sono della stessa natura di quelle luminose, cioè perturbazioni speciali dell'etere a direzione trasversale: ne differiscono solo per l'enorme frequenza, cioè per la lunghezza d'onda enormemente più piccola di quella delle radiazioni dello spettro visibile.
L'apparecchio, capace di portare i poli dell'ampolla alla differenza di tensione tale da far muovere con grande velocità gli elettroni, si chiama apparecchio ad alta tensione.
Essenzialmente oggi tali apparecchi sono apparecchi a trasformatore: cioè trasformano la corrente ad alta intensità e basso potenziale in corrente a bassa intensità e alto potenziale.
Per poter regolare la tensione ai morsetti del tubo s'impiega in genere un trasformatore in cui, mentre il primario ha un numero fisso di spire, il secondario presenta prese diverse, corrispondenti a un numero di spire più o meno grande. Derivando il circuito, che va al trasformatore dell'apparecchio, al numero minore di spire dell'autotrasformatore si otterranno le tensioni più basse e viceversa. Per poter regolare l'incandescenza del filamento dell'ampolla s'impiega un trasformatore accessorio che riduca la tensione del circuito di alimentazione della rete di distribuzione.
L'apparecchio dev'essere provveduto di strumenti di misura sul circuito a bassa tensione dell'apparecchio (voltmetri e amperometri): di strumenti di misura sul circuito ad alta tensione (i dosimetri servono invece essenzialmente per la radioterapia, come diremo successivamente). La misura sul circuito ad alta tensione si pratica col milliamperometro (apparecchio tarato cioè in millesimi di ampere) posto in serie col tubo e con lo spinterometro. Il milliamperometro misura l'intensità media della corrente nel circuito ad alta tensione: lo spinterometro misura invece la distanza esplosiva (cioè la distanza per ottenere la scarica nell'aria) tra due elettrodi posti ai due poli del circuito; si viene così a misurare la differenza di potenziale nel suo valore massimo. In genere lo spinterometro in uso sugli apparecchi radiologici (uso che del resto per molte ragioni va gradatamente scomparendo) è formato da una punta e da un piccolo piatto; la punta è collegata con il polo positivo. Naturalmente collegato all'apparecchio si deve avere un tavolo di manovra che contenga gli organi di regolazione e di comando a portata di mano e sulla cui costruzione non è il caso qui d'insistere.
Per poter esaminare il paziente nelle varie posizioni di esame e nelle varie incidenze dei raggi è necessario avere due apparecchi: un letto (iposcopio) su cui il malato si può distendere e in cui l'ampolla possa venire spostata in tutti i sensi sotto il suo piano orizzontale; e un apparecchio (camera toracica o ortoscopio) in cui il malato stia in piedi e l'ampolla possa essere mossa in tutti i sensi in un piano verticale.
Naturalmente l'operatore, come il malato, devono essere protetti, non solo dai conduttori ad alta tensione, ma anche dai raggi: ed è perciò che oggi in commercio le ampolle sono del tipo autoprotetto e che il letto iposcopico e la camera toracica portano protezioni di piombo per il radiologo, le cui mani vanno protette da guanti rivestiti di gomma piombifera. La camera toracica porta oggi modificazioni, per cui è possibile (senza servirsi di un altro apparecchio a telaio verticale) allungare i bracci che sostengono la lastra e praticare così anche un esame a distanza (teleradiografia). La camera toracica e il letto iposcopico portano (mediante speciali bracci) lo schermo fluorescente al platinocianuro di bario o al tungstato di calcio (come quelli odierni in commercio); tali sostanze di cui è spalmato lo schermo divengono fluorescenti (in verde o verde azzurro) sotto i raggi X. Anch'essi sono muniti di una lastra di cristallo al piombo per proteggere la faccia dell'operatore. Interponendo una mano fra la sorgente radiogena e lo schermo, questo diverrà fluorescente solo nei punti in cui i raggi lo colpiscono; in corrispondenza della mano i raggi sono intercettati e la mano apparirà in scuro e con le gradazioni di tinta a seconda che si tratti delle parti molli o delle ossa (che assorbono di più i raggi e che pertanto appariranno in nero). Allo schermo fluorescente si può sostituire una lastra sensibile: nel primo caso avremo praticato la radioscopia e nel secondo caso avremo praticato una radiografia. Il radiogramma così ottenuto si sviluppa e si fissa con le solite regole in uso nell'arte fotografica; là dove i raggi sono stati intercettati (ossa) l'emulsione sarà restata bianca, dove i raggi sono passati (e hanno impressionato la gelatina al bromuro di argento) il radiogramma apparirà in nero e con tutte le gradazioni, a seconda dei tratti in cui i raggi hanno più o meno attraversato i tessuti.
I raggi Röntgen, essendo della stessa natura della luce, ubbidiscono a tutte le leggi dell'ottica: essi si propagano in linea retta e perdono di intensità con la distanza (la loro azione varia in ragione inversa del quadrato della distanza). Di ciò naturalmente andrà tenuto conto nel tempo di posa a seconda della distanza dell'oggetto dalla sorgente radiogena. I raggi divergono dal loro punto di origine: le immagini non solo saranno tanto più nette quanto più piccolo è il punto della sorgente (punto focale del tubo), ma l'ombra di un corpo prodotta dai raggi si formerà, come per la luce, in base alle leggi delle proiezioni coniche (v. appresso); l'ombra sarà tanto più grande del corpo quanto più questo è vicino al fuoco e colpito dal fascio divergente.
La permeabilità della materia ai raggi X è in rapporto sia alla durezza dei raggi (che dipende dalla tensione nel tubo), sia allo spessore del corpo attraversato, alla sua densità e al suo peso atomico (legge di Benoist): perciò lo zinco è meno attraversato dell'alluminio e il piombo meno dello zinco. In sufficienti spessori il piombo è completamente opaco.
Così le parti molli saranno facilmente attraversate dai raggi; facilmente saranno attraversati i polmoni aerati; mentre le ossa lo saranno meno facilmente. Quando i raggi X incontrano la materia, dànno origine ad altre radiazioni: raggi diffusi e raggi caratteristici (oltre a produzioni di radiazioni corpuscolari: elettroni). I raggi caratteristici hanno in radiodiagnostica scarsa importanza rispetto ai raggi diffusi: i raggi diffusi si formano specialmente nelle sostanze a basso peso atomico (come nei tessuti) e partendo da tutti i punti del corpo attraversato, finiscono per rendere velati e meno netti i contorni dell'immagine prodotta dai raggi. Ecco perché, quando si pratica un radiogramma, si deve cercare di eliminare questi raggi diffusi e a ciò vale l'artificio, non solo di ridurre il cono dei raggi (cono limitatore), ma anche di usare raggi quanto più possibilmente molli in rapporto allo spessore e alla natura del corpo da radiografare. Specialmente i raggi duri dànno maggiore quantità di raggi diffusi e, avendo una penetrazione maggiore, provocano anche dalla profondità emissione di radiazioni secondarie.
Il miglior modo di evitare le radiazioni diffuse è quello di usare in radiografia il cosiddetto schermo antidiffusore Potter-Bucky, il quale è costituito di numerose e sottili lamelle di piombo montate di coltello, cementate fra loro da uno speciale supporto e alle quali s'imprime durante la posa radiografica un movimento laterale. Tutti i raggi X che non decorrano secondo lo spessore di dette lamelle saranno assorbiti sicché l'immagine - sottraendo una buona parte di quei raggi che ne avrebbero sfumati i contorni - apparirà con maggiore nettezza. Il "potter" va naturalmente posto tra il corpo del paziente e la lastra.
Abbiamo detto che le due operazioni fondamentali in radiodiagnostica sono la radioscopia e la radiografia. Nella radioscopia ci gioviamo del fatto che certe determinate sostanze (platinocianuro di bario, tungstato di calcio) divengono fluorescenti sotto i raggi X; nella radiografia, invece, ci gioviamo del fatto che i raggi X sono capaci d'impressionare una pellicola sensibile al bromuro d'argento. Nella tecnica moderna la pellicola (emulsionata sulle due facce) viene posta tra due schermi cosiddetti di rinforzo, racchiusi nella cassetta radiografica.
Alla domanda quale delle due operazioni sia preferibile in radiodiagnostica, se la radioscopia o la radiografia, si deve rispondere che tutte e due sono necessarie: ognuna delle due operazioni porta con sé i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Sta di fatto che la radioscopia non consente di rilevare i particolari più fini: questo è ormai ammesso da tutti. Viceversa l'esame radioscopico permette di avere sotto gli occhi l'organo in movimento; però l'occhio adattato al buio non ha altro che una visione crepuscolare. Quando vediamo un oggetto alla luce, rivolgiamo e accomodiamo su esso l'occhio in modo che la sua immagine cada nella fovea ricca di coni: ma se la luce è fioca, i coni non sono eccitati e noi siamo ciechi in corrispondenza della fovea stessa. Vediamo l'oggetto allora con la parte periferica della retina, parte periferica ricca invece di bastoncelli i quali si caricano della cosiddetta porpora retinica che funziona come sostanza sensibilizzante. Ma la visione periferica non permette il rilievo di quei particolari che ci dà la visione centrale e pertanto è necessario integrare la visione radioscopica con l'immagine radiografica, la quale sola ci permette di riconoscere i particolari più fini. È qui anzitutto necessario che l'ampolla abbia un fuoco finissimo (per quanto si è detto più sopra) in modo che l'immagine, anche per una distanza non grande tra fuoco e oggetto, risulti ben netta.
Si deve inoltre aver cura di colpire l'oggetto sotto il miglior angolo visuale: non è infatti lo stesso guardare una persona sul davanti o guardarla dall'alto o dal basso. L'immagine dell'oggetto avrà le dimensioni dell'oggetto stesso solo quando l'incidenza dei raggi X sulla lastra è normale con raggi paralleli, cioè con i raggi tutti perpendicolari al piano della lastra, mentre, se i raggi cadono sulla lastra obliquamente, si parlerà di incidenza obliqua. Ma avviene in genere che uno solo del fascio di raggi che colpisce l'oggetto cada proprio normalmente all'oggetto stesso: si comprende quindi che la deformazione mancherà solo in quel punto colpito normalmente, mentre negli altri punti in cui battono i raggi obliqui, l'oggetto risulterà ingrandito e tanto più quanto maggiore è l'obliquità dei raggi stessi. Se dunque interessa un certo punto dell'oggetto, bisognerà che esso venga colpito dal raggio perpendicolare in modo che non subisca deformazioni.
Si può ovviare alla deformazione dell'immagine praticando un radiogramma a distanza (teleradiografia): a metri 2,20 i raggi si possono considerare come paralleli e le deformazioni sono trascurabili. Questa è in genere la tecnica seguita oggi per un teleradiogramma del cuore. Si può d'altra parte per ovviare alla deformazione (quando si voglia, per esempio, studiare appunto il cuore) individuare il raggio normale che esce dall'ampolla e spostare detto raggio parallelamente a sé stesso in modo da condurlo a mano a mano sul contorno dell'oggetto di cui si vuole avere l'immagine. Esistono naturalmente apparecchi speciali (ortodiagrafi) sia per individuare il raggio normale, sia per tracciare i punti successivi del contorno dell'oggetto.
Per evitare ulteriori deformazioni, va tenuto presente che il malato deve mantenere durante l'esame la più completa immobilità e deve rimanere bene aderente alla cassetta radiografica. I radiogrammi possono essere a posa (corta o lunga, da un decimo di secondo a 10 secondi e oltre) e istantanei (tra un decimo e un ventesimo di secondo); naturalmente il radiogramma per essere nitido deve avere un buon contrasto fra le varie parti. A questo scopo si deve sapere scegliere un'adatta durezza dei raggi e un adatto tempo di posa, proporzionale allo spessore e alla struttura della parte da radiografare: il che con i moderni apparecchi è tutt'altro che difficile. Per leggere un radiogramma e poter interpretare le immagini si deve sempre conoscere la tecnica con cui fu eseguito il radiogramma o meglio il senso con cui i raggi hanno attraversato la parte in esame (proiezione). Le parti più vicine alla pellicola sensibile sono più nette, quelle più lontane meno nette e sfumate. In genere per enunciare la proiezione si nomina prima la faccia per la quale entrano i raggi e per ultima quella da cui i raggi escono. Così se si scrive: proiezione della mano dorsopalmare, vuol dire che i raggi entrano dal dorso ed escono dalla palma. Così per il torace: proiezione dorsoventrale, proiezione ventrodorsale; proiezione obliqua anteriore destra e sinistra (meglio sarebbe dire per le proiezioni oblique: obliqua dorsosinistra anterodestra: raggi entrati dal dorso e usciti dalla spalla destra e viceversa per la proiezione obliqua anteriore sinistra: raggi entrati al dorso e usciti per la spalla sinistra). Così per il cranio abbiamo: proiezione sagittale occipitobuccale e frontooccipitale (raggi entrati per l'occipite e rispettivamente dalla fronte e usciti dalla bocca e rispettivamente dall'occipite).
Non va confusa la proiezione (incidenza dei raggi) con la posizione del malato (eretta, supina, prona, ecc.). Se invece di far cadere il raggio perpendicolarmente nel centro della figura, si sposta l'ampolla verso l'alto o verso il basso, cioè verso il cranio o verso i piedi (proiezione utile qualche volta per colpire certi determinati particolari) si aggiungerà la parola cranio o caudale alla frase che indica la proiezione, per es., proiezione del torace caudo-dorso-ventrale (significando che l'ampolla invece di cadere sulla IV dorsale era spostata più in basso in modo da colpire il torace con un fascio obliquo dal basso verso l'alto). Per ogni regione del corpo esistono proiezioni tipiche: così, ad es., per il cranio, cinque almeno devono essere le proiezioni per un esame completo: un radiogramma sagittale, un submento-vertice o assiale, uno laterale e due obliqui.
L'esame dei radiogrammi va fatto con apposito apparecchio a luce regolabile e uniforme chiamato negativoscopio, sul quale va posto il radiogramma da esaminare. Negativoscopî speciali sono quelli che fanno parte del cosiddetto stereoscopio, necessario per osservare gli stereogrammi. Infatti, accanto alla semplice radiografia, deve trovar posto (e la sua importanza va ogni giorno crescendo) la radiografia stereoscopica. Per ottenere una visione spaziale dell'oggetto occorre avere due immagini dell'oggetto, immagini che corrispondono alla visione che si avrebbe rispettivamente con l'occhio destro e con l'occhio sinistro: le due immagini così ottenute vanno disposte sul negativoscopio in modo che quella per l'occhio destro si trovi a destra e quella per l'occhio sinistro a sinistra. La sensazione del rilievo è infatti effetto della visione binoculare, mentre guardando con un solo occhio, la sensazione del rilievo è perduta e ogni occhio vede l'oggetto sotto una certa visuale. In fotografia comune basta prendere due fotografie con due obbiettivi distanziati fra loro di un tratto uguale alla distanza interpupillare (cm. 6,6 circa) e guardare poi contemporaneamente le due immagini con lo stereoscopio che permette di sovrapporle. In radiografia basterà prendere due radiogrammi della parte da esaminare: uno spostando l'ampolla verso destra, l'altro spostando l'ampolla verso sinistra sistemando poi i due radiogrammi in modo che quello ottenuto con lo spostamento a destra corrisponda all'occhio destro e quello ottenuto con lo spostamento a sinistra all'occhio sinistro.
Varî sono i tipi di apparecchi stereoscopici in commercio: il più semplice è quello costruito secondo lo schema di Wheatstone a specchi: i due negativoscopî sono montati sui due lati di un tavolo orizzontale e le immagini radiografiche vengono riflesse da specchi. L'immagine ottenuta spostando il tubo a destra viene posta sul negativoscopio di destra e guardata con l'occhio destro e, viceversa, quella ottenuta spostando il tubo verso sinistra sarà posta sul negativoscopio di sinistra e guardata con l'occhio sinistro. Per facilitare la sensazione del rilievo si potrà porre la lettera V (vicino) sulla parte del malato che guarda l'ampolla e la lettera L (lontano) sulla superficie opposta verso la pellicola sensibile: la lettera D (destro) segnerà il lato destro dell'immagine. Nella visione spaziale la lettera V apparirà più vicina che la L; se si è praticato il radiogramma in proiezione occipitofrontale (la lettera V era sull'occipite), si avrà una visione spaziale per trasparenza attraverso l'occipite. Che se si rovescia la pellicola sul negativoscopio avremo una visione spaziale con la fronte più vicino all'osservatore (L più vicina all'occhio). La visione spaziale sarà anche più evidente e con maggior rilievo (ma in modo non rispondente a verità) se si scambiano i radiogrammi ponendo quello ottenuto con lo spostamento da destra a sinistra (occhio sinistro) e viceversa: il rilievo così ottenuto è detto pseudoscopico.
Per praticare lo spostamento dell'ampolla necessario per ottenere il rilievo si può ricorrere alle tabelle di Ribaut e Marie (che tengono conto della distanza fuoco, oggetto e spessore della parte da esaminare), oppure mantenere uno spostamento fisso di 2 cm. per parte quando si faccia uso del diaframma antidiffusore che rende necessario mantenere una distanza focale fissa di 70-75 cm. (le lamelle del Potter sono orientate in modo che prolungate idealmente in alto s'incontrano verso i 70 cm.: il fuoco del tubo rappresenta quasi il centro ideale di una sfera). La visione radio- scopica (a differenza della stereoradiografica) non è entrata ancora nella pratica radiologica per la difficoltà di costruzione degli apparecchi così come non è entrata nella pratica la radiocinematografia che tuttavia ha ormai raggiunto progressi considerevoli seppure ancora non alla portata di tutti. Comunemente dobbiamo contentarci per registrare il movimento degli organi della radiografia in serie e in commercio esistono ormai diversi tipi di seriografì automatici che permettono uno scambio rapido di pellicole. Per il cuore, speciali dispositivi (chimografi) permettono, mediante lo scorrimento di una pellicola su una fessura, di colpire i successivi movimenti di un punto (o più punti) della figura.
La possibilità di passare rapidamente sugli apparecchi dal regime di "scopia" al regime di "grafia" ha reso possibile di praticare radiogrammi mirati e ciò è specialmente utile nell'esame dell'apparato digerente, dove certe immagini possono rimanere per breve tempo e rapidamente scomparire.
L'introduzione in radiodiagnostica dei mezzi di contrasto ha permesso alla radiologia di fare rapidi progressi e di esplorare i più diversi organi.
Poiché alla base dell'esame radioscopico e radiografico sta la differenza di trasparenza e di opacità fra le varie parti e poiché solo per lo scheletro e per il torace esiste un contrasto naturale che permette di analizzare le varie parti, si comprende facilmente lo sforzo dei radiologi per ottenere preparati capaci di determinare un contrasto là dove appunto questo contrasto manca. Alcune sostanze di contrasto sono più trasparenti dei tessuti (gas, ossigeno): altre sostanze, invece, sono più opache (solfato di bario, bromuro di sodio, ioduro di litio, olî iodati, uroselectan, tetraiodofenolftaleina sodica, ecc.).
Si deve a H. Rieder l'introduzione in radiologia gastrica della pappa di semolino al sottonitrato di bismuto: sostanza che, rendendo opaco il viscere, ha permesso di studiarne lo stampo e nello stesso tempo la morfologia e la funzione. L. Gunther e A. Bachem introducevano più tardi il solfato di bario, sale opaco, più a buon mercato e scevro di quei possibili inconvenienti che il sottonitrato di bismuto qualche volta ha dato. Il solfato di bario si somministra alla dose di 100 grammi per un esame del tubo digerente. Il sale opaco può essere usato nella seguente forma: bolo opaco (un po' di bario in un'ostia per l'esame dell'esofago): pasto liquido o semidenso (sospensione acquosa di solfato di bario: 100-150 g. di bario in 150-300 cmc. di acqua, o pasto al latte: 200 cmc. latte, 200 cmc. acqua, un cucchiaio di zucchero, 100-150 g. bario).
In certi casi può essere utile somministrare la pappa originale di Rieder per cui il tempo di svuotamento dello stomaco si aggira sulle 6 ore (il pasto acquoso si elimina rapidamente): la pappa di Rieder è composta di 40 g. di semolino, un cucchiaio di zucchero, 400 g. di acqua, 100 g. di bario.
Per l'esame del grosso intestino la ricerca va completata con il clisma opaco (100 g. di amido di riso stemperati e cotti in 70 cmc. di acqua, diluire con altri 700 cmc. di acqua e unire 150 g. di bario in modo da ottenere una sospensione perfettamente omogenea). La tetraiodofenolftaleina sodica è una sostanza di contrasto di acquisizione recente e che eliminandosi per la bile permette la visione della colecisti: essa è un composto di iodio (59% di iodio): l'uroselectan (che ha una percentuale del 51,50% di iodio) si elimina invece per i reni e permette di avere una visione non solo dei reni ma specialmente di tutte le vie escretrici: renali, ureterali e vescicali. Il thorotrast, da poco usato per l'epatosplenografia, è una sospensione colloidale di torio che ha un alto peso specifico e che si fissa, opacizzandoli, nel fegato e nella milza. L'ossigeno rappresenta un buon mezzo di contrasto per i polmoni (pneumodiagnostico): l'olio iodato iniettato nella cavità pleurica può essere utile per studiare la distribuzione e localizzazione del liquido nelle cavità pleuriche, nelle raccolte saccate, ecc. Inoltre l'olio iodato iniettato nell'albero bronchiale (sia per via intercricotiroidea sia per via transglottidea) ci permette di avere una visione meravigliosa di tutti i bronchi e scoprire possibili bronchiectasie.
Gli organi genitali femminili possono essere esplorati mediante l'isterosalpingografia iniettando sostanze opache entro la cavità uterina e nelle tube. Lo speco vertebrale può essere studiato con la mielografia sia insufflando aria nel sacco aracnoideo lombare (W. E. Dandy 1919), sia iniettando secondo la tecnica di J. A. Sicard e J. Forestier (1921-1923) olio iodato nello spazio subaracnoideo. I ventricoli cerebrali possono essere esplorati sia insufflando aria nel cavo subaracnoideo spinale (Dandy e, indipendentemente, A. Bingel nel 1921) sia (previa trapanazione del cranio) con l'iniezione di aria direttamente nei ventricoli, dopo avere aspirato liquido cefalorachidiano.
I vasi sanguigni degli arti (arteriografia) sono stati anch'essi esplorati opacizzandoli con ioduro di sodio o con altri preparati (uroselectan, thorotrast): E. Moniz, ha iniziato l'arteriografia cerebrale iniettando sostanza di contrasto nella carotide interna; Reynaldo dos Santos, A. C. Lamas e J. P. Caldas hanno poi (1931) introdotto l'aortografia, iniettando sostanza di contrasto nell'aorta addominale. L'iniezione di gas nelle articolazioni ci permette (pneumoartro) di studiare tutti i componenti dell'articolazione; le vie lacrimali possono essere studiate iniettando con olio iodato le vie lacrimali stesse; le ghiandole salivari sono state opacizzate iniettando pure olio iodato attraverso il dotto di Stenone e di Warthon; l'introduzione di gas nell'atmosfera adiposa perirenale permette di studiare il contorno renale (pneumorene) e colpirne le possibili modificazioni; l'introduzione di ossigeno nel cavo peritoneale permette infine di creare un ambiente di contrasto per cui è data la possibilità di studiare molti degli organi addominali nei loro contorni e specialmente il fegato e la milza che il gas distacca dal diaframma.
Da quanto si è venuto fino qui esponendo, si vede che pochi sono gli organi che sfuggono all'indagine radiologica: là dove le condizioni di contrasto mancavano si sono create artificialmente: tutta la fabbrica del corpo umano ci appare dinnanzi agli occhi come attraverso un cristallo. Ma la radiologia è essenzialmente semeiotica e, a parte qualche caso (come nell'apparato digerente ove la diagnosi, per es., di ulcera, è fatta direttamente), nella maggioranza dei casi la diagnosi è data solo dalla perfetta fusione dei dati radiologici e clinici.
Accanto alla radiodiagnostica si è andata sviluppando la radioterapia. Capitolo senza dubbio importante e complesso perché mentre da un lato il medico deve conoscere tutto l'insieme delle cognizioni fisiche sia nei riguardi degli apparecchi sia nei riguardi delle misure (che qui assurgono a una massima importanza), dall'altro il medico deve far sue tutte quelle cognizioni di radiobiologia strettamente legate con le modificazioni che avvengono in seno ai tessuti sotto l'azione dei raggi; mentre d'altra parte il medico deve conoscere a fondo la tecnica e la metodica della röntgenterapia senza di che non è possibile condurre a buon porto una cura. Anzi v'ha di più: l'ignoranza di tutte queste condizioni può esporre a pericoli gravi tanto l'operatore quanto il malato: e la legislazione italiana impone perciò al medico radiologo il titolo della specializzazione qualora voglia usare le radiazioni Röntgen a scopo terapeutico.
Molte delle cognizioni che abbiamo esposto sopra a proposito degli apparecchi e delle ampolle valgono anche nel campo della terapia. Gli accessorî necessarî si riducono in fondo a un supporto che oggi (con l'introduzione dei tubi autoprotetti anche in terapia) è semplicissimo: gli apparecchi di misura piazzati sull'apparecchio sono pure il milliamperometro e l'amperometro e il kilovoltmetro: si deve curare attentamente la linea in modo che i cavi che portano l'alta tensione (che nel caso della terapia raggiunge cifre più alte) non siano pericolosi né all'operatore né al paziente. Si tende oggi a costruire apparecchi a protezione integrale tanto che il paziente o l'operatore possono impunemente toccare i conduttori e l'ampolla.
Come già si è accennato, il milliamperometro segna l'intensità media della corrente nel circuito ad alta tensione (corrispondente al numero di elettroni che a ogni secondo penetrano nel tubo generatore); l'amperometro controlla la corrente prelevata dalla linea alimentatrice sul circuito a bassa tensione mentre il voltmetro misura la differenza di potenziale pure sulla linea alimentatrice in modo che in caso di abbassamenti sulla linea si possano correggere i dati sul tavolo di manovra. Tuttavia i fabbricanti di apparecchi spesso omettono il voltmetro sulla linea. Viceversa i voltmetri vengono usati in terapia per misurare la differenza di potenziale esistente ai morsetti del circuito primario del trasformatore ad alta tensione: si parla allora di kilovoltmetro primario che viene a misurare il valore efficace della differenza di potenziale che, attraverso il coefficiente di trasformazione, è proporzionale al valore efficace della differenza di potenziale sul secondario. Pur tra le cause di errore che l'uso del kilovoltmetro porta con sé, lo strumento è però di utilità. Il valore massimo della differenza di potenziale ai morsetti del tubo (valore che è quello che importa soprattutto conoscere) si ottiene con l'uso dello spinterometro a punta e piatto di cui abbiamo già accennato. Oltre a questi mezzi di misura è necessario l'uso di un amperometro sul circuito di alimentazione del tubo di Coolidge come già fu detto. Naturalmente esistono differenze tra apparecchio e apparecchio, ma il radiologo deve saper scegliere il suo apparecchio a seconda dell'uso che ne deve fare e degli scopi a cui deve servire. Esistono apparecchi modesti adatti solo per radiodiagnostica, e apparecchi potenti per radiodiagnostica e adatti anche per praticare le cure. Perché, mentre per terapia superficiale bastano tensioni di 10 a 120 kilovolt, per una terapia profonda occorrono tensioni fino a 250 kilovolt. Da qui le differenze fra trasformatore e trasformatore. Per potenza e funzione limitata (per diagnostica) può bastare anche un apparecchio senza raddrizzatore; l'ampolla dev'essere alimentata da una corrente dello stesso senso e poiché il trasformatore, alimentato da corrente alternata, dà una corrente indotta pure alternata, l'ampolla stessa funzionerà da valvola, eliminando l'onda inversa di potenziale più basso. Ma per potenze maggiori l'apparecchio generatore si presenta diverso, sia per il modo di rettificare l'onda, sia per la forma con cui è fornita la tensione al tubo (v. appresso: Apparecchi radiologici).
Qualunque sia in ogni modo l'apparecchio usato (ma capace di fornire quelle tensioni elevate necessarie per la terapia profonda) il radiologo deve avere a portata di mano tutti quei mezzi di misura necessarî (dosimetri) per conoscere la dose somministrata al paziente.
Poiché il fascio che esce dall'ampolla è un fascio policromatico, occorre conoscere sia la qualità della radiazione impiegata (cioè la frequenza e la lunghezza d'onda della radiazione) sia la quantità somministrata.
In terapia si filtra la radiazione prima di utilizzarla, cioè s'interpongono fra la sorgente dei raggi e il corpo del paziente delle lastre metalliche di spessore opportuno in modo da diminuire la componente delle radiazioni meno penetranti. Non è che il filtro abolisca le radiazioni molli e lasci passare solo le dure più penetranti; tutto il fascio viene indebolito, ma in maggior misura per le radiazioni molli; adoperando un filtro adatto si può fare in modo che il fascio, attraversando i tessuti, si comporti come un fascio praticamente monocromatico, cioè come un fascio omogeneo. Viene evitato così il fatto di un maggior assorbimento degli strati superficiali della pelle dei componenti più molli del fascio; l'assorbimento diviene regolare per i singoli strati ed è possibile così ottenere una distribuzione regolare dell'energia Röntgen in profondità. La scelta del filtro va fatta in modo che la radiazione usata non cada nella banda della discontinuità di assorbimento del metallo: i filtri usati in terapia sono o di alluminio o di rame o di zinco in opportuno spessore. Questi filtri hanno la loro discontinuità d'assorbimento (che rappresenta quasi una falla) lontano dalle lunghezze d'onda usate nella comune terapia: quando l'assorbimento procederà regolare occorre tener presente che il filtro, p. es., di rame, non deve essere tenuto vicino alla pelle perché esso emette radiazioni (di fluorescenza) caratteristiche, poco penetranti, che possono dare una azione caustica e che devono essere pertanto arrestate con un filtro aggiunto di alluminio.
Per misurare la qualità della radiazione usata, il mezzo migliore e più esatto è quello della spettrografia: processo analogo a quello che si pratica per la luce. In mancanza dello spettrografo ci si può contentare di mezzi di misura indiretti (spinterometro-kilovoltmetro primario, ecc.).
Ma anche più interessante appare la misura della quantità, cioè la misura dell'energia della radiazione Röntgen somministrata. Il problema delle unità si è trascinato per lunghi anni e le unità più varie e diverse sono state proposte: ma solo in questi ultimi tempi si è arrivati a stabilire come va intesa l'unità di misura della quantità e si comprende facilmente come la terapia abbia acquistato di colpo una base fondamentale e sicura che l'ha tratta fuori da quell'empirismo di misure che si è prolungato per anni. L'unità internazionale per la misura dei raggi X, è il "röntgen", simbolo r (v. appresso: Apparecchi radiologici).
In commercio esistono dosimetri (quale quello di Hammer) che permettono una lettura diretta del numero di r somministrati. Per mezzo del dosimetro non solo è così possibile la taratura del proprio apparecchio (che può del resto essere eseguita a intervalli), ma si può altresì misurare durante l'applicazione stessa sul paziente il numero di r somministrati.
Per quanto riguarda le condizioni che influiscono sulla dose, si tenga presente il fatto che le radiazioni diffuse secondarie che s'irraggiano dal tessuto umano irradiato contribuiscono a modificare i dati reali che corrispondono alla dose: sperimentalmente si possono eseguire dosaggi con i cosiddetti fantocci d'acqua in modo da avere un criterio circa la distribuzione dell'energia in profondità e circa la percentuale che arriva a una certa profondità.
Lo scopo della röntgenterapia è quello di somministrare una certa quantità di raggi a una certa parte del corpo in modo da produrre in questa determinate modificazioni. Nel concetto di dose è insita la possibilità di giungere a quelle certe modificazioni desiderate: per quanto si è detto, la dose assorbita dal tessuto rispetto all'energia fornita dal tubo è accresciuta dalle radiazioni secondarie emesse dai tessuti irradiati. Questa rappresenta la dose fisica (cioè la dose misurata in r), ma rispetto alle modificazioni che noi vogliamo ottenere dovremmo parlare piuttosto di dose biologica e oggi in fondo è possibile (dopo l'avvento dell'unità internazionale) stabilire a che numero di r è legato quel certo effetto biologico che vogliamo ottenere. In realtà è tutt'altro che semplice stabilire questi rapporti, poiché troppo diverse sono caso per caso le condizioni dell'organismo, troppo diverse caso per caso le reazioni del soggetto.
Quando ancora l'unità internazionale non era stata definita è stata presa come base, nella terapia, la cosiddetta "dose eritema" di L. Seitz e di H. Wintz: dose che rappresentava la quantità limite che non doveva essere superata per mantenere l'integrità della pelle. Il Seitz e il Wintz in realtà avevano cercato anche di stabilire altre unità biologiche (dose del cancro, dose del sarcoma, dose della tubercolosi, ecc.); unità che praticamente si sono dimostrate tutt'altro che esatte. Dopo introdotta l'unità r internazionale, la dose eritema cutanea è stata tuttavia mantenuta nel senso che essa rappresenta la dose che non va superata per l'integrità della pelle; ma essa non corrisponde a un numero r fisso, ma varia a seconda della durezza dei raggi impiegati. Con raggi durissimi, per i quali l'assorbimento della pelle è minimo, il numero di r necessario per avere l'eritema è notevolmente superiore a quello necessario impiegando raggi molli, per i quali l'assorbimento da parte della pelle è maggiore. Quello che interessa in ogni modo di stabilire è che i concetti di terapia superficiale e di terapia profonda non rappresentano termini contrastanti: ma in realtà nella terapia superficiale ci contentiamo di far arrivare una certa dose di raggi agli strati più superficiali del corpo e nella terapia profonda, di far penetrare una certa dose di radiazioni in profondità senza ledere i tessuti superficiali e la pelle.
Si tratta in fondo, nei due casi, solo di risolvere in modo diverso il problema, che, nel caso della terapia profonda, consiste nel distribuire in modo uniforme le radiazioni in profondità rispettando i tessuti sani superficiali. Esistono in radioterapia canoni che il radiologo deve conoscere per arrivare alla soluzione di questo problema, canoni basati sulle leggi che regolano la penetrazione e l'assorbimento dei raggi X nella materia, e che si compendiano: 1. nel modo di distribuire le radiazioni nello spazio; 2. nel modo di distribuire le radiazioni nel tempo; 3. nella possibilità che l'organismo ha di ricevere una quantità maggiore di radiazioni.
Per quanto riguarda la distribuzione dell'energia nello spazio, per raggiungere una distribuzione uniforme dell'energia, noi dobbiamo tener conto, da un lato, dell'assorbimento che cresce con lo spessore dei tessuti e che indebolisce il fascio e, dall'altro, dell'effetto della divergenza (onde sproporzione d'illuminazione tra centro e periferia del campo) e delle variazioni d'intensità per la legge della dispersione quadratica (l'intensità diminuisce in ragione inversa del quadrato della distanza).
Si cerca di ovviare a tali fatti: 1. aumentando la distanza focale, che viene a ridurre al minimo gli scarti d'intensità tra centro e periferia del campo, creando una certa ripartizione uniforme in superficie; ma, più che altro, l'aumento della distanza focale serve a diminuire lo scarto tra quantità somministrata in superficie e quantità che arriva in profondità. Quindi l'aumento della distanza focale migliora la distribuzione spaziale influendo sul coefficiente dispersione. Più che l'aumento della distanza focale, per ottenere una certa uniformità di distribuzione in superficie (cioè tra parti depresse e parti sporgenti, tra centro e periferia), possono invece giovare i cosiddetti filtri aggiunti compensatori. Di utilità pratica è, per es., il filtro a gradinate ideato da B. Bellucci in modo che si abbia uno spessore massimo nel centro e degradante verso la periferia: ma servono allo stesso scopo spessori di radioplastina o di pasta Columbia oppure sacchetti ripieni di riso, talco, ecc.; 2. cercando di diminuire lo spessore dei tessuti da irradiare mediante, per es., la compressione; 3. aumentando il potere di penetrazione dei raggi e migliorando la composizione del fascio mediante una adatta filtrazione; 4. aumentando l'ampiezza del campo da irradiare (aumenta così il volume irradiato e aumenta l'energia diffusa nell'interno del corpo); 5. impiegando il sistema di fuochi multipli a varia incidenza, per es., fuochi incrociati. Stabilita la dose, diciamo così, terapeutica, la somministrazione della dose nel tempo può subire variazioni e precisamente se diamo uno sguardo alle varie tecniche, abbiamo:
a) Tecnica delle piccole dosi. - È la tecnica dei primi radioterapisti guidata dal concetto di non ledere i tessuti superficiali.
b) Tecnica delle dosi massive. - È la tecnica sostenuta da L. Seitz e H. Wintz diretta a colpire in modo massivo, uccidendole, tutte le cellule: è la dose citocida quella che sostiene la tecnica. Facili però sono i disturbi generali provocati e numerose sono le cellule che sfuggono poiché non tutte le cellule sono nello stesso momento evolutivo e non si tiene conto del ritmo mitotico. D'altra parte non tutte le cellule tumorali sono piegate da quella che dovrebbe essere la dose cancericida.
c) Tecnica delle dosi frazionate. - La dose totale si raggiunge dopo una serie di sedute variamente distanziate fra loro. L'effetto si controlla facilmente perché si può seguire la reazione. Con il sistema delle dosi frazionate si può somministrare una dose superiore alla dose di tolleranza (se somministrata in una volta) per l'incompleto accumulo delle dosi.
d) Tecnica delle dosi intermittenti. - Con questa tecnica si dovrebbe tener conto del ritmo cronologico delle irradiazioni. La seconda irradiazione dovrebbe coincidere, per es., con le mitosi patologiche: secondo infatti le ricerche di H. Alberti e di G. Pollitzer si ha sotto l'irradiazione un arresto delle mitosi che più tardi riprendono ma in modo anormale.
e) Tecnica della saturazione del tessuto. - Con questo sistema si cerca di tenere le cellule del tessuto sempre sotto l'azione di una dose intera, aggiungendo, dopo l'irradiazione a dose intera, dosi aggiunte decrescenti che compensino l'effetto dissipante dei tessuti.
f) Tecnica delle dosi protratte. - È, in fondo, una tecnica a dosi frazionate, così come una tecnica a dosi frazionate è quella della saturazione secondo il Pfahler pur con diversa modalità. Ma nella tecnica delle dosi protratte si tiene conto specialmente del tempo di durata di ogni seduta (protrazione). Aumentando la protrazione, si finisce con le tecniche d'irradiazione continua e subcontinua, in modo da mantenere per molti giorni la cellule sotto l'azione dei raggi e colpire così tutte le cellule in mitosi.
Tutte queste modalità di tecnica, apparentemente così diverse, tanto da disorientare chi le consideri a prima vista, sono sorte in realtà in base a concetti biologici interessanti sotto ogni aspetto. I tentativi di formulare una legge che fissi la norma per stabilire il tempo di somministrazione della dose si sono dapprima naturalmente rivolti verso l'attività cariocinetica cellulare. Si riteneva cioè che la diversa sensibilità dei tessuti fosse in rapporto all'attività cariocinetica e alla giovinezza cellulare. L'indice cariocinetico secondo De Nabias e Forestier (rapporto tra cellule divise e cellule in riposo) avrebbe dovuto essere la guida per la durata del tempo d'irradiazione. Ma questo concetto si è dimostrato praticamente insufficiente. Ed è perciò che molti autori si sono orientati verso i metodi di saturazione (H. Kingery e G. F. Pfahler) che si basano come abbiamo detto sulla possibilità di dare sulla pelle (pochi giorni dopo la somministrazione di un'intera dose) quella quantità di raggi che basta a compendiare la parziale eliminazione degli effetti della dose precedente: nessuna cellula così dovrebbe sfuggire. La pelle è capace infatti di liberarsi progressivamente dell'azione in essa indotta da una certa quantità di raggi; cioè somministrando mezza dose eritema e somministrando l'altra metà dopo 3-4 giorni, l'effetto che si ottiene non è quello della somma delle due metà (e quindi l'eritema). La pelle si dissatura, cioè si libera dall'azione dei raggi. Lavorando con piccole intensità e prolungata durata, si ha l'impressione che il tessuto abbia anche più tempo a riprendersi dal fine insulto, provocato dall'irradiazione con la liberazione di elettroni. Quindi sia nel sistema frazionato sia nel sistema protratto è permesso di somministrare ai tessuti una dose maggiore. L'accumulo della dose non si verifica in modo uguale per tutti i tessuti: mentre la pelle facilmente e rapidamente ripara le alterazioni provocate (tanto da ritornare capace di ricevere una seconda dose) altri tessuti (come, per es., i testicoli e i tumori) riparano le alterazioni più lentamente e la seconda dose li coglie in un periodo di speciale recettività per le reazioni provocate dalla prima dose e che si prolungano nel tempo. In parole più semplici, quando le condizioni della pelle permettono di somministrare una seconda dose (massima dispersione) le condizioni del tessuto profondo irradiato (per es., testicolo) sono ancora tali che la seconda dose viene a sommarsi alla prima aumentando l'azione distruttrice totale. Lo scarto terapeutico diviene così un artificio biologico prezioso.
Dunque l'azione biologica nei tessuti viventi per una stessa dose somministrata va in genere diminuendo con l'aumento del tempo in cui detta dose è stata somministrata (legge di Wintz) ma questa diminuzione di azione si fa sentire in modo ineguale sui tessuti normali e neoplastici (legge della modalità di dissipazione dell'effetto tra tessuti e tessuti e fra tessuti normali e neoplastici).
In via generale, invece (legge della dissipazione dell'effetto), due dosi date con un certo intervallo non si sommano completamente (incompleto accumulo delle dosi frazionate), come se il tessuto vivente avesse il tempo di riprendersi dal fine insulto provocato dagli elettroni liberati dall'irradiazione. Accanto a queste leggi va tenuta presente la legge della diversità di azione fra dosi massive e dosi frazionate (l'irradiazione frazionata e prolungata dovrebbe finire per uccidere tutte le cellule a mano a mano che passano per lo stadio di mitosi, a parte la questione dell'incompleto accumulo e della dissipazione delle dosi stesse). Inoltre va tenuto conto della legge dell'intensità minima, cioè che esiste un limite (ciò vale per l'irradiazione prolungata) al di sotto del quale un'irradiazione anche prolungata non ha azione: la somministrazione del numero di r minuti appare pertanto come un fattore di primo ordine (Minuten r Zufluss di G. Schwartz).
Ma troppo lungo sarebbe addentrarsi nei complessi problemi di radiobiologia che il radiologo deve conoscere perché intimamente legati alla possibilità di successo nel campo terapeutico. L'azione biologica sui tessuti è in rapporto all'energia assorbita: la radiazione assorbita, mentre verrà degradata nel suo contenuto energetico (effetto Compton, v.), provocherà nella materia modificazioni chimico-fisiche. L'energia posseduta dalle radiazioni si trasforma nel seno della materia in fenomeni di ionizzazione atomica e in movimento degli elettroni che vengono a essere strappati dall'atomo: agli elettroni spetta la massima importanza nei riguardi di questi fenomeni di ionizzazione, base prima delle modificazioni della materia.
Numerosi sono gli studî sulle modificazioni morfologiche e funzionali della cellula sottoposta all'azione dei raggi e numerosi sono gli studî diretti a conoscere la differente sensibilità delle varie cellule e dei varî tessuti sotto l'azione dei raggi stessi. Le leggi di Bergonié e Tribondeau hanno dominato per lungo tempo incontrastate in radiobiologia: i raggi X agiscono con tanto maggiore attività sulle cellule quanto più grande è l'attività riproduttrice di queste, quanto più lungo è il loro divenire cariocinetico; quanto meno definita è la loro morfologia e la loro funzione.
Ma questa legge di Tribondeau e Bergonié ha sofferto e soffre numerose eccezioni e la concezione di M. Nemenow ha cercato addirittura di capovolgere i valori di detta legge, attribuendo una maggior vulnerabilità agli elementi non giovani ma vecchi, in avanzato grado di maturazione. Paragonando la sensibilità dei varî tessuti normali e patologici, è possibile costruire, diciamo così, una scala di sensibilità: partendo dai tessuti più sensibili ai meno sensibili abbiamo: a) il tessuto linfatico, il midollo osseo e il timo; b) il tessuto ovarico (dose ovarica di castrazione 34% della dose eritema); c) testicolo, in cui le cellule più giovani (spermatogonî) sono anche le più sensibili; d) mucose, ghiandole salivari, epidermide (100%); e) polmone; poi surrenali, fegato, pancreas, tiroide, connettivo, vasi, muscoli, nervi, cartilagini, ossa (H. Holthusen).
Ormai bene conosciute in tutti i loro particolari sono le alterazioni provocate dai raggi sui varî organi e tessuti e abbondante è la letteratura su questo argomento (alterazioni della pelle, mucose, ghiandole linfatiche, ghiandole endocrine, ecc.). Anche nei riguardi dei tessuti patologici esiste una scala di sensibilità: tipica, per es., è la sensibilità delle ghiandole e della milza leucemiche e dei tumori linfosarcomatosi. Sotto l'azione dei raggi, la tumefazione ghiandolare si "scioglie" rapidamente quasi come la neve sotto il sole. Ma il concetto di sensibilità non si può identificare con quello di curabilità: anzi assai spesso la sensibilità alta è collegata a malignità e possibilità di recidiva dell'affezione.
Quando ci si propone d'istituire un trattamento curativo mediante i raggi Röntgen, dobbiamo anzitutto conoscere nei suoi particolari e nel suo sviluppo la malattia e accertare le condizioni generali e di resistenza del malato: anche in questo campo non si dovrà mai dimenticare che il medico non deve curare la malattia ma deve curare il malato e adattare la tecnica a seconda delle sue condizioni. Accertata la sede e l'estensione del focolaio che si deve irradiare e la sua profondità rispetto ai tessuti superficiali, si dovrà scegliere in modo appropriato l'ampiezza del campo da irradiare, la sede più adatta dei campi per arrivare al focolaio, scegliendo infine anche la distanza focale più adatta. Si deve allora fare il calcolo della quantità da somministrare in superficie per raggiungere quella di focolaio e, stabilita la dose che deve raggiungere il focolaio in profondità (tenendo conto delle tabelle dei tassi di trasmissione), si stabilirà il numero dei campi necessarî, in modo da avere in profondità l'apporto desiderato. Per quanto riguarda il tempo necessario a irradiare in superficie ogni campo cutaneo, si può ricorrere alle tabelle che dànno i tempi a seconda della distanza focale, filtro e intensità, dati delle tabelle che naturalmente vanno controllati, facendo preventivamente la taratura del proprio apparecchio.
Naturalmente, per ogni regione del corpo esistono regole e schemi per centrare il fascio e per distribuire i campi d'irradiazione: così, per es., per irradiare la sella turcica (in caso di tumori dell'ipofisi) si deve tener presente che la sella occupa quasi il centro di una sfera e che pertanto è possibile una ripartizione pressoché uniforme della dose, irradiando su 4 campi (frontale, due temporali, campo nucale), facendo in modo di orientare i fasci di raggi in modo convergente verso la sella. Così, per irradiare una milza ingrandita, ci si gioverà di tre campi d'irradiazione: anteriore, posteriore, laterale: così, per es., per irradiare in modo uniforme l'utero ci si potrà giovare di sei campi d'irradiazione: anteriore o ipogastrico, posteriore destro e posteriore sinistro, inferiore perineale, laterale destro e laterale sinistro (ileotrocanterico). L'inclinazione dei varî fasci deve essere fatta in modo che essi vengano a convergere sull'utero: il cono posteriore va centrato pertanto obliquamente dall'alto verso il basso in direzione della IV sacrale, sicché il limitatore sfiori il contorno del pube: il cono posteriore destro e il sinistro saranno obliqui verso il pube; il cono perineale sarà diretto verso il mezzo del bacino, mentre i coni laterali verranno a completare l'irradiazione dei parametri.
L'esperienza ha stabilito ormai dei paradigmi circa le modalità e le dosi da somministrare per le singole affezioni; ma le tecniche sono in evoluzione e il radioterapista dovrà sempre tenere presente che si deve curare il malato e non la malattia, adattando la tecnica caso per caso.
Non è possibile chiudere questa rapida rivista nei varî campi della radiologia senza accennare alla necessità della protezione del malato e dell'operatore contro i pericoli dei raggi e dell'elettricità (sia dell'apparecchio sia delle linee). I sistemi di protezione integrale che oggi si vanno introducendo nella costruzione degli apparecchi radiologici valgono a eliminare i pericoli delle correnti ad alta tensione e assicurano la protezione dalle radiazioni che sia agli operatori sia al malato possono riuscire nocive: l'introduzione dei tubi autoprotetti, la protezione degli schermi fluorescenti con vetro piombifero, la protezione dell'operatore con guanti e schermi piombati, la protezione con stoffa piombata del paziente che s'irradia (nella cura) per proteggere l'operatore dai raggi diffusi emessi dal paziente, ecc., sono tutti mezzi ormai largamente entrati nella pratica corrente.
Lo studio delle protezioni è oggi avviato verso la soluzione e la carta di protezione tiene conto delle ore lavorative giornaliere e mensili in modo che non venga superata quella dose limite che può essere bene sopportata dall'operatore (per 200 ore lavorative al mese, in 25 giorni di 8 ore, la dose limite secondo gl'istituti americani si aggira fra 10 e 50 milionesimi di r al secondo; 1/200 di dose eritema in un mese; una dose eritema dovrebbe essere raggiunta solo in 20.000 ore di lavoro).
Apparecchi radiologici.
Sotto questa denominazione si comprendono gli apparecchi che servono alla produzione dei raggi Röntgen e gli apparecchi che servono all'impiego medico e tecnico di queste radiazioni o di quelle β e γ emesse dalle sostanze radioattive (v. radioattività).
Apparecchi per la produzione e l'impiego tecnico dei raggi röntgen. - I raggi X sono prodotti dal brusco arresto che subisce un fascio di elettroni in veloce movimento (raggi catodici) contro un corpo solido. Quindi un apparecchio generatore di raggi X deve comprendere un sistema che liberi elettroni, un altro sistema che crei un campo elettrico di opportuna polarità atto a imprimere loro un moto velocissimo, infine uno schermo (una lastra metallica) che, arrestando il fascio di elettroni, diventi centro di emissione dei raggi. Negli apparecchi generatori di raggi X si distinguono due parti: il cosiddetto tubo, in cui hanno luogo i fenomeni descritti, e il generatore di alta tensione, che fornisce l'energia e comprende anche tutti gli accessorî necessarî al funzionamento e alla regolazione del tubo.
Tubi generatori dei raggi X. - Si dividono nelle seguenti tre principali categorie, tenendo conto del sistema usato per liberare gli elettroni: tubi ionici, tubi termoelettronici, tubi autoelettronici.
I tubi ionici furono i primi a essere usati in radiologia. Essi constano generalmente (fig. 1) di una ampolla di vetro in cui si trova un gas a una pressione dell'ordine di un millesimo di mm. di colonna di mercurio, e in cui sono fissati almeno due elettrodi che all'atto del funzionamento vengono portati a una notevolissima differenza di potenziale (da 10 a 200 kV). Sotto l'azione di questa differenza di potenziale, il gas si ionizza, e gli ioni positivi, urtando contro il metallo che forma l'elettrodo negativo, provocano un'intensa emissione di elettroni. Gli elettroni così liberati per effetto del campo elettrico acquistano una notevole velocità, e costituiscono i raggi catodici. Essi, arrestati da uno schermo metallico (anticatodo), unito al polo positivo della sorgente di alta tensione, dànno luogo alla produzione dei raggi X. La zona dell'anticatodo dove avviene l'arresto dei raggi catodici si chiama fuoco. Per molti scopi (radiografia e radioscopia) è utile avere un fuoco piccolo; ciò si ottiene (utilizzando la nota proprietà dei raggi catodici di muoversi secondo traiettorie sensibilmente rettilinee e normali alla superficie emettente) conferendo al catodo una forma concava per concentrare su una piccola zona dell'anticatodo il fascio dei raggi catodici. La maggior parte dell'energia posseduta dal fascio catodico si converte in calore (solo qualche millesimo di essa si converte in raggi X), e quindi bisogna provvedere a un energico raffreddamento dell'anticatodo.
Il maggiore o minore potere penetrante dei raggi X prodotti, detto qualità o anche durezza della radiazione (si dicono molli i raggi poco penetranti, duri quelli molto penetranti) dipende dalla maggiore o minore velocità del fascio elettronico, e quindi dal valore della differenza di potenziale applicata tra gli elettrodi del tubo.
L'energia emessa in un dato tempo ("quantità" di radiazione) dipende dal numero di elettroni che in detto tempo urtano l'anticatodo, e quindi dal valore medio della corrente elettrica che è passata nel tubo. Questa grandezza nei tubi ionici è funzione della differenza di potenziale applicata al tubo e della pressione del gas contenutovi. Alcuni tubi di forma speciale che servono a produrre i raggi X per ricerche strutturali (v. sotto) sono in permanenza uniti a una pompa a vuoto (figg. 2 e 3): ciò che rende facile la regolazione della pressione nel loro interno. I tubi però che si usano nella maggior parte delle applicazioni sono chiusi (cioè staccati dalle pompe), ed è possibile regolare in essi la pressione solo parzialmente (aumento di pressione) e con difficoltà, mediante i cosiddetti rigeneratori (apparecchi che permettono d'introdurre o liberare un gas nell'interno dell'ampolla). La difficoltà di regolare indipendentemente la qualità e la quantità della radiazione prodotta ha portato all'abbandono quasi totale di questo tipo di tubo.
Nei tubi termoelettronici il vuoto nell'ampolla è spinto al massimo possibile. L'emissione di elettroni da parte del catodo è ottenuta portando all'incandescenza una spiralina di tungsteno che fa parte del catodo stesso (effetto termoelettronico). Questi tubi, dal nome del ricercatore che diede loro la forma attuale, si chiamano spesso anche tubi Coolidge (fig. 4). In essi la regolazione della "qualità" della radiazione viene ottenuta variando la differenza di potenziale ai morsetti del tubo, quella della "quantità regolando l'emissione elettronica della spiralina catodica (variando la corrente che serve a riscaldarla). Appositi schermi metallici, vicini a detta spiralina e ad essa connessi, dànno al campo elettrico una forma tale da conferire forme diverse al "fuoco" a seconda degli usi a cui i tubi devono servire (fig. 5). Come già s'è detto, occorre raffreddare energicamente il "fuoco" per evitare la fusione del metallo anticatodico. Si può ottenere il raffreddamento, incastonando detto metallo o in una grossa sbarra di rame che esternamente all'ampolla porta un radiatore ad alette (figg. 6 e 7), o in una sbarra cava di rame entro cui circola dell'acqua e, in qualche caso, olio (figg. 8 e 9), oppure dando all'anticatodo (quando è formato da tungsteno) forma e dimensioni tali che il calore venga irraggiato fuori dell'ampolla quando la massa metallica diventa incandescente (figg. 4 e 9). I tubi termoelettronici sono praticamente i soli usati oggi in tutte le applicazioni radiologiche mediche e tecniche. Essi si dividono in varie categorie a seconda degli usi:
a) tubi per raggi ultramolli (raggi limite; figg. 6-10). - Lavorano con tensione da 5 a 20 kV, hanno anticadoto di rame, ferro o tungsteno, e posseggono nella parete dell'ampolla una zona (finestra) per l'uscita della radiazione, formata da vetro speciale (Lindemann) trasparente anche a radiazioni poco penetranti. Servono soprattutto per terapia superficiale.
b) tubi per diagnostica (figg. 7-8). - Lavorano con tensioni da 20 a 120 kV, hanno anticatodo di tungsteno e servono per eseguire a scopo medico radioscopie o radiografie. Essendo queste ultime proiezioni centrali del soggetto in esame su un piano, si comprende come esse risultino tanto più nitide quanto più piccolo è il "fuoco" del tubo. Occorrendo d'altra parte spesso eseguire radiografie di organi in movimento (per es., il cuore), è necessario poter dissipare sul "fuoco" potenze elevate capaci d'impressionare le pellicole in tempi brevissimi. In questo caso il raffreddamento presenta speciali difficoltà. Tra gli artifici usati per ottenere "fuochi" piccoli su cui si possano dissipare forti quantità d'energia ricorderemo i seguenti: anticatodi con "fuoco" a forma di rettangolo allungato, posti con la superficie molto inclinata rispetto alla direzione di utilizzazione dei raggi (fig. 11) in modo da apparire in questa direzione come un quadrato (fuoco Goetze); anticatodi mantenuti in veloce rotazione (a mezzo dei campi Ferraris prodotti da avvolgimenti polifasi esterni all'ampolla) in modo che il fuoco scorra sulla superficie dell'anticatodo (fig. 12).
I tubi da diagnostica servono anche per terapia superficiale (v. sotto). Essi oggi sono spesso autoprotetti (vedi sotto e fig. 18).
c) tubi per terapia profonda. - Lavorano con tensioni comprese tra 120 e 250 kV e hanno sempre anticatodo di tungsteno. Assai usati sono il raffreddamento per irraggiamento, o quello a circolazione di liquido (fig. 19). Analoghi a questi tubi sono quelli che servono per la ricerca radioscopica o radiografica dei difetti nei materiali o nelle parti di macchine o edifici; sole differenze il fatto di avere "fuochi" piccoli e il raffreddamento dell'anticatodo a circolazione di liquido (fig. 33). Anche fra i tubi per terapia profonda o per ricerche metallografiche si diffondono sempre più i tipi autoprotetti (fig. 19).
d) tubi per radiazioni ultrapenetranti (fig. 13). - Lavorano con tensioni comprese tra 250 e 1000 kV (il limite superiore va continuamente crescendo) e servono per produrre a scopo terapeutico radiazioni del tipo di quella γ del radio.
e) tubi per ricerche strutturali. - L'anticatodo è formato da un metallo (rame, ferro, molibdeno, ecc.), atto a emettere uno spettro caratteristico opportuno per la ricerca da eseguire; le pareti presentano finestre di vetro speciale (Lindemann) per l'uscita delle radiazioni, in generale poco penetranti (fig. 14). Per queste applicazioni si usano spesso tubi smontabili (fig. 15): ciò che rende possibile il cambiamento dell'anticatodo. I tubi smontabili lavorano sempre in connessione con pompe a vuoto per mantenere nel loro interno il grado di vuoto necessario.
Tubi autoelettronici. - In questi tubi il vuoto nell'interno dell'ampolla è molto spinto; gli elettroni vengono emessi dal catodo dove, per la sua speciale configurazione, il campo elettrico è così intenso da provocare lo strappamento di elettroni anche dal metallo freddo (effetto Schottky). I tubi autoelettronici non hanno trovato applicazioni pratiche altro che in qualche specialissimo impianto sperimentale per raggi ultrapenetranti.
Mezzi di protezione. - Date le gravi alterazioni che si producono negli organismi viventi sotto l'azione dei raggi X, è di grande importanza in radiologia la protezione dai raggi degli operatori e delle parti dei malati che non debbano essere sottoposte all'azione delle radiazioni. I tubi a pareti di vetro vengono a questo scopo racchiusi in involucri di materiale isolante opaco ai raggi X, presentanti opportune aperture per l'uscita della radiazione. I primi tipi adottati avevano forma di una coppa (fig. 16), e proteggevano solo scarsamente; poi si adottarono involucri di dimensioni maggiori racchiudenti completamente il tubo, che assicurano una protezione perfetta. Questi supporti-protezione a causa del loro aspetto vengono spesso chiamati "cannoni" (fig. 17). Il progresso della tecnica ha in seguito permesso di racchiudere schermi metallici di forme varie nel tubo stesso, e di costruire le pareti di questo in metallo. In tale modo è il tubo che emette raggi solo in un cono relativamente piccolo, corrispondente alla zona di utilizzazione della radiazione. Tubi di questo tipo si dicono "autoprotetti" (figure 18, 19). Essi hanno assunto una diffusione grandissima, soprattutto nel campo della radio-diagnostica.
Un altro pericolo notevole esistente nelle applicazioni radiologiche è quello dovuto alle linee ad alta tensione che alimentano il tubo. In tutti gli apparecchi usati in passato esse erano completamente scoperte; negli apparecchi più recenti tutte le parti sotto tensione sono circondate da schermi metallici connessi a terra. Ciò si è potuto realizzare grazie ai moderni cavi flessibili in gomma capaci di resistere a tensioni altissime, ed ai dispositivi (coppe) che racchiudono completamente i tubi X con involucri metallici connessi a terra (figg. 20, 21).
Apparecchi generatori di alta tensione. - Come prima si è detto, i tubi Röntgen devono essere alimentati con una sorgente di energia elettrica ad altissima tensione, che, salvo casi particolari, dev'essere di polarità costante. Nei primi tempi della radiologia s'impiegarono a questo fine le macchine elettrostatiche, che però ben presto furono abbandonate per la loro scarsa potenza e per la grande instabilità di funzionamento. Si usarono quindi i rocchetti d'induzione inserendo nel circuito secondario un organo raddrizzatore capace di lasciar pervenire al tubo solo le onde di tensione di opportuna polarità (ad es., gli apparecchi Corbino-Trabacchi). Oggi i generatori di alte tensioni in radiologia sono formati da un trasformatore a circuito magnetico chiuso, che eleva la differenza di potenziale fornita dalle comuni reti di distribuzione elettrica a corrente alternata, sino al valore opportuno per l'alimentazione del tubo. Essendo alternata la tensione che si genera nel circuito secondario di questi trasformatori, occorre inserire in questo circuito un apparecchio rettificatore (meccanico o a valvole termoioniche). I rettificatori meccanici sono formati da un sistema di conduttori, portato da isolanti elettrici, posto in rotazione da un motore sincrono in modo che venga periodicamente aperto e chiuso il circuito secondario del trasformatore.
Fra questi rettificatori due sono i tipi più in uso. Nel primo viene chiuso il circuito in corrispondenza alle alternanze di giusta polarità per il tubo, e aperto in corrispondenza di quelle di polarità inversa (fig. 22, A); nel secondo vengono scambiate periodicamente le connessioni tra i morsetti del trasformatore e quelli del tubo (figg. 22, B; 28), in maniera che tutte le alternanze arrivino a questo ultimo con giusta polarità.
I rettificatori a valvole termoioniche utilizzano la proprietà che possiede uno spazio vuoto, in cui si trovano un elettrodo incandescente (che emette elettroni per l'effetto termoionico) e uno freddo (incapace di emettere elettroni). Questo spazio lascia passare la corrente solo quando l'elettrodo incandescente è negativo rispetto all'elettrodo freddo. Le valvole rettificatrici usate in radiologia (v. convertitore) possono essere ad ampolla interamente in vetro (fig. 23), o ad ampolla parzialmente metallica (figura 24). In questo ultimo caso la parte metallica dell'ampolla costituisce l'anodo della valvola. Le valvole sono generalmente costruite, o per tensioni sino a 120 kV per gli apparecchi da diagnostica, o per tensioni sino a 220 kV (in qualche caso anche sino a 400 kV) per gli apparecchi da terapia. In taluni di questi ultimi il trasformatore, attraverso ai rettificatori, carica dei condensatori che sono disposti in modo da far sì che al tubo pervenga una tensione maggiore di quella massima fornita dal trasformatore stesso (circuiti a moltiplicazione di tensione). Ciò è ottenibile per il fatto che, data la piccola corrente erogata dal tubo, se la capacità del condensatore è grande, esso resta carico a tensione elevata anche negl'intervalli di tempo in cui non è alimentato dal trasformatore attraverso ai rettificatori. È così possibile (com'è indicato in alcuni degli schemi delle figg. 22 e 25), o mettere in serie rispetto al tubo varî condensatori caricati separatamente in tempi diversi, o mettere in serie detti condensatori col secondario del trasformatore in modo che, rispetto al tubo, le differenze di potenziale esistenti su queste varie parti si sommino.
Le figure 22 e 25 mostrano gli schemi dei principali tipi di circuito che si usano negli apparecchi generatori di alta tensione per scopi radiologici. A fianco di ogni schema sono segnati l'andamento nel tempo della tensione ai morsetti del tubo (curva v) e l'andamento della corrente che percorre il tubo (curva i).
In detti schemi T rappresenta il trasformatore elevatore (atto a fornire al suo secondario una tensione massima di valore E), X il tubo röntgen, S i raddrizzatori meccanici sincroni ad alta tensione, V le valvole termoelettroniche raddrizzatrici, C i condensatori ad alta tensione. Per semplicità sono stati omessi negli schemi i trasformatori di riscaldamento e gli organi di regolazione.
Tra la rete di distribuzione e il circuito primario del trasformatore si trovano sempre organi di regolazione (resistenze, trasformatori di regolazione a prese multiple). Essi permettono all'operatore di variare la differenza di potenziale sul primario del trasformatore elevatore, e quindi di regolare la tensione ai morsetti del tubo. Il che è della massima importanza, perché permette di ottenere radiazioni di diverso potere penetrante.
Per il funzionamento dei tubi termoelettronici è necessaria una sorgente di energia elettrica che riscaldi il filamento catodico. Questa negli apparecchi radiologici è formata da un trasformatore (detto "di riscaldamento") il cui primario è pure alimentato dalla rete di distribuzione attraverso a organi di regolazione. Ogni variazione della corrente di riscaldamento corrisponde a una variazione della temperatura del filamento e quindi della sua emissione elettronica. Ne consegue che per questa via si regola il numero di elettroni che per secondo vanno a colpire l'anticatodo, e quindi l'intensità dei raggi X emessi.
Spesso tra la rete e gli organi di regolazione dei trasformatori di riscaldamento s'inseriscono dispositivi detti stabilizzatori, i quali rendono insensibili per la corrente di riscaldamento le piccole variazioni di tensione che sempre si hanno nelle reti distributrici. Essi sono assai utili, data l'enorme influenza che presenta ogni variazione anche piccola della temperatura del filamento sull'emissione termoionica. Questi stabilizzatori sono formati o da piccole macchine sincrone; o da resistenze-zavorra costituite da una sostanza la cui resistività varia fortemente con la temperatura (ferro); o da dispositivi elettromeccanici che inseriscono e disinseriscono periodicamente resistenze (Kearsley); o da trasformatori a bobina mobile autoregolatori (Pugno Vanoni); o da dispositivi a valvole termoioniche (Dessauer); o da trasformatori a nucleo saturato.
Nei moderni apparecchi da terapia si tende a rendere stabile non solo il riscaldamento dei catodi, ma anche la tensione applicata ai tubi X, perché il funzionamento non richiegga continua sorveglianza. Per i piccoli apparecchi, si usano, o le resistenze-zavorra (fig. 26), o i trasformatori a bobina mobile di cui sopra; per gli apparecchi di maggior potenza, i trasformatori ora detti (fig. 30), o macchine sincrone.
Tutti gli organi di regolazione dell'apparecchio radiologico sono situati nel cosiddetto tavolo di comando (fig. 27). Negli apparecchi da diagnostica (caso della fig. 27) esso, oltre agli organi di regolazione e agli apparecchi di misura (voltmetro primario), porta anche un orologio che comanda gl'interruttori in modo da fare automaticamente pose radiografiche della durata prestabilita.
Il trasformatore elevatore, quello o quelli di riscaldamento, il rettificatore e gli eventuali condensatori formano un secondo complesso a sé, collegato mediante cavi al precedente.
Come i tubi, così anche gli apparecchi generatori di alte tensioni si sogliono classificare nelle seguenti diverse categorie:
Apparecchi per raggi ultra molli. - Forniscono tensioni inferiori ai 20 kV e sono in generale costruiti secondo lo schema A di fig. 25.
Apparecchi per terapia superficiale e per diagnostica medica. - Sono di solito realizzati con gli schemi B di fig. 22 e A, B, C, D di fig. 25. Gli schemi C e D di fig. 25 sono specialmente adatti a fornire elevate potenze al tubo (v. anche figg. 28 e 29).
Lo schema E di fig. 25 si presta a eseguire radiografie istantanee rapidissime anche con reti di alimentazione di potenza limitata. Infatti in esso il trasformatore T carica lentamente attraverso alla valvola V il grosso condensatore C sino al valore prestabilito. L'interruttore i permette poi di scaricare detto condensatore nel tubo X all'atto in cui si vuol fare la radiografia. Il tubo risulta così alimentato per un tempo brevissimo con l'energia che è stata accumulata in un tempo piuttosto lungo.
Apparecchi per terapia profonda. - Sono in generale costruiti secondo gli schemi B, C di fig. 22, se a raddrizzatore meccanico, ed F, G, H, I, L di fig. 25 se a raddrizzatore termoionico (v. anche figg. 30 e 31).
Per la produzione di raggi ultraduri s'impiegano di solito apparecchi realizzati secondo gli schemi F, G di fig. 25, o combinazioni in serie di parti di questi schemi.
Per ricerche metallografiche o strutturali con i raggi X si usano apparecchi costruiti con uno degli schemi ora descritti, scelto in relazione con l'uso a cui devono servire (fig. 32). In questa categoria di apparecchi sono interessanti alcuni tipi recenti, adatti per radiografie di costruzioni o parti metalliche. In essi (fig. 33) le valvole rettificatrici sono immerse in olio, e il tubo, contenuto in dispositivi del tipo di quelli delle figg. 20 e 21, è alimentato attraverso cavi flessibili. Si ottiene così una completa protezione contro i pericoli da elettricità anche in apparecchi facilmente trasportabili e ad altissima tensione.
Accessorî per le applicazioni mediche della radiologia. - Per l'uso delle radiazioni röntgen in diagnostica, oltre al sistema generatore dei raggi X (comprendendo sotto questa denominazione il generatore di alta tensione e il tubo con relative protezioni), occorrono apparecchi (comunemente detti "accessorî radiologici") che consentano le applicazioni a uso diagnostico o terapeutico.
Accessorî per diagnostica medica. - L'uso in diagnostica di raggi X consiste nell'ottenere su un piano coperto di una sostanza capace di rendere percepibile ai nostri occhi la radiazione X (schermo fluorescente, pellicola fotografica) una proiezione centrale, avente per polo il fuoco del tubo, dei varî organi contenuti nel corpo esaminato. Questi ultimi si rivelano a causa della loro diversa opacità ai raggi X. In diagnostica occorre potere con facilità spostare il sistema formato dal tubo Röntgen e dallo schermo rivelatore in modo da poter esaminare qualunque parte della persona che è posta tra di essi. Questa facile mobilità è soprattutto necessaria in radioscopia; caso in cui si osserva sullo schermo fluorescente l'immagine data dai raggi X. All'atto dell'osservazione non conviene infatti irradiare zone troppo vaste del corpo in esame, sia per non sottoporre troppo il malato e l'operatore all'azione nociva dei raggi, sia per non generare eccessiva copia di raggi diffusi nel corpo stesso del malato, cosa che renderebbe confusa l'immagine. L'esame quindi si compie osservando successivamente le varie parti della zona del corpo che si studia. Due sono i tipi più comuni di "accessorio" usati in radiodiagnostica: gli ortoscopî e i trocoscopî.
Gli ortoscopî permettono l'esame del malato posto in piedi davanti all'osservatore (fig. 34). Essi constano: di una tavola verticale di legno, trasparente ai raggi X, contro cui si appoggia l'ammalato; del supporto mobile del tubo X, posto dietro detta tavola, e munito di diaframmi limitatori regolabili e opachi ai raggi, i quali diaframmi permettono di variare l'apertura del fascio di radiazione utilizzata; del dispositivo portaschermo fluorescente, mobile davanti all'ammalato, e solidale col portatubi; degli organi meccanici necessarî a rendere facile il movimento del complesso portatubi, schermo fluorescente. Per eseguire radiografie, allo schermo fluorescente si sostituisce un telaio contenente una pellicola fotografica. In taluni ortoscopî si può, mediante un apposito supporto a colonna, allontanare molto (sino a circa due metri di distanza) il tubo X dalla tavola verticale (fig. 35), in modo da eseguire radiografie con raggi sensibilmente paralleli, e quindi ottenere sulla pellicola immagini degli organi solo debolmente deformate e ingrandite (teleradiografie).
I trocoscopî permettono l'esame dell'ammalato posto in posizione orizzontale (fig. 36). Essi constano: di un tavolo con il piano di legno, trasparente ai raggi X, su cui si adagia il malato; di un portatubi mobile, con diaframmi limitatori regolabili, posto sotto a detto piano, e che permette di osservare l'ammalato o eseguire radiografie con raggi provenienti dal basso; di un portatubi mobile, sorretto da una colonna, posto sopra al tavolo e che consente radiografie con raggi provenienti dall'alto; dei dispositivi che permettono la mobilità di queste parti. Il portatubi superiore invia spesso la radiazione secondo l'asse di un cilindro di materiale opaco ai raggi (compressore limitatore) che serve contemporaneamente a limitare il campo irraggiato e a comprimere la parte che si sta radiografando, per immobilizzarla e, se cedevole, ridurne lo spessore.
Esistono poi anche accessorî per radiodiagnostica nei quali la tavola su cui poggia l'ammalato può assumere sia la posizione verticale, sia quella orizzontale, passando per tutte quelle intermedie (clinoscopî, fig. 37).
Come s'è detto, le parti irraggiate del corpo in esame diffondono radiazioni che nuocciono alla nitidezza delle immagini osservate. Dato che queste radiazioni diffuse hanno in gran parte direzioni oblique rispetto alla direzione del fascio di raggi X emesso dal tubo, esse si eliminano con le cosiddette "griglie", apparecchi formati da tante lamine di piombo opache ai raggi X, disposte una di fianco all'altra in piani passanti per il fuoco del tubo, in modo da impedire l'arrivo sulla lastra o sullo schermo fluorescente di quei raggi diffusi che si propagano secondo direzioni oblique rispetto ai raggi principali. In radiografia per far sparire o almeno attenuare l'immagine (rigatura) che lasciano sulla pellicola tutte queste lamine proiettantisi di costa, si mantengono dette lamine in opportuno movimento (griglie di Potter-Buchy, di Akerlund, ecc.). Queste griglie fanno già parte dei trocoscopî moderni, dove sono disposte in modo da servire per le radiografie dall'alto (fig. 36).
Per eseguire le radiografie, le pellicole fotografiche vengono poste in appositi telai opachi per la luce normale, ma con una faccia trasparente ai raggi X. La riduzione del sale di argento della pellicola fotografica proviene dall'assorbimento dei raggi X per parte del sale stesso. Per abbreviare le pose senza accrescere l'intensità dei raggi si usano le pellicole fotografiche con due strati di gelatina sensibile applicati sulle due faccie del supporto; in questo modo, a pari posa, le opacità che si ottengono risultano circa doppie (pellicole radiografiche a doppio strato). Per abbreviare ancora le pose, si usano gli "schermi di rinforzo" cioè cartoni ricoperti di sali fluorescenti, che si pongono a contatto con le due facce sensibili della pellicola. In questo modo, scegliendo opportunamente la sostanza che forma lo schermo, si aumenta fortemente la quantità di radiazione che contribuisce al processo fotografico. Infatti, così si aggiungono ai raggi X direttamente assorbiti dalla gelatina sensibile quelli assorbiti dagli schermi di rinforzo e da questi trasformati in luce ricca di raggi attinici, che agiscono a loro volta sulla gelatina. Per formare gli schermi di rinforzo si usano sali quali il tungstato di calcio e il silicato di zinco.
Gli schermi fluorescenti usati in radioscopia per rendere visibili al nostro occhio i raggi X sono essi pure costituiti da sostanze analoghe, tranne che essi producono una luce per la quale il nostro occhio ha una elevata sensibilità, e non presentano fenomeni d'inerzia, che impedirebbero di vedere gli organi in movimento.
Accessorî per röntgenterapia. - I principali accessorî per röntgenterapia sono i cosiddetti "stativi" che portano i tubi, e i lettini e le poltrone per i malati. Gli stativi sono i supporti adatti a fissare il tubo e gl'involucri protettivi a esso connessi nelle posizioni più opportune per irradiare l'ammalato. È in molti casi necessario comprimere fortemente la zona del corpo in cui si trova la parte da irradiare, al fine di ridurre al minimo gli spessori dei tessuti sovrapposti a detta parte, e occorre, nel tempo stesso, ben delimitare la zona irradiata. Per questo, alla bocca di uscita della radiazione degl'involucri protettivi si applicano i "limitatori-compressori", vale a dire tronchi di cono o di piramide con le superficie (escluse le basi) di materiale opaco ai raggi X, che servono contemporaneamente a lasciar giungere i raggi X solo alle parti poste sotto la loro base maggiore e a comprimere dette parti. Sulla bocca d'uscita dalla radiazione si pongono lastrine di alluminio o rame (i cosiddetti "filtri") che servono a togliere al fascio di radiazione le componenti meno penetranti. I supporti sono di tipo vario: a colonna o a giogo da appoggiare al pavimento o da fissare alle pareti, figg. 16 e 17), pensili (da applicare al soffitto, fig. 38). Essi variano notevolmente da caso a caso, soprattutto in relazione alla forma d'involucro protettivo che circonda il tubo.
Gli ammalati vengono adagiati per l'irradiazione su appositi lettini, oppure su poltrone, di forma assai varia, e ivi vengono mantenuti nella posizione opportuna mediante l'azione combinata di supporti formati da sacchetti di sabbia, del limitatore compressore, ed eventualmente anche di opportuni laccioli.
Nel caso della terapia il pericolo per gli operatori, costituito dai raggi, è notevole. Oltre alle radiazioni che sfuggono dalla protezione del tubo fuori del campo utile (nei tipi moderni esse sono praticamente soppresse), le parti dell'ammalato irraggiate e gli oggetti posti dietro di esse emettono intensi raggi di diffusione. Occorre quindi che chi comanda il funzionamento dell'apparecchio sia protetto contro questi raggi. Conviene che il tavolo di comando si trovi in locale separato da quello di terapia, e la parete divisoria tra i due locali sia di materiale opaco ai raggi (piomho, bario). Per la sorveglianza si praticano in detta parete opportune finestrine chiuse da lastre di cristallo al piombo.
Accessorî per ricerche metallografiche o strutturali. - I raggi X servono anche per ricercare eventuali difetti in parti di strutture di macchine o di edifici. Questa ricerca si basa sul fatto che il punto difettoso ha in molti casi densità o spessori diversi da quelli delle parti sane, e quindi risulta visibile o sullo schermo fluorescente, o sulla pellicola fotografica quando sia impressionata e sviluppata. Per ricerche di questo genere si usano apparecchi del tipo di quelli da röntgenterapia, occorrendo tensioni dell'ordine dei 150, 250 kV per produrre raggi di sufficiente potere penetrante.
Oggi si costruiscono, come s'è detto prima, apparecchi trasportabili, protetti contro i pericoli da raggi e da elettricità (fig. 33), che permettono di eseguire quelle ricerche anche lontano dai laboratorî.
I raggi X servono anche alle ricerche dette strutturali, che consistono nel determinare sia la struttura cristallina, sia la struttura molecolare delle sostanze, per mezzo dei fenomeni di diffrazione che i raggi X producono nei corpi (v. interferenza e diffrazione).
Queste ricerche richiedono radiazioni sia monocromatiche (metodo Debye-Scherrer), sia policromatiche (metodi di Laue), ma sempre generate a tensioni relativamente modeste con appositi tubi (figg. 2, 3, 14, 15). L'apparecchio di diffrazione nella sua forma più comune (fig. 39) consiste in una camera opaca ai raggi; la radiazione da usare entra in essa da una apposita finestrina, passa attraverso alla sostanza da esaminare, ed esce poi da una seconda apertura. Nella stessa camera è posta la pellicola fotografica che registra i raggi diffratti dalla sostanza in esame. Quest'ultima è sostenuta nell'interno della camera da un piccolo supporto che permette di orientarla a piacimento.
Con i raggi X si eseguiscono anche analisi qualitative e quantitative di sostanze, studiando, sia gli spettri Röntgen che la sostanza emette quando è usata come anticatodo, sia gli spettri di assorbimento che si producono interponendo lastrine della sostanza da analizzare nel percorso di un fascio di radiazione.
Gli spettri della radiazione si ottengono mediante gli spettrografi a cristallo rotante, basati essi pure sui fenomeni di diffrazione interferenziale.
Apparecchi per l'impiego tecnico dei raggi β e γ. - Le sostanze radioattive che si usano a scopi terapeutici in medicina (curieterapia) e per scopi radiografici nell'industria, appartengono alle due famiglie del radio e del torio. I preparati radianti contengono infatti o radio, o radon, o mesotorio (qualche volta torio X), o miscele, in proporzioni varie, di questi elementi. Detti preparati si dividono in "stabili" e "labili": sono stabili se la loro attività è praticamente invariabile nel periodo di tempo in cui dura una applicazione (al massimo una o due settimane); sono labili se la loro attività in questo tempo varia considerevolmente. Alla prima categoria appartengono i preparati di radio e di mesotorio, alla seconda quelli di radon (e di torio X).
Il radio è contenuto nei preparati sotto forma di solfato, cloruro o bromuro. Si preferisce il solfato perché oltre a contenere, come gli altri ora ricordati, una forte percentuale di radio (ciò che permette di ottenere preparati potenti e poco voluminosi), è insolubile, e quindi rende meno facili le perdite di sostanza dovute ad eventuale azione dell'umidità. La vita media del radio è così lunga che i preparati di radio, quando sia raggiunto l'equilibrio (se è impedita la fuga del radon come nei preparati chiusi ermeticamente), si possono considerare di attività costante.
I preparati commerciali di mesotorio sono costituiti da bromuro o solfato di mesotorio 1°, misto in proporzioni varie col corrispondente sale di radio. Questi preparati, che, in base alla definizione già data, si classificano tra quelli stabili, dimezzano però la loro attività in una decina di anni.
I preparati di radon (che sono fra i "labili" più usati) raggiungono la massima emissione di raggi β e γ dopo circa quattro ore dal loro riempimento, e dimezzano l'attività in circa quattro giorni.
I preparati di radio e mesotorio sono contenuti di solito in piccoli tubetti di platino saldati agli estremi (detti cellule), con pareti dello spessore da 0,1 a 0,2 mm. Mediante queste cellule si riempiono i "tubi", gli "aghi", o le "guaine", che sono involucri pure tubolari con le estremità tondeggianti o appuntite, muniti di un foro a un estremo ("cruna") per assicurarli mediante un filo, all'atto dell'impiego. Questi tubi, aghi e guaine possono essere di metallo diverso a seconda degli usi cui sono destinati (platino, oro, acciaio inossidabile), e presentare spessori diversi in modo da consentire l'uscita parziale dei raggi β, oppure sopprimere completamente questa radiazione, o anche lasciar uscire solo le componenti più penetranti dei raggi γ.
Altro tipo, ma meno usato, di preparato di radio o mesotorio è la "placca", formata da una lastrina di metallo portante su una faccia, fissata con una vernice o uno smalto, la sostanza radioattiva.
I preparati di radon sono essi pure di solito contenuti in tubi, aghi, o guaine; ma le cellule in questo caso sono di vetro, dato che ciò facilita molto il loro caricamento all'atto dell'estrazione del radon dalla soluzione radioattiva.
Per caratterizzare un preparato radiante stabile si indica il contenuto in radio e lo spessore delle pareti (se esso contiene mesotorio, si indica l'equivalente in radio, vale a dire il peso di radio che emetterebbe la stessa intensità di raggi β e γ attraverso alle pareti del preparato).
I preparati radioattivi ora descritti possono essere impiegati nelle applicazioni terapeutiche (curieterapia) o direttamente (infissione in tessuti ammalati), o dopo averli fissati in numero vario in masse di sostanze plastiche che modellano la parte malata da curare (apparecchi radianti modellati). Altro tipo di applicazione medica è la "telecurieterapia", in cui un forte numero di preparati radianti viene posto nell'interno di blocchi cavi di piombo che lasciano uscire un fascio di raggi γ sotto forma di cono. Questi blocchi di piombo, montati su opportuni supporti servono poi a irraggiare l'ammalato con una tecnica che, dal punto di vista geometrico, ricorda quella usata in röntgenterapia (fig. 40).
Apparecchi di misura per le radiazioni röntgen e gamma. - Ci occupiamo solo di quegli apparecchi che oggi sono impiegati per la misura delle radiazioni nella radiologia medica. La misura dell'energia röntgen che si somministra a un tessuto si compie nel campo medico valendosi di una unità (definita nel 1928 da un accordo internazionale) e detta "röntgen" (r). La definizione di questa unità di quantità è la seguente:
"Il röntgen è la quantità di radiazione X che, quando vengono utilizzati tutti gli elettroni secondarî e annullato l'effetto pareti della camera, produce in un cm.3 di aria alla temperatura di 0° e alla pressione di 76 cm. di colonna di mercurio, una conducibilità tale che la corrente di saturazione misurata equivale a una carica elettrostatica unitaria". Si preferisce l'impiego di questa unità a quello dell'erg (unità di energia nel sistema C G S) perché, adottando come unità la "r", le misure radiologiche risultano più facili da compiere, e forniscono dati che bene si prestano agli scopi biologici.
Per la misura delle quantità di raggi X s'impiegano i dosimetri (fig. 41), apparecchi formati da una camera di ionizzazione contenente aria, e di un sistema elettrometrico che serve a misurare la corrente che attraversa la camera quando essa è irraggiata. I dosimetri si distinguono in due categorie: a grande camera e a piccola camera. I primi vengono soprattutto usati per la taratura dei secondi, essendo facile adottare in essi tutti gli accorgimenti che servono a ottenere misure esatte (oggi i dosimetri campione che esistono nei varî laboratorî forniscono risultati che differiscono dal valore medio meno dell'1%). Le grandi camere di ionizzazione (Friedrich, Behnken, Küstner, Taylor) constano di un grosso recipiente da 1 a 10 litri di capacità (fig. 42), opaco ai raggi X, entro cui passa, a mezzo di due opportuni fori esistenti nelle pareti, un pennello di raggi X.
Il foro di entrata della radiazione è munito di uno schermo forato che determina la sezione del fascio usato per la misura. Opportune disposizioni (schermi successivi con fori di diametro maggiore) vengono adottate per ridurre l'arrivo nella camera dei raggi secondarî emessi dai bordi del primo schermo. Il foro di uscita della radiazione ha un diametro tale che i suoi bordi non sono colpiti dal fascio di radiazione che attraversa la camera. Elettrodi opportunamente disposti entro la camera fanno sì che, sull'elettrodo che serve alla misura, agisce solo la ionizzazione che si produce nell'aria esistente in un tratto ben definito del pennello di raggi. Ciò si ottiene mediante altri conduttori (2, 2) portati a opportuno potenziale (elettrodi di guardia).
Le piccole camere di ionizzazione (fig. 43) sono formate da un piccolo recipiente sferico o cilindrico (da 0,5 a 2 cm.3) con le pareti trasparenti ai raggi X, e nel cui interno si trova un elettrodo isolato che serve a misurare la ionizzazione che vi producono i raggi X. L'emissione elettronica che si manifesta sulle pareti irradiate di tali camere contribuisce fortemente alla ionizzazione dell'aria ivi contenuta. La natura delle pareti delle moderne piccole camere è tale da non modificare, con il variare della qualità della radiazione impiegata, il fenomeno della ionizzazione dell'aria. Esse sono, a questo fine, rivestite con grafite siliciosa (camere "a pareti d'aria" di Frick e Glasser).
La misura della ionizzazione dell'aria prodotta dai raggi X nelle camere si compie applicando tra gli elettrodi di esse una differenza di potenziale capace di richiamare sugli elettrodi stessi tutti gli ioni e gli elettroni che si liberano nell'aria irraggiata (condizioni di saturazione). La corrente elettrica che così si manifesta risulta proporzionale all'energia dei raggi X assorbiti dall'aria contenuta nella camera. Detta corrente si misura di solito mediante un elettrometro e un contasecondi (misurando cioè la velocità di scarica del condensatore elettrico formato dalla camera e dal sistema elettrometrico). Il sistema elettrometrico e i conduttori che lo uniscono agli elettrodi della camera sono accuratamente protetti contro i raggi X mediante schermi di piombo, per impedire che fenomeni parassiti di ionizzazione fuori della camera rendano errata la misura.
Alcuni dosimetri moderni hanno il sistema elettrometrico congegnato in modo che, quando una certa quantità di elettricità è passata attraverso alla camera per effetto della radiazione, la carica iniziale viene automaticamente ripristinata. Ogni ricarica pone in movimento un indice esistente su un quadrante dell'apparecchio (dosimetri "Mecapion" e "Hammer"). Potendo i dosimetri col tempo subire alterazioni capaci di far variare la loro taratura, negli apparecchi moderni questa può essere controllata a mezzo dell'ionizzazione prodotta da un opportuno preparato di radio il quale viene fornito col dosimetro stesso. I dosimetri si usano di solito per determinare quale illuminazione röntgen (espressa in "r" incidenti al minuto primo) un apparecchio produce a una certa distanza in determinate condizioni. Conosciuto questo dato, è facile calcolare la quantità di radiazione somministrata in un'applicazione che duri un tempo determinato. Come prima s'è detto, i corpi irraggiati diffondono una notevole parte della radiazione che ricevono; quindi in un punto del tessuto giunge, oltre alla radiazione direttamente inviata dal tubo, quella diffusa dai tessuti vicini. Di questa quantità aggiunta si tiene conto mediante opportune tabelle che sono state determinate per via sperimentale, irraggiando in modi diversi masse di acqua o di paraffina in varî punti delle quali si pongono le camere di ionizzazione per la misura. Queste determinazioni sono assai delicate da eseguire, dato che le radiazioni diffuse hanno potere penetrante assai vario, e risulta difficile fare piccole camere che non diano indicazioni errate in queste condizioni. Inoltre l'omogeneità della massa irraggiata è alterata, con i soliti tipi di dosimetri, sia dalla presenza della camera di ionizzazione, sia ancor più dalla presenza del cavo di connessione della camera all'elettrometro. Un notevole vantaggio da questo punto di vista si ottiene adottando piccole camere di ionizzazione (fig. 44) staccate dal sistema elettrometrico (Pugno Vanoni, Sievert). Esse ricevono inizialmente una carica nota, vengono poi poste per un certo tempo nella massa irraggiata, e infine congiunte a un opportuno elettrometro che determina la carica residua.
Oltre alla quantità, espressa in "r", relativa alla radiazione röntgen somministrata, interessa anche conoscere la composizione spettrale (la cosiddetta "qualità della radiazione").
Dalla "qualità" dipende infatti la ripartizione dell'energia assorbita dal tessuto irraggiato. La radiazione, in assenza di fenomeni di assorbimento, si propaga con un'intensità che decresce in ragione del quadrato della distanza dal "fuoco" del tubo X. In un mezzo assorbente questa decrescenza è più rapida a causa dei fenomeni di assorbimento. Quindi, usando radiazioni poco penetranti, l'energia X assorbita si localizza quasi esclusivamente sulla superficie del corpo irraggiato (terapia superficiale), mentre, con radiazioni molto penetranti, una quantità notevole di energia arriva anche in profondità. Per la terapia profonda interessa moltissimo conoscere il "tasso di trasmissione alle varie profondità", in quanto da esso si ricava qual'è la quantità massima di radiazione che si può somministrare a una zona profonda irraggiando secondo una data direzione, senza somministrare in superficie quantità tali da produrre gravi alterazioni permanenti.
La composizione spettrale di una radiazione dovrebbe essere determinata con gli spettrografi a cristallo rotante o oscillante (figure 45, 46); ma, essendo questa determinazione troppo complicata e difficile, ad essa di solito si sostituisce un dato di "qualità" misurato secondo uno dei seguenti modi:
a) natura dell'anticatodo del tubo, valore e forma della tensione applicata ai morsetti del tubo, filtri usati;
b) spessore del filtro di una sostanza data che riduce a metà l'intensità della radiazione (il cosiddetto "strato emivalente") e valore massimo della tensione applicata al tubo;
c) spessori dei filtri di una sostanza che riducono successivamente a metà e ad un quarto l'intensità della radiazione (primo e secondo strato emivalente);
d) andamento in funzione dello spessore del filtro del coefficiente d'indebolimento presentato da sostanze date, per la radiazione impiegata.
La misura sia dello strato emivalente, sia del coefficiente d'indebolimento, si compie mediante un dosimetro, davanti al quale si pongono filtri di spessore crescente (curando che i raggi diffusi dal filtro non influiscano sulla misura). Secondo recenti accordi internazionali le sostanze da usarsi come filtri per queste determinazioni sono le seguenti: celluloide per i raggi ultramolli (valore massimo della tensione al tubo tra 5 e 20 kV); alluminio per i raggi molli (20 a 120 kV al tubo); rame per i raggi duri (120 a 250 kV al tubo); rame o piombo per i raggi ultraduri (sopra i 250 kV al tubo).
Le denominazioni ora citate per le varie classi di qualità di radiazione, pur non avendo un significato preciso (i limiti di tensione indicati sono solo approssimativi), sono assai usate nella pratica.
Le misure delle quantità di radiazione emesse dai preparati radianti in curieterapia si compiono assai spesso indicando la potenza del preparato, i filtri e la distanza; p. es., per i preparati stabili si usa come unità di quantità il milligrammo ora (simbolo mgh), cioè la quantità di radiazione emessa da un milligrammo di radio in un'ora. Per i preparati labili spesso a questa unità si preferisce il millicurie distrutto (simbolo mcd), corrispondente alla quantità di radiazione emessa da un millicurie di radon (6,52.10-9 g) che si disintegra completamente (X mgh 0,0075 = Y mcd). Questo modo d'indicare la quantità di radiazione impiegate è assai impreciso (non tiene conto dei raggi diffusi dal mezzo, difficilmente risulta chiaro nel caso che s'impieghino più preparati radianti), e oggi si tende ad abbandonarlo misurando invece la radiazione che giunge in un punto per mezzo della stessa unità "r" che si usa nel campo röntgen. Sono in corso ricerche le quali hanno permesso di determinare che la quantità di radiazione inviata da 1 mg. di radio in un'ora attraverso a un filtro di 0,5 mm. di platino a 1 cm. di distanza, equivale a circa 7,8 r. Spesso in curieterapia per misurare le quantità di radiazione β e γ che arrivano in un punto è usata ancora una unità empirica, detta unità Dominici, definita mediante la ionizzazione che produce un preparato di 10 mg. di radio posto in condizioni fissate presso il piccolo dosimetro di Mallet e Danne.
Questo dosimetro è formato di una camera di ionizzazione sferica di 1 cm.3 di volume, contenente nel suo interno un elettrometro a foglia d'oro. L'unità empirica Dominici col perfezionarsi della tecnica, e grazie all'introduzione dei dosimetri a piccola camera staccata dal sistema elettrometrico, già menzionati a proposito dei raggi X, tende a essere abbandonata e sostituita con la "r".
Bibl.: E. Marx, Roentgenstrahlen, in Handb. der Radiologie, Lipsia 1919; G. Grossmann, Physikalische und technische Grundlagen der Roentgentherapie, Berlino 1925; E. Pugno Vanoni, Rettificatori di corrente ad altissima tensione a scopi radiologici, in L'Elettrotecnica, Milano 1925; R. Glocker, Materialprüfung mit Roentgenstrahlen, Berlino 1927; H. Behnken, Roentgentechnik, in Handbuch der Physik, ivi 1929; J. Eggert e E. Schienbold, Ergebnisse der technischen Roentgenkunde, Lipsia 1930, 1931, 1933; F. Perussia e E. Pugno Vanoni, Trattato di roentgen-e curieterapia, Milano 1934; Comitato Tecnico S. I. R. M., La carta della protezione, in La radiologia medica, ivi 1934.