DE COURTEN, Raffaele (Giuseppe Antonio Eugenio)
Nacque a Sierre. nel Cantone svizzero del Vallese, il 21 genn. 1809 da Antonio Pancrazio, erede del titolo di conte riconosciuto ai Courten da Luigi XV di Francia nel 1769, e da Maria Francesca Elisabetta De Courten.
La famiglia, originaria della Lombardia, si era trapianta nel Vallese nel corso del sec. XI e col tempo ne era diventata una delle più importanti per le cariche pubbliche ricoperte. Successivamente, in epoca moderna, i De Courten si erano distinti come reclutatori e organizzatori di corpi mercenari per alcune delle maggiori monarchie europee: così un reggimento "de Courten", creato intomo al 1690, aveva prestato servizio in Francia fino al 1792 quando, costretto a lasciare il paese in seguito alla caduta dei Borboni, aveva trovato impiego presso le corti impegnate nella guerra alla rivoluzione. Da allora, quella che precedentemente era stata una scelta professionale ben remunerata - il mestiere delle armi -, divenne anche una scelta di principi, e i De Courten si votarono alla difesa dei valori incarnati nella monarchia assoluta di diritto divino, che l'Europa della Restaurazione riportava in auge come più valido sostegno della ricostituita alleanza tra trono e altare.
Quando nel 1831 le Legazioni insorsero, il card. Bernetti, segretario di Stato di Gregorio XVI, per salvaguardare l'indipendenza e la sicurezza interna dello Stato pontificio, e dotarlo di un proprio apparato difensivo, inviò agenti reclutatori nel Vallese, ben noto per il suo attaccamento alla tradizione cattolica e per i legami con il Piemonte assolutista. Risposero all'appello Eugène De Courten e Frantz de Salis, già marescialli di campo del detronizzato Carlo X, che tra parecchie difficoltà costituirono due reggimenti mercenari, nel secondo dei quali, dislocato dal 1832 a Forlì, il D. militava col grado di tenente.
L'arrivo delle truppe svizzere nelle Legazioni fu salutato con un certo sollievo dalle popolazioni che, pur non ignorandone la funzione essenzialmente repressiva, consideravano i nuovi venuti come un male minore rispetto agli Austriaci e vedevano nella loro serietà professionale una certa garanzia contro gli arbitri e le violenze delle milizie irregolari asservite al sanfedismo.
Più tardi, con il maturare dei fermenti di rivolta nelle Romagne, e nei primi anni dei pontificato di Pio IX, anche gli Svizzeri furono fatti oggetto di attentati, come quello che nel 1846 colpì, proprio a Forlì, il ten. col. Halter (cfr. in proposito il Protocollo della Giovine Italia, IV, pp. 107 ss.). Ciò non indebolì la loro dedizione al regime che li aveva assoldati e per lungo tempo il Mazzini considerò il loro licenziamento come uno dei punti più qualificanti di un serio programma riformista.
Nel 1848, guidati da G. Durando che li aveva inseriti nella divisione di regolari inviata nel Veneto come contributo dello Stato pontificio alla guerra nazionale, gli Svizzeri diedero prova di grande valore; e anche il D. fece parte della brigata che, agli ordini del col. G. de Latour, si batté a Vicenza e il 24 maggio 1848, dopo aver sostenuto un duro bombardamento, riuscì a mettere in fuga gli Austriaci ed a rimandare di qualche settimana la resa della città assediata.
Nel 1850, nel quadro della riorganizzazione dei corpi militari voluta dal restaurato potere temporale, il D. col grado di tenente colonnello fu Posto dal ministro della Guerra Kalbermatten alla testa del 20 reggimento di una brigata formata da soldati della più varia provenienza. Il reggimento prese stanza a Forlì, città dove convergevano anche gli interessi privati del D. che nel 1838 vi aveva sposato la contessa Clementina Dall'Aste Brandolini. Maggiore nel 1852, fu promosso colonnello dal 4 giugno 1855. Nel 1859, al momento delle insurrezioni, il D. fu incaricato di riportare l'ordine a Fano, Senigallia e Pesaro, e riuscì a conservare le Marche al Papato senza quegli eccessi commessi negli stessi giorni dallo Schinid a Perugia che provocarono nell'opinione pubblica europea l'inizio di un dibattito sull'impiego dei mercenari e sui loro sistemi. Promosso generale di brigata il 7 ag. 1860, fu posto dal Lamoricière, da poco comandante in capo del rinnovato esercito pontificio, alla testa della III brigata con quartier generaie a Macerata. Nel settembre, l'avanzata dell'esercito piemontese guidato dal Fanti tagliò in due le forze pontificie impedendo al D., dopo un vano tentativo di contrastare il nemico nell'Urbinate, di ricongiungersi al Lamoricière, che lo raggiunse ad Ancona solo dopo la sconfitta del 18 sett. 1860 a Castelfidardo. Assediata dalla terra e dal mare, senza più speranza di "veder comparire, da un momento all'altro, la liberatrice flotta austriaca" (De Cesare, p. 383), il 29 settembre, dopo un cannoneggiamento di quattro giorni, la città capitolò: i Pontifici, dichiarati prigionieri di guerra, furono immediatamente trasferiti a Roma. Qui, mentre si procedeva all'ennesima ricostruzione dell'esercito e si chiamavano sotto la bandiera del papa i legittimisti d'ogni parte d'Europa, divamparono presto le polemiche: sciolti i due reggimenti svizzeri, il ministro de Mérode e il gen. Lamoricière ne misero sotto accusa i capi, cui trovarono comodo attribuire "en vue de se disculper les revers de la malheureuse campagne de septembre 1860" (E. De Courten, p. 354). Il D. si fece allora collocare in disponibilità. Tornò al servizio attivo nel 1865, dopo il conferimento del dicastero delle Armi al bavarese Kanzler, che gli affidò il comando della prima delle due divisioni che formavano l'esercito. La convenzione di settembre e il ritiro del corpo francese d'occupazione - previsto per il 1866 - portarono in primo piano il ruolo dell'esercito pontificio, pur se gli veniva affiancata la legione d'Antibes, vera e propria forza francese d'intervento mascherata da milizia volontaria, che proprio il D. aveva ricevuto in consegna il 12 sett. 1866 dal gen. d'Aurelles de Paladines. Nel 1867, nell'imminenza dell'invasione garibaldina, il D. fu incaricato della difesa di quella parte del territorio delimitata dalle province di Viterbo, Tivoli, Velletri e Frosinone (località, quest'ultima, in cui nel 1865 aveva combattuto con qualche successo il brigantaggio); dopo aver cercato di contrastare l'entrata delle colonne garibaldine nello Stato, fu richiamato in tempo per partecipare alla battaglia di Mentana dove, il 3 nov. 1867, lanciò i primi efficaci attacchi e mise in difficoltà i volontari di Garibaldi.
Conseguita la vittoria grazie al contributo determinante dei Francesi, il D. e gli altri ufficiali rientrarono a Roma passando per porta Pia: "Pareva che tornassero da Austerlitz", avrebbe poi scritto il De Cesare (p. 582) sottolineando con ironia il trionfalismo di quei giorni. Tre anni più tardi, nella crisi finale dei potere temporale, il D. era a capo del Comitato di difesa istituito alla vigilia dell'assalto decisivo a Roma; presi appena i primi provvedimenti, il mattino del 20 settembre fu però informato della volontà di Pio IX di non andare oltre una resistenza simbolica.
Il giorno dopo la resa, durante la sfilata che i soldati pontifici compirono davanti alle truppe italiane prima di essere trasferiti a Civitavecchia, il D. fu fatto oggetto delle rimostranze dei Bixio, risentito per le grida di Viva Pio IX che si erano levate tra i soldati del papa. Più tardi, dopo la pubblicazione del volume del Cadorna sulla Liberazione di Roma, il D. avrebbe rievocato anche questo episodio e rivendicato il disinteresse e la lealtà con cui tanti stranieri, "mossi da un nobilissimo ideale, pel quale palpitava il cuore di ogni buon cattolico", avevano servito il papa (Bonetti, p. 158): per sé e per gli altri chiedeva dunque il rispetto e la tolleranza che sempre sono dovuti ai vinti, valorosi ma sfortunati.
Il 25 sett. 1870 il D., "l'unico generale rimasto fino all'ultimo a condividere la sorte dei soldati" (Vigevano, p. 703), salutò a Civitavecchia i suoi uomini e si imbarcò per la Francia. Lì giunto, chiese di essere impiegato nelle operazioni contro i Prussiani invasori: ebbe il comando della 3ª divisione del XVI corpo d'armata, di quella 2ª armata della Loira che, agli ordini dei gen. A.-E. Chanzy, avrebbe nel gennaio del 1871 perso la battaglia di Le Mans. Finita la guerra il D., malgrado la dichiarata avversione per il nuovo ordine di cose, scelse di tornare in Italia e si stabilì a Firenze, dove visse ritirato fino a tardissima età. Morì il 2 dic. 1904.
Fonti e Bibl.: Le principali notizie sulla vita del D. si ricavano, oltre che dal Diz. d. Risorgim. naz., II, sub vocem, e dal breve necrologio pubblicato sull'Illustraz. ital., 1° genn. 1905, p. 17, dal Dictionnaire hist. et biographique de la Suisse, II,Neuchitel 1924, pp. 397 s. e, soprattutto., da E. De Courten, Valaisans au service des causes perdues. Naples 1860-Rome 1870, in Annales Valaisannes, s. 2, XIII (1965), pp. 343-72 (che cita documenti del D. conservati nell'Arch. cantonale di Sion). Pochi i riferimenti al D. nelle fonti coeve: da ricordare i Carteggi cavouriani (per la cui consultazione si vedano gli Indici,a cura di C. Pischedda, Bologna 1961, ad nomen) e i Docc. dipl. it., s. 1, XIII, Roma 1963, p. 505. Sulla carriera militare cfr.: A. Vigevano, La fine dell'esercito pontificio, Roma 1920, pp. 36, 121, 126 s., 131, 179, 186, 218, 405, 452, 474, 562, 698 s-, 703, 745; P. de Vallière, Honneur et fidélité. Histoire des Suisses au service étranger, Lausanne 1940, pp. 735 s. Sulle operazioni militari del decennio 1860-1870: R. De Cesare, Ronza e lo Stato del papa. Dal ritorno di Pio IX al XX settembre (1850-1870), Roma 1975, pp. 367, 371, 383, 656, 660, 674; P. Della Torre, L'anno di Mentana…, Milano 1968, passim. Per la polemica coi Cadorna: A. Bonetti, Venticinque anni di Roma capitale d'Italia e suoi precedenti (1815-1895), II, Roma 1896, pp. 156-60. Quanto poi al quadro delle truppe pontificie di questo periodo, ai loro ruoli, stipendi, ecc., si veda G. Friz, Burocrati e soldati dello Stato pontificio (1800-1870), Roma 1974, in Arch. econ. dell'Unificaz. ital., s. 2, f. XX, ad Indicem.