LECA, Raffaele da
Nacque intorno al 1415, primogenito di Rinuccio di Nicolò e di una dama della casata Della Rocca di cui si ignora il nome; ebbe numerosi fratelli, tra legittimi e illegittimi.
Il padre, appartenente a una delle casate baronali della Corsica sudoccidentale, aveva creato dal nulla, tra il 1416 e il 1440, il più organizzato e solido Stato feudale isolano incentrato sui castelli di Sia, Leca e Cinarca e comprendente una dozzina di pievi, tra il monte Senino, nel golfo di Porto, e il fiume Gravone.
Non si hanno notizie del L. fino al 1431, quando risulta essere promesso di Bianchina - figlia di Simone De Mari, signore di Capo Corso - che, anni dopo, egli avrebbe fatto trucidare con l'accusa di adulterio.
Con i fratelli Anton Guglielmo e Restoruccio seguì il padre in numerose imprese di guerra, meritandosi la fama di valoroso uomo d'arme; nel 1440 cercò, senza successo, di impadronirsi con l'inganno del castello di Cinarca, allora occupato da Giano Fregoso. Nella primavera 1445, inviato dal padre insieme con i fratelli a presidiare Calvi (cittadina che i signori da Leca aspiravano da sempre a fare propria), ottenne una completa vittoria sulle milizie del governatore pontificio Monaldo Paradisi. Pochi mesi dopo accompagnò il padre nella conquista della Terra di Comune, dove era stato invitato dai "caporali" (capifazione popolari) avversi al dominio papale, e fu probabilmente al suo fianco quando, sotto le mura di Biguglia, Rinuccio morì combattendo contro Vincentello (II) e Francesco d'Istria. Nel combattimento il fratello Anton Guglielmo cadde prigioniero, così che il L. si trovò ad affrontare da solo la difficile situazione venutasi a creare a seguito della scomparsa del padre. Attento solo a conservare il dominio paterno, così faticosamente messo insieme, il L. si disinteressò di quanto accadeva nell'isola, per raggiungere Leca e mettere in stato di difesa le sue fortezze.
Egli aveva tuttavia ereditato dal padre una grande ambizione e un forte senso aristocratico che lo portavano a considerarsi il naturale erede dell'antica schiatta dei signori di Cinarca e, pertanto, il più titolato a pretendere la supremazia sulla parte feudale dell'isola.
Per questa ragione, quando nel 1446 Giudice d'Istria, un nipote del conte Vincentello (I), sbarcò ad Ajaccio presentandosi quale luogotenente di re Alfonso V d'Aragona, il L. scese in campo contro di lui, non volendo altri competitori all'interno del baronaggio cinarchese. Rimasto ferito in combattimento, fu costretto a rifugiarsi nel castello di Leca, lasciando mano libera a Giudice. Contrastato dagli altri baroni, questi non ebbe però modo di incrementare le sue conquiste perché fu sconfitto da un corpo di truppe pontificie inviate da Roma e costretto a sottomettersi al governatore papale. Solo fra tutti i signori feudali a non riconoscere il dominio della S. Sede fu il L., assediato nel castello di Cinarca, ma per sua fortuna la morte di Eugenio IV (1447) scompaginò il fronte dei fautori della Chiesa, tanto più che il capitano dell'esercito pontificio, Marino da Norcia, cercò senza fortuna di rendersi signore dell'isola. Nel disordine che ne seguì il L. poté riconquistare con le armi tutti i territori perduti e lo stesso fecero gli altri baroni, soprattutto a spese della casa d'Istria, che era stata la maggiore fautrice della signoria papale. Il successore di Eugenio IV, il sarzanese Niccolò V, amico di vecchia data dei Fregoso, si lasciò convincere da loro a dare il governo della Corsica a Ludovico, fratello del doge Giano, senza che tale atto significasse il trasferimento dell'isola al Comune di Genova. Ammaestrati dagli avvenimenti degli anni precedenti i Fregoso si mossero tuttavia con grande moderazione, cercando di trovare accordi separati con i caporali della Terra di Comune, senza tentare di imporre il proprio predominio sulle terre dello "Stato cinarchese". Il L. e gli altri baroni restarono così "signori liberi, senza recognoscere a niuno superiore" (Della Grossa, p. 350), e questa inusuale situazione di tranquillità diede loro l'opportunità di procedere ovunque a un rafforzamento del proprio potere.
Il malcontento provocato dalla stretta baronale rappresentò un fertile terreno di coltura per la predicazione del frate minore napoletano Nicolò da Luciano, dal 1449 attivissimo nelle pievi della Corsica meridionale. Le sue prediche non erano incentrate solo nell'affermazione di ideali di pace e di giustizia, ma proponevano una rigenerazione della società, attraverso l'istituzione capillare di confraternite di "battuti" con competenze anche secolari, quali strumento per comporre liti e discordie d'ambito locale. Favorito inizialmente da alcuni signori feudali, il movimento assunse ben presto caratteri spiccatamente politici, che finirono con l'impensierire il baronaggio cinarchese, timoroso di vedere messa in discussione la legittimità del proprio potere. Particolarmente ostile nei confronti dei battuti si mostrò proprio il L., che non solo non acconsentì mai all'istituzione di simili confraternite nel suo dominio, ma ne perseguitò duramente i seguaci, imprigionandoli, mettendoli al bando e confiscandone i beni. Il L. e Giudice Della Rocca ottennero dal padre generale degli osservanti il richiamo di frate Nicolò in Italia, la cui partenza bastò a disperdere in poco tempo le file dei suoi seguaci.
Liberati dalla minaccia di una rivoluzione sociale d'ispirazione religiosa e senza che dall'esterno apparissero al momento forze aspiranti al predominio sulla Corsica, i signori cinarchesi poterono riprendere le loro consuete contese intestine finché uno di loro, Antonio Della Rocca, richiese ad Alfonso V d'Aragona di intervenire per riprendere il controllo dell'isola. Nel 1451 il sovrano napoletano inviò in Corsica come viceré Jaime Imbissora con un piccolo seguito di truppe. La maggioranza dei baroni fece atto di sottomissione e gli consegnò i propri castelli e anche il L. si dichiarò pronto a prestare giuramento di fedeltà, ma di fronte alla richiesta di aprire le porte delle sue fortezze ai soldati aragonesi oppose un fermo rifiuto. Il viceré, reso sospetto dal suo atteggiamento e consigliato dai numerosi nemici del L., decise pertanto di muovergli guerra prima ancora di marciare verso la Terra di Comune, ma morì poco dopo, mentre si accingeva ad assediare il castello di Cinarca. I baroni che avevano abbracciato la causa aragonese decisero allora di eleggere nuovo viceré l'omonimo nipote del defunto, ma rivalità e defezioni finirono col far fallire l'impresa, tanto più che Alfonso V, benché personalmente sollecitato dai capi isolani, rifiutò di inviare nuove truppe. Si venne così a creare una drammatica situazione di stallo e di anarchia, della quale il L., in quel momento il signore più potente dell'isola e fornito del maggior prestigio, avrebbe forse potuto approfittare per imporre il proprio predominio. Invece, inspiegabilmente, si lasciò sfuggire l'occasione, favorendo così il nuovo tentativo genovese di riprendere il controllo della Corsica.
Dopo essere stato nominato da Niccolò V governatore dell'isola, Ludovico Fregoso era infatti riuscito ad assumere il controllo di buona parte della Terra di Comune, ottenendo l'adesione di numerosi caporali; ma nel 1449, richiamato a Genova dalla morte del fratello Giano (dicembre 1448), egli - nel frattempo eletto nuovo doge - aveva lasciato il governo della Corsica al cugino Galeazzino. Questi, mal consigliato, non aveva saputo gestire adeguatamente i rapporti con i caporali sicché nel giro di pochi mesi si era trovato ad avere il controllo soltanto di alcuni castelli della costa. Osteggiato dai Corsi e mal tollerato dal nuovo doge Pietro Fregoso, nel 1453 egli si risolse a vendere le fortezze di cui conservava il dominio al Banco di S. Giorgio che, forte di un largo sostegno dell'isola ("veduta" di Lago Benedetto, 23 febbr. 1453) e del beneplacito del doge e dello stesso pontefice, si accinse con grande impegno e dispendio di energie a sottomettere il nuovo dominio, prescindendo del tutto dalla politica clientelare perseguita dai precedenti governi.
Avuta notizia dell'imminente cessione dell'isola al Banco, il L., che aveva da tempo instaurato buoni rapporti con Genova (ottenendo col fratello Anton Guglielmo l'ascrizione onorifica alla famiglia Doria) pensò di trarre vantaggio dall'incerta situazione esistente per ampliare i propri domini a spese dei baroni vicini, accordandosi con Giudice Della Rocca per spartirsi fra loro lo "Stato cinarchese". Il suo tentativo di impadronirsi del castello di Ornano, rimasto in mano del viceré aragonese e degli Istria, fu reso vano dall'intervento del governatore inviato dal Banco, Salvago de Salvaghi, il quale in poco tempo ottenne la sottomissione di tutti i baroni cinarchesi. Anche il L. allora si ritirò prudentemente nel suo dominio, e il 15 luglio 1453 giurò fedeltà ai Protettori del Banco di S. Giorgio, ottenendo il libero possesso dei suoi antichi domini, compresi Cinarca e il castello di Ajaccio.
I rapporti col nuovo governo rimasero però sempre alquanto tesi, anche perché egli - come già suo padre - continuò a considerare il territorio di Calvi come zona di sua influenza, venendosi così a scontrare con il Banco che, sollecitato dagli abitanti, vi aveva posto un commissario e una guarnigione. Temendo di vedere compromessa la propria autorità, cominciò pertanto a tramare per favorire un intervento di Alfonso V, nuovamente in rotta con i Genovesi. La sua corrispondenza con Napoli fu però intercettata così che, svelato il complotto, fu proclamato bandito e ribelle e contro Cinarca, nell'agosto 1454, fu inviato un esercito che lo strinse d'assedio. In poche settimane gran parte dello "Stato lechesco" andò perduto, ma il L. oppose una fiera resistenza e solo dopo tre mesi di duri combattimenti si arrese, ottenendo onorevoli condizioni. Forse sperava di poter ancora conservare Leca e le altre sue terre, ma i Protettori di S. Giorgio, timorosi della sua popolarità e delle aderenze che aveva a Napoli, decisero di continuare nella lotta fino alla sua completa distruzione. Forte della fedeltà dei suoi vassalli, egli si difese però con grande astuzia e abilità, conducendo una guerriglia aspra e feroce che per quasi due anni riuscì a tenere in scacco le milizie genovesi, ricevendo soltanto saltuari aiuti da Napoli e da altri baroni. Rimasto solo dopo la pace conclusa tra re Alfonso e il Banco, fu alla fine stretto d'assedio nel castello di Leca, insieme con i più stretti parenti.
Nell'aprile 1456 il commissario genovese Antonio Calvi, favorito da un tradimento, riuscì a espugnare la fortezza, e il L., fatto prigioniero, fu impiccato insieme con ventidue tra fratelli e cugini.
Il suo corpo, squartato e messo sotto sale, fu esposto in varie località dell'isola. Dai matrimoni prima con Bianchina De Mari e poi con un'altra donna di casato ignoto ebbe vari figli, ma nessuno di loro riuscì a succedergli. La sua morte segnò infatti la momentanea fine dello "Stato lechesco", ma il fratello Giocante, esiliato a Napoli con i superstiti della famiglia, lo ricostituì di lì a pochi anni ed esso si conservò poi fra alterne vicende, sotto la guida del figlio Rinuccio e del nipote Gian Paolo, fino agli ultimi anni del Quattrocento.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Primi Cancellieri di S. Giorgio, 7, doc. 347; 14, doc. 571; 15, doc. 246; 32, doc. 44; Arch. di Stato di Milano, Sforzesco, 411 (lettera 30 apr. 1456); Genova, Biblioteca civica Berio, m.r. C.V.16: Albero de signori Cinarchesi, in specie Leca…; Conventions entre Guglielmo et Raffaele Doria, précédemment seigneurs de Leca et Pietro Battista Doria, délégué de l'Office de Saint-Georges, a cura di L. Letteron, in Bulletin de la Société des sciences historiques et naturelles de la Corse, XXVI (1883), pp. 11-29; G. Della Grossa, Chronique médiévale corse, a cura di M. Giacomo Marcellesi - A. Casanova, Ajaccio 1998, pp. 301, 314 s., 334-357, 362 s., 368 s., 370-403; A.P. Filippini, Istoria di Corsica, Pisa 1827, II, pp. 301, 303 s., 315 s., 318, 321, 325-327, 329, 331-333, 336, 339-345; L. Sandri, Il governo pontificio in Corsica all'epoca di Eugenio IV, in Arch. stor. di Corsica, XIII (1937), pp. 5, 9, 12 s., 16; G. Casanova, Essai sur la seigneurie banale en Corse, II, in Études corses, LXXIX (1959), p. 40; P. Antonetti, Histoire de la Corse, Paris 1973, pp. 168, 177 s.; F. Perasso Da Rin, Il primo governo del Banco di S. Giorgio in Corsica, in Serta antiqua et mediaevalia, V (2001), pp. 315-317, 337.