PETRUCCI, Raffaello
PETRUCCI, Raffaello (Raffaele). – Nacque a Siena intorno al 1472 da Giacoppo Petrucci, figlio di Bartolomeo e fratello di Pandolfo, e dalla fiorentina Nanna Fantoni. Nel 1491 fu insignito di un canonicato della cattedrale di Siena. Dal 1494 fu con suo padre il maggior esponente dello schieramento filomediceo, fiancheggiando e favorendo Piero di Lorenzo de’ Medici impegnato a recuperare la signoria su Firenze. Alla morte del padre, Petrucci si trasferì a Roma presso il cardinale Giovanni de’ Medici: nominato protonotario apostolico, nel 1497 ottenne il vescovado di Grosseto nella Maremma senese. Di Giovanni de’ Medici fu intimo collaboratore e sostenitore, e quando questi divenne papa (Leone X) grazie anche al voto del cardinale Alfonso di Pandolfo Petrucci, suo cugino, manifestò a Petrucci la sua gratitudine: già nel marzo del 1513 lo nominò suo prelato domestico e castellano, o prefetto, di Castel Sant’Angelo, donandogli una casa con orto a Roma, e a maggio nominò Eustachio, suo figlio quattordicenne, capitano di dieci balestrieri della sua guardia, concedendogli poi tre precettorie della religione dei Cavalieri gerosolimitani. Pochi mesi dopo Leone X concesse a Petrucci la commenda dell’abbazia cistercense di S. Galgano, contesagli però dal cugino Alfonso, e nel 1514 le commende delle parrocchie di S. Giovanni di Livignano in Lunigiana e dei Ss. Paolo e Michele di Montieri nel Volterrano.
Nel 1516 la fedeltà mostrata alla causa medicea fruttò a Petrucci un ruolo di protagonista sulla scena toscana. Leone X gli affidò il compito di garantire l’alleanza della Repubblica senese: per allentare i vincoli sottoscritti da Pandolfo Petrucci con la Corona iberica il 1° ottobre 1511, Petrucci doveva sostituire Borghese di Pandolfo, approfittando dei contrasti intestini nella vita politica cittadina e nello stesso partito dei Petrucci (i Noveschi). Agli inizi di marzo del 1516 marciò verso Siena con un esercito: senza spargimenti di sangue, già nella notte dell’8 marzo Borghese abbandonò la città e il 9 marzo vi entrò Eustachio, seguito il giorno dopo da Petrucci stesso, al quale un Consiglio generale attribuì la facoltà di nominare una nuova Balìa di novanta membri, che affidò la maggior parte dei poteri a un comitato di quindici membri presieduto dal nuovo ‘moderatore’ della Repubblica e, dopo poco tempo e non senza qualche titubanza, a lui solo.
Sul piano della politica interna, pur proseguendo nella direzione di un maggior accentramento del potere nella persona del moderatore e della sua Balìa (magna o parva), Petrucci lasciò inalterato l’assetto istituzionale repubblicano (Consiglio del popolo e Concistoro) e tenne una condotta moderata, volta a ricercare il consenso dei cittadini, coinvolgendo gli esponenti dei Monti negli organi di governo, e a non accrescere il malcontento con le imposizioni fiscali. Questa politica prudente fu interrotta nel maggio del 1517, quando le indagini romane sulla congiura dei cardinali contro Leone X portarono alla luce anche una cospirazione ideata contro Petrucci dalla famiglia dei Bellanti, che pure avevano favorito la cacciata di Borghese. L’anziano Leonardo Bellanti si salvò, ma Petrucci fece uccidere dalle sue guardie i fratelli Giulio e Guido e la stessa sorte toccò ad altri congiurati come Niccolò de’ Rocchi e Bartolomeo Micheli.
La dura repressione nei confronti dei nemici interni va messa in relazione non solo con il ruolo da protagonista del cardinale Alfonso Petrucci nella congiura romana, ma anche con la situazione di politica estera. Poco dopo il colpo di Stato senese, il Comitato dei quindici aveva nominato una commissione di sei autorevoli cittadini con il compito di elaborare un nuovo trattato diplomatico con il pontefice: già il 14 giugno 1516, con la bolla Romani Pontificis providentia, Leone X aveva approvato formalmente il testo, al quale fece seguito un capitolato segreto fra lo stesso Raffaello Petrucci e il pontefice. Di fatto, oltre a specifiche clausole finanziarie e militari, con tale trattato la Repubblica allentò la sua subordinazione alla Corona iberica per legare più strettamente i suoi destini alla politica di casa Medici. Contemporaneamente Petrucci avviò trattative tramite Giovanni Palmieri per ottenere in favore suo e dei suoi discendenti la conferma della ‘protezione’ già accordata dai sovrani spagnoli al cugino Borghese. I rischi della scelta filomedicea emersero nel 1517 durante la guerra di Urbino, con l’offensiva di Francesco Maria Della Rovere contro Leone X. Mentre prendeva corpo la congiura all’interno dello stesso Monte dei nove, il mese di maggio trascorse nel timore di un attacco roveresco alla Repubblica di Siena, e anche in seguito le truppe nemiche si avvicinarono ai confini, mentre in città non mancavano manifestazioni anonime di forte malcontento nei confronti del moderatore. Questi, però, mantenne il controllo della situazione, grazie anche all’intervento dei Medici e dei loro aderenti, come lo stesso arcivescovo Giovanni Piccolomini, che fu gratificato del cardinalato di lì a poco. Quanto a Petrucci, la sua fedeltà fu ben ricompensata dal pontefice: nella grande creazione cardinalizia del Concistoro del 1° luglio 1517 fra gli altri ‘clienti’ di casa Medici anch’egli fu creato cardinale e il 26 dicembre dello stesso anno ricevette la berretta rossa del titolo di S. Susanna. Nel marzo del 1519 ebbe l’amministrazione della diocesi di Bertinoro (vacante per la morte di Angelo Petrucci), cui rinunciò l’anno seguente in favore del figlio Pietro, i cui ‘difetti’ canonici (aveva solo venti anni e non era nato da legittimo matrimonio) furono sanati dalla dispensa papale. Nel 1520, infine, ebbe l’investitura della diocesi maremmana di Sovana, vacante per la morte del sovanese Domenico Coletta (suo vicecastellano in Castel Sant’Angelo, carceriere e giudice dei congiurati contro Leone X).
Alla morte di Leone X, mentre partecipava con il cardinale Giulio de’ Medici al conclave del 1521-22, dal quale uscì eletto, grazie anche al suo voto, Adriano VI, si riaffacciò il pericolo dell’occupazione di Siena da parte dell’esercito roveresco. Il 12 gennaio 1522 il duca d’Urbino giunse con le sue milizie fin sotto le mura della città per cacciare Raffaello Petrucci e insediare Lattanzio Petrucci, ma l’assenza di sommovimenti intestini e l’avvicinarsi delle truppe svizzere lo indussero a ritirarsi e ad accettare la proposta avanzata dal cardinale Medici per una nuova confederazione fra gli Stati dell’Italia centrale. Né ebbe un esito diverso quattro mesi dopo un’incursione condotta da Renzo Orsini da Ceri, al soldo della Corona francese e del cardinale Francesco Soderini: arrivato alle porte di Siena, fu respinto dalle milizie agli ordini del cardinale. Il 23 agosto 1522 Petrucci era a Livorno insieme con i cardinali Giulio de’ Medici, Silvio Passerini, Giovanni Piccolomini e Niccolò Ridolfi per ricevere Adriano VI e accompagnarlo a Roma: i cinque prelati si presentarono armati e in abiti secolari, suscitando l’aspro rimprovero del pontefice.
Tornato a Siena, Petrucci partecipò alle sedute della Balìa fino al 5 dicembre, per recarsi in seguito nella sua villa di Bibbiano, dove morì per cause naturali il 17 dello stesso mese. Durante i suoi funerali si verificarono alcuni disordini, con insulti e lanci di pietre contro il feretro, e il suo cadavere venne seppellito nella chiesa di S. Domenico.
La sua morte, circondato da familiari e da amici, testimonia la capacità mostrata da Petrucci nel costruirsi una rete di relazioni solida fuori Siena, ma anche in città: oltre al cugino Francesco di Camillo, il cancelliere Domenico di Neri Placidi, Girolamo Ghinucci, Filippo di Niccolò Sergardi, Arcangelo Tuti, Guido Palmieri e altri ancora. Gli uffici ecclesiastici con cura d’anime e giurisdizione spirituale, accumulati e goduti nel corso degli anni, non gli furono d’ostacolo a uno stile di vita secolare, compreso l’esercizio della violenza privata contro uomini e donne. Se per gli anonimi autori delle ‘pasquinate’ romane il cardinale senese era un matto da catena o da remo di galea (alla stregua dei suoi concittadini, arcivescovo incluso), i suoi avversari politici senesi lo bollarono come «Giontator [=impostore], sodomitico e maldito / […] Crudele di te stesso et di tua patria / Più che non fu Neron delli romani, / Tu che non credi in Christo o idolatria» (Ferrajoli, 1911, 1984, p. 505 n. 4). A giudizio dei suoi contemporanei fu uomo avido («uomo di cattiva reputazione», «conduceva vita affatto mondana ed era odiato specialmente per la sua avarizia», secondo Pastor, 1945) e di scarsa cultura, tanto da mettersi a imparare «el compendio della grammatica» solo dopo la morte di Leone X (almeno secondo la testimonianza tendenziosa di Pietro Aretino, 1891, p. 168). Fino alla fine dei suoi giorni partecipò a giochi, tornei, feste e banchetti, mantenne pubblicamente concubine ed ebbe figli, come i già citati Eustachio, nato intorno al 1498, e Pietro, nato nel 1500, al cui destino provvide con i frutti delle armi e degli altari.
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