DE CESARE, Raffaele
Nacque a Spinazzola (Bari) l'11 nov. 1845 da Antonio, possidente, e da Teresa Mandoi.
Il padre apparteneva a famiglia molto in vista per livello culturale - il fratello Carlo fu un famoso economista - e per tradizioni liberali, di quel liberalismo che senza essere antiborbonico per principio, come altrove nel Regno, mirava a conciliare la devozione per la dinastia con l'impegno per l'avvento di un regime costituzionale. Ciò nonostante dopo il 1848 era stato coinvolto in uno dei tanti processi che erano seguiti al ritorno dell'assolutismo.
Rimasto ancora bambino orfano del padre, il D. restò affidato alle cure della madre che nel 1857 l'iscrisse nel seminario di Molfetta, un istituto che per la relativa apertura degli indirizzi didattici e per la preparazione del corpo docente avrebbe in quegli anni, e in quelli immediatamente successivi, formato alcuni tra i maggiori esponenti della cultura pugliese, primi fra tutti il teorico dell'anarchismo C. Cafiero, il positivista A. Angiulli e lo storico G. Salvemini.
L'impronta che vi ricevette il D. fu profonda, soprattutto nel senso di un'adesione agli ideali unitari fatta propria sulla base di una coscienza molto viva, anche se di matrice essenzialmente letteraria, dell'identità nazionale. Nello stesso tempo le lezioni di G. Nisio, un prete che nel 1860 sarebbe tornato allo stato laico, lo introducevano in quel filone del pensiero meridionale che aveva nell'idealismo del De Sanctis il suo svolgimento più attuale.
L'unificazione era già compiuta quando il D. si stabilì a Napoli per frequentare i corsi di scienze politiche e giurisprudenza, materie in cui si sarebbe laureato nel 1865 e 1867. Una forte inclinazione verso l'aristocrazia intellettuale e un'istintiva avversione per tutte le organizzazioni democratiche e i loro metodi di lotta lo condussero presto a militare nel campo moderato, in quell'Associazione unitaria costituzionale presieduta da L. Settembrini che, legata alla Destra, propagandava nel Meridione il rafforzamento del sentimento monarchico come base per un modello di società ordinata gerarchicamente ed avviata verso un progresso senza scosse. Ma le sollecitazioni che gli verúvano dal contatto con uomini come R. Bonghi, S. Spaventa, A. Scialoja, P. Turiello, V. Imbriani, G. Fortunato lo spingevano, prima che all'attività politica, alla riflessione sulle condizioni del Mezzogiorno, sui mali che affliggevano, sulle carenze storiche de sua classe dirigente e delle forze politico-sociali che vi operavano; e già allora era sua profonda convinzione, espressa nel volume sulle Classi operaie in Italia (Napoli 1868), che, in un quadro di generale arretratezza del paese, unificato con uno spirito che gli pareva troppo accentratore e giacobino, il problema maggiore era la miseria del Sud e che quindi, prima che dell'istruzione, occorreva, se si volevano consolidare le istituzioni, occuparsi del miglioramento delle condizioni economiche generali.
Più che per profondità di pensiero il D. si segnalava però per la molteplicità degli interessi e per la capacità d'osservazione e di indagine, doti che lo spinsero a lasciare i codici e ad entrare nel giornalismo. Il quotidiano in cui esordì come resocontista delle sedute del Consiglio comunale di Napoli era La Patria. battagliero organo finanziato da S. Spavento. e controllato dai due prefetti di Napoli Gualterio e D'Afflitto; quest'ultimo, in particolare, concepiva il giornale, che dal maggio del 1870 cominciò a chiamarsi La Nuova Patria e fu completamente affidato al D., come strumento di lotta contro l'aggressiva Sinistra nicoterina e come veicolo di soluzioni autoritarie da imporre a governi che, sebbene di Destra, erano considerati troppo accomodanti. Più tardi il D. ricorderà di questa esperienza il clima esasperatamente polemico stabilitosi fra il suo giornale e la stampa democratica in un crescendo di accuse, deriunzie, personalismi che, frutto di una malintesa spregiudicatezza, portarono a livelli preoccupanti il tono della lotta politica napoletana introducendovi i motivi di un ulteriore degrado senza peraltro che il fine prestabilito, che era il discredito dell'opposizione, fosse raggiunto. Furono perciò gli stessi finanziatori che sul finire del 1871 sostituirono La Nuova Patria con l'Unità nazionale e l'affidarono alla direzione di R. Bonghi che nominò il D. corrispondente da Roma .
La città, che aveva da poco visto la fine del potere temporale, offriva molti elementi di interesse ad un osservatore acuto come il D., la cui attenzione era attratta soprattutto dal mondo delle alte gerarchie ecclesiastiche, per introdursi nel quale si avvalse dell'amicizia di esponenti del cattolicesimo liberale e poi conciliatorista come gli abati Pappalettere e Tosti, di cui condivideva l'idea dell'opportunità di una rinunzia del Papato ad ogni aspirazione revanscista verso il Regno d'Italia.
Col passar degli anni e soprattutto dopo l'ascesa al potere della Sinistra, ascesa che agli occhi del D. avviava la decadenza dell'apparato statale e la crisi del principio d'autorità - con precise responsabilità della monarchia, troppo incline a porsi al di sopra delle parti -, questo atteggiamento si fece più partecipe, e l'iniziale curiosità del giornalista per il funzionamento della Curia si trasformò nell'elaborazione di un vero programma per il riassetto della vita dello Stato.
Per il D. infatti - che nel 1889 sarà processato ed assolto dall'accusa di oltraggio alla persona del re, cui in un articolo sul Corriere di Napoli aveva fatto carico di non esercitare il suo intervento moderatore (il cosiddetto "mezzo termine") su taluni presunti arbitri dell'esecutivo - solo l'autorità morale di un Vaticano capace di rinunziare all'iritransigentismo politico e dottrinario dell'ultimo Pio IX avrebbe potuto risollevare le istituzioni civili vacillanti sotto l'attacco del radicalismo, categoria in cui venivano da lui compresi i democratici di tutte le tendenze. Non erano idee originali (S. Jacini e altri le avevano esposte con un decennio di anticipo), ma il D. le propugnava con estrema chiarezza e con un intento preciso: quello di favorire la nascita di un partito conservatore il cui compito, avrebbe scritto più tardi, doveva esser quello di "accomodar la Chiesa... al mondo moderno" e "innalzare gli ideali della patria e della religione" (Il conclave di Leone XIII, p. 158).
Tale programma, che si venne meglio definendo negli anni tra il 1890 e il 1900 in numerosi articoli per la Nuova Antologia e la Rassegna nazionale, riviste delle quali il D. fu uno dei commentatori più autorevoli (in particolare nell'articolo Programma di politica ecclesiastica, apparso sulla Nuova Antologia del 16 genn. 1895 e firmato con lo pseudonimo di Fra' Pacomio), prevedeva nella sua parte propositiva una tale serie di capitolazioni da parte dello Stato - la rinunzia definitiva all'exequatur, l'aumento delle congrue ai parroci, l'abolizione della leva dei chierici, il riconoscimento della personalità giuridica delle congregazioni religiose con fini di pubblica utilità - da costituire, in quel momento storico, un pericoloso arretramento rispetto alle posizioni degli stessi liberalconservatori alla Sonnino; e la funzione di puntello di un traballante edificio statale dal D. assegnata alla Chiesa di Leone XIII (tale il senso, al di là dell'ampiezza dell'informazione, del lavoro sul Conclave di Leone XIII, pubblicato a Città di Castello nel 1887. tradotto in francese lo stesso anno e quindi riedito con un ampio aggiornamento nel 1899 ancora a Città di Castello con il titolo Dal conclave di Leone XIII all'ultimo concistoro ...) lo collegava alla linea portata avanti dal presidente del Consiglio Rudinì (1896) col quale qualche mese prima aveva tentato di impostare un ravvicinamento tra Stato e Chiesa, sulla base di una serie di concessioni cui il Vaticano, pur alieno da trattative concordatarie, non era sembrato insensibile malgrado i clamori ostili degli intransigenti della Civiltà cattolica.
Questa attività precedeva di poco l'elezione del D. a deputato dei collegio di Manduria dove si era candidato su invito del Rudinì, dal quale presto si sarebbe staccato per riseritimento verso la designazione del democratico Zanardelli a ministro di Grazia e Giustizia. Il D. tornò allora a gravitare verso l'ala più conservatrice dei sonninianì, quella guidata dal cattolico milanese G. Prinetti, avendo come bersaglio principale del suo impegno di parlamentare e pubblicista Giolitti e la sua strategia di apertura alla Sinistra, cui contrapponeva la necessità di una rapida soluzione del problema meridionale, possibile, a suo parere, solo con una politica di interventi, in difesa e a stimolo dell'economia agricola del Sud, che ne esaltasse le capacità produttive, accelerasse il processo d'industrializzazione e favorisse la conciliazione degli interessi di proprietari e coloni.
Coerentemente con tali premesse, l'opera parlamentare del D., che in passato si era occupato anche di commercializzazione di prodotti oleari ed era stato più volte membro di giurie nelle esposizioni ffiternazionali, si concentrò sulla tutela degli interessi della Puglia con la richiesta, alla fine soddisfatta, di opere pubbliche primarie quali le ferrovie e l'acquedotto. Presidente della Società nazionale degli olivocultori, di cui era stato uno dei fondatori, il D. si batté a più riprese per una legislazione che, impedendo le sofisticazioni e limitando le importazioni, garantisse alla produzione pugliese le migliori condizioni di mercato, cosa che, a suo dire, avrebbe frenato quella proletarizzazione della proprietà fondiaria che tanto lo assillava.
L'altro tema preferito dal D. deputato fu quello della politica ecclesiastica dove, prendendo spunto dalle condizioni di alcune chiese pugliesi, chiedeva concessioni tali da adombrare un mutamento di rotta nei rapporti tra Stato e Chiesa. Non pochi tra gli stessi liberali considerarono questo orientamento troppo filoclericale; e d'altra parte Giolitti, irritato dal suo modo, puntiglioso quanto allusivo, di fare opposizione, con uno dei suoi tipici interventi sui prefetti riuscì a far sì che nel 1904 il D. non fosse rieletto.
Da questa disavventura il D. si sentì confermato nel suo pessimismo circa l'involuzione dei sistema politico italiano e ulteriormente sospinto a meditare con nostalgia su un passato recente in cui lo Stato si era formato grazie all'opera disinteressata di un ceto dirigente che, pur con i suoi limiti in campo amministrativo, gli appariva esemplare per rettitudine e rigore morale. La ricerca storica, cui era arrivato per i suoi impegni di collaboratore delle più diffuse testate italiane - tra le altre L'Opinione, Il Fanfulla, il Corriere di Napoli, il Corriere della sera e, per ultimo, Il Giornale d'Italia - assunse per lui valore di testimonianza e fu sentita come l'adempimento di un dovere che non era soltanto sollecitudine per a conservazione dei documenti storici o curiosità per come si erano svolti i fatti.
Suo punto di partenza erano gli archivi privati che le molte conoscenze nel mondo politico schiudevano alla sua passione di indagatore; non meno preziose nella loro caducità gli parevano le fonti orali: "... datemi le carte che avete, lasciatevi da me interrogare; verrò in Calabria, vedrò i luoghi, raccoglierò sui luoghi altre notizie...": queste sue parole, rivolte a Donato Morelli, sono all'origine del volume su Una famiglia di patriotti. Ricordi di due rivoluzioni in Calabria (Roma 1889), teso a cogliere nella frattura fra dinastia borbonica da una parte e gruppi dirigenti dall'altra la causa del declino del Regno meridionale tit il 1848 e il 1860.
Il problema del crollo dei Borboni stava molto a cuore al D., che lo trattò a fondo nell'opera sua più fortunata, quella Fine di un regno dal 1855 al 6 sett. 1860, apparsa prima a puntate sul Corriere di Napoli nel 1894, poi ampliata e raccolta in volume per l'editore Lapi (Città di Castello 1895), quindi arricchita in due edizioni successive (I-II, ibid. 1900; I-III, ibid. 1908-09), che si impose subito per il disegno - la ripartizione della materia per settori ne avrebbe fatto un modello più volte ripreso - e per il taglio tra il cronachistico e l'aneddotico, nonché per la sapienza e la scorrevolezza di una ricostruzione che, sebbene non esente da errori di fatto, sapeva penetrare negli uomini e nelle istituzioni dando "una immagine vivace, mossa, animata da innumeri testimonianze, della vecchia società meridionale d'innanzi il '60" (Moscati, p. VIII), con un'indagine capace di spaziare nei campi più vari dell'attività umana secondo un concetto di cultura quasi antropologico.
La simpatia con cui il D. si era accostato alla storia del caduto Regno napoletano a molti parve nostalgia e qualcuno lo etichettò come uno "pseudo liberale" (Farini, II, p. 1136). In realtà non ci potevano essere dubbi sul carattere negativo della sua diagnosi e sulla pesantezza delle responsabilità da lui attribuite ai Borboni: fotografare il Regno meridionale nei suoi ultimi anni di vita equivaleva per il D. ad additare nello scollamento tra istituzioni e società civile le cause del crollo. Senonché il raffronto, spesso tentato, tra passato e presente, non sempre si risveva a vantaggio dei contemporanei, speci sotto il profilo morale; e l'esaltazione acritica dello Stato e dei gruppi venuti alla ribalta dopo il 1860 era ben lungi dalle intenzioni dello storico che, nella realtà dei suoi tempi, ritrovava nel servilismo e nel malcostume molti degli antichi difetti e, eclissatasi l'autorità del sovrano, ben pochi pregi.
In un'epoca, inoltre, in cui il Meridione era visto dalle forze al potere solo come un serbatoio di voti, il D. cercava di rivendicare i meriti di una robusta tradizione politica e culturale ricordando quelle figure che aveva conosciuto da giovane e che ai suoi occhi rappresentavano la continuità delle nuove generazioni rispetto ai Poerio e ai Troya tanto celebrati nella Fine d'un regno. Così tra le tante commemorazioni da lui tenute nei circoli politici moderati vanno citate quelle su Antonio Scialoja. Memorie e documenti (Città di Castello 1893), Silvio Spaventa giornalista (Napoli 1895), Umberto I (Alessandria 1901: non priva di qualche accenno critico verso la "debolezza e persino rassegnazione" dimostrate per eccesso di discrezione dal sovrano), Enrico Cosenz (Napoli 1902), Pasquale Turiello ibid. 1905), Gerolamo Nisio (Trani 1908), Giuseppe Biancheri olivocoltore e uomo politico (Roma 1919), Giuseppe Pavoncelli (Trani 1911): tutte rievocazioni, occasionali quanto sentite, che erano state preparate nei ritagli di tempo lasciati liberi dalle opere maggiori, tra le quali deve segnalarsi ancora l'opera su Roma e lo Stato del papa, dal ritorno di Pio IX al 20 settembre (I-II, Roma 1907).
Qui lo stesso schema adottato nella Fine di un regno era piegato a ricostruire la complessa realtà dello Stato pontificio al tramonto del potere temporale, con una non celata ambizione di completezza che faceva sì che nella narrazione fossero presi in considerazione tutti gli aspetti di quella realtà, da quelli politici, sociali ed economici a quelli frivoli e mondani della vita quotidiana. Certamente una minore partecipazione personale rispetto al lavoro sul Regno meridionale provocava non rare cadute nel bozzettismo fine a se stesso, ma l'abbondanza delle notizie e dei dati raccolti, frutto di un ben collaudato metodo di ricerca, serviva bene all'intento dello storico che era quello di dimostrare che la fine del potere temporale, più che un fatto rivoluzionario, era stato il prodotto di una crisi delle coscienze adeguatamente sfruttata dagli uomini della Destra storica.
Il 26 genn. 1910 il Sonnino, da poco capo del governo, fece nominare il D. senatore. La nuova. esperienza, vissuta con la stessa animosità e la stessa dedizione di quella di deputato, approfondì il solco che lo divideva dal resto della classe politica, facendone, con G. Mosca, uno dei pochi risoluti avversari di riforme importanti come l'istituzione del suffragio universale, che giudicava prematuro a causa dell'ancora massiccio analfabetismo, e la concessione dell'indennità ai deputati, che portava un colpo decisivo alla sua concezione di una classe politica socialmente molto selezionata. L'Italia giolittiana segnava il tracollo dei suoi ideali, e il bilancio della storia nazionale che il D. tentava nel rapido Sommario di storia politica e amministrativa d'Italia commissionatogli dall'Accademia dei Lincei (Milano 1911; ripubblicato nel 1912 a Città di Castello coi titolo Mezzo secolo di storia italiana, 1861-1910) non era affatto lusinghiero, risultando la sua sintesi densa di accenti critici verso gli ultimi esiti delle degenerazioni parlamentaristiche (tale gli appariva l'evoluzione del sistema polifico-costituzionale) e verso la demagogia con cui secondo lui ci si sforzava di contrastare l'assalto socialista allo Stato: sotto il peso di un cupo pessimismo sulle sorti del paese, la serenità del vecchio moderato liberale si dissolveva fino a sfociare in una esaltazione neanche troppo larvata delle soluzioni autoritarie.
Nei mesi in cui si decise la partecipazione italiana alla prima guerra mondiale a fianco dell'Intesa, il D., che sembra fosse un assiduo frequentatore della residenza dell'ambasciatore tedesco a Roma, si ritrovò proprio vicino al Giolitti a sostenere i vantaggi della neutralità. Gli eventi successivi lo videro quasi fare ammenda della durezza con cui aveva condannato la scelta bellica, partecipando ad iniziative a favore dei soldati e delle loro famiglie: "Davvero il suo tramonto non fu all'altezza della sua vita..." osserva un biografo (Viterbo, p. 326) narrando gli anni conclusivi di un'esistenza che era stata operosa fino alla fine. Pochi gio rni prima di morire il D. aveva, infatti, consegnato all'editore la prefazione al suo ultimo volume, Il conte G. Greppi e i suoi ricordi diplomatici (Roma 1919).
Il D. morì a Roma il 29 nov. 1918.
Fonti e Bibl.: Per l'attività parlamentare si vedano gli Atti Parlam., Camera, Discussioni, XX legislatura, sessione 1897, I, pp. 1295-98, 1616 s., 1670 s., 2306; III, pp. 2674-87, 3107, 3285, 3294, 3322, 3374, 3476, 4472, 4731, 4804-14; V, pp. 5359, 5964; VI, pp. 6372, 6548 s., 6766 s.; sessione 1898-99, IV, ad Ind.; sessione 1899-1900, III. ad Ind.; XXI legisl., sessione 1900-01, VII, ad Ind.; sessione 1902-04, Indice alfab. e analit., ad Ind.; Id., Senato, Discussioni, legisl. XXIII, sessione 1909-13, XV, ad Ind.; legisl. XXIV, sessione 1913-19, V, ad Ind. Sull'adolescenza alcune notizie dà lo stesso D., La Puglia dal 1848 al 1860, in Rass. pugliese di scienze, lettere ed arti, VII (1890), 2, pp. 17-21 e nella commemor. cit. del Nisio. Per gli esordi nel giornalismo si vedano la commem. del Turiello. cit. e, sempre del D., Il giornalismo napol. di quarant'annifa, in La Critica, VIII (1910), pp. 110-15; e, inoltre, i Carteggi di V. Imbriani: V. Imbriani intimo, e Gli hegeliani di Napoli, I-II, a cura di N. Coppola, Roma 1963-64, ad Ind. Giudizi dei contemporanei e qualche dato in S. Spaventa, Lettere polit. (1861-1893), a cura di G, Castellano, Bari 1926, ad Ind.; G. Finali, Memorie, Faenza 1955, ad Ind.; D. Farini, Diario di fine secolo, I-II,a cura di E. Morefli, Roma 1961, ad Ind.; Dalle carte di G. Giolitti. Quarant'anni di Politica it., I-III, Milano 1962, ad Ind.; G. Fortunato, Carteggio 1865-1911, I-II, a cura di E. Gentile, Roma-Bari 1978-79, ad Ind.; E. Perodi, Roma italiana. 1870-1895, Roma 1980, ad Indicem. Il lavoro d'insieme più completo è quello di M. Viterbo, R. D.: il giornalista, lo storiografo, il parlamentare. Luci ed ombre, in Studi di storia pugliese in onore di G. Chiarelli, Galatina 1977, VI, pp. 287-326. Una buona bibliografia in F. De Cesare, R. D., tesi di laurea, univ. di Roma, fac. di lettere, anno accad. 1968-69. In partic. sul D. storico, si vedano B. Croce, recensione di Roma..., in La Critica, VI (1908), pp. 10 ss.; G. Beltrani, L'opera sociologica di R. D., Trani 1910; A. Luzio, La Roma di Pio IX, in Studi e bozzetti di st. letter. e polit., Milano 1910, II, pp. 463-76; S. F. Romano, introduz. a La fine di un regno, Milano 1961; H. Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Milano 1962, ad Ind.; W. Maturi, Interpretazioni del Risorg., Torino 1962, ad Ind.; R. Moscati, introduz. a La fine di un regno, Roma 1975. Sul D. pubblicista e sui suoi interventi sulla questione romana: C. Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, mod. e contemp., Trani 1904, pp. 241 ss.; P. M. Arcari, Le elaboraz. della dottrina politica naz. fra l'Unità e l'intervento (1870-1914), I, Firenze 1934, pp. 323-26; G. B. Gifuni, R. D. e il processo del "mezzo termine", in Nuova Antologia, ottobre 1956, pp. 235-46; G. Spadolini, Giolitti e i cattolici, Firenze 1960, ad Ind.; Id., L'opposiz. cattolica da Porta Pia al '98, Firenze 1961, ad Ind.; F. Fonzi, Crispi e lo "Stato di Milano", Milano 1965, ad Ind.; O. Confessore, La "Rassegna nazionale" e la polit. coloniale crispina (1893-1896), in Rass. stor. d. Risorg., LIV (1967), p. 27; P. Scoppola, Chiesa e Stato nella st. d'Italia. Storia documentaria, Bari 1967, ad Ind.; G. Licata, La "Rassegna nazionale". Conservatori e cattolici liberali ital. attraverso la loro rivista (1879-1515), Roma 1968, ad Ind.; A. Capone, L'opposiz. meridionale nell'età della Destra, Roma 1970, ad Ind.; O. Confessore, Conservatorismo polit. e riformismo religioso, Bologna 1971, ad Ind.; M. Belardineri, Un esperimento liberalconservatore: i governi Di Rudini (1896-1898), Roma 1976, ad Ind. Infine sulla partecipazione attiva del D. alla vita politica: M. Viterbo, La Puglia e il suo acquedotto, Bari 1954, pp. 195, 204, 213, 222 ss., 228, 233, 235; F. De Felice, L'agricoltura in Terra di Bari dal 1880 al 1914, Milano 1971, ad Ind.; U. Levra, Ilcolpo di Stato della borghesia, Milano 1975, ad Ind.; F. Barbagallo, Stato, Parlamento e lotte polit-sociali nel Mezzogiorno 1900-1914, Napoli 1976, ad Ind. Una buona biografia del D. e una ricca selezione dei suoi articoli in C. Weber, Quellen und Studien zur Kurie und zur vatikanischen Politik unter Leo XIII, Tübingen 1973, pp. 209-352.