CARROZZARI, Raffaele
- Nato a Ferrara, da Giuseppe e da Erminia Boari, il 21 gennaio 1855, frequentò le scuole medie nella sua città natale e a Bologna; quindi, a Firenze, l'università. Qui si laureò e conseguì successivamente il diploma di magistero. La scelta dell'università, ove non abbiano inciso motivi di pratica opportunità domestica, stupisce, in quanto la Firenze "classicista" di allora era la Firenze del maggior Comparetti e del primo Vitelli, una Firenze, cioè, dove lo storicismo "romantico" già ormai cedeva al tecnicismo filologico. Le due cose che il C. non fu mai: nonostante l'ottima sua conoscenza del latino e del greco, nonostante la sua propensione alla curiosità e cultura storica, non fu, invero, mai né filologo né storico del mondo antico. Al quale si avvicinò da letterato, da "umanista" nel senso accademico della parola. Conforme all'esempio nostrale della prima metà dell'Ottocento e, sempre, della sua provincia o regione nativa, il C. studiò, interpretò e tramandò l'antico per i tramiti della traduzione, dei certami poetici, delle scritture occasionali o di circostanza, generalmente in versi latini o italiani. Il C., quindi, benché allievo di Firenze, in realtà si riconnette alla consuetudine della scuola bolognese del sia pure non bolognese Gandino, nonché all'esempio e all'uso della comune degli insegnanti, ecclesiastici e laici, della dotta Romagna: non senza, tuttavia, che anche su di lui agisse efficace l'insegnamento del Carducci.
Immerso nell'atmosfera, e per qualche modo nel rinnovamento metrico-stilistico, delle Odi barbare, incline, quindi, come altri parecchi (in specie, Chiarini, Cavallotti, Fraccaroli, Stampini), a studiare i metri barbari e in genere gli schemi della metrica nostra, vuoi tradizionale vuoi "classica", il C. debuttò, già insegnante (poi "direttore") della scuola tecnica pnvata di Cento, con Precetti di elocuzione con appendice sulla metrica italiana (Ferrara 1878), cui seguirono un'alcaica italiana IX Gennaio (ibid. 1880), carduccianamente e manzonianamente celebrativa dell'anniversario funebre di Vittorio Emanuele II, l'importante opuscolo Septem Odarum Iosue Carduccii Latina interpretatio (ibid. 1883) e, in parte rielaborando il materiale dell'opuscolo stesso, il Saggio di versioni poetiche in greco e dal greco (Bologna 1884).
Qui si leggono, nei metri medesimi dell'originale carducciano (serbati altresì nella versione latina), le versioni in greco delle seguenti Odi barbare: Alla regina d'Italia, Fantasia, Alla vittoria di Brescia, Ruit hora, Mors (grecamente, Thanatos, che delle versioni è la più, o la sola veramente, infelice) e InPiazza di San Petronio (forse la migliore). L'una e l'altra versione, e quasi direbbesi "retroversione", carducciana del C., sebbene il Carducci non sembri avere mai preso atto né pubblicamente né in lettere private, non debbono, o non dovrebbero, essere dimenticate dagl'interpreti del Carducci, soprattutto se attenti allo stile delle Odibarbare:le versioni del C., difatti, aiutano all'intelligenza della lingua e del vocabolario delle Barbare:la giacitura e collocazione delle parole, i frequenti iperbati, suggeriti non meramente da necessità metrico-formali, sì anche da echi o propositi di analogia e d'imitazione oraziana, essendo il C. attentissimo a serbare al massimo, nelle sue versioni, la positura dei vocaboli e la trama stilistica dell'originale.
Molto inferiori alle versioni carducciane sono, invece, nel Saggio citato, le versioni in latino e in italiano delle due odi di Saffo (ripubblicate, successivamente, ad incastro nei poemetti Ultima Vergilii dies, la seconda, e Lesbia la prima; vedi Carmina, Milano 1921, pp. 132-133, 155-156).
Se la versione italiana fu probabilmente suggerita dal desiderio di concorrenza e col Foscolo e col Canna, e se nella versione latina il C. osò gareggiar con Catullo, il traduttore fallì, tuttavia, massime nel latino, dove al v. 3 della seconda ode di Saffo si permise un labellis, che è contrario alle norme stilistiche dell'alta lirica: un errore, d'altronde, in cui sovente inciampò il C. anche nelle proprie composizioni originali, ad esempio, basia in un epillio, dove (pertanto) l'autore avrebbe dovuto affrancarsi dalla suggestione del libellus catulliano. Invece, la versione della prima Pitica di Pindaro in strofe libere leopardiane, anch'essa forse dettata dal proposito di competere con i contemporanei esordi del Fraccaroli, mostra che il C. sarebbe potuto riuscire nell'ardua impresa meglio assai del letterato veronese (non avesse avuto, quest'ultimo, una competenza storico-filologica incomparabilmente superiore non solo a quella del C., ma a quella di pressoché tutti i suoi colleghi e rivali italiani).
Entrato nella carriera statale il 1º ott. 1893, quale docente al ginnasio di Spoleto, qui nel '94 il C. pubblicò Horatia, cioè, affiancato dalla traduzione in endecasillabi sciolti, il "carmen" Horatia a fratre interfecta, con cui era entrato vittorioso nel certame poetico hoefftiano (Amsterdam 1894). L'Horatia (elegante parafrasi, nulla più, del racconto liviano, non senza un accurato studio altresì della narrazione parallela di Dionigi d'Alicarnasso, con qualche lontana eco di Corneille e certa elegiaca sensiblerie, o gentilezza lacrimosa, che del C. fu sempre la peculiare caratteristica nell'aggiustamento dei temi classico-storici da lui trattati) inaugurò la serie degli otto carmi, quindi raccolti nel volume dei Carmina selecta, che "ebbero l'onore altissimo del premio aureo o di una particolare segnalazione nel concorso Hoefftiano". Celebre tra essi, almeno ai suoi tempi, Amaryllis (ibid. 1913); ma stupisce che in quest'attività concorrenziale col Pascoli quest'ultimo non abbia mostrato mai di avvedersi del C. e che i giudici di Amsterdam l'abbiano talvolta preposto al poeta di PomponiaGraecina e di Thallusa:col quale, d'altronde, almeno quanto a tematica esterna e a premesse culturali (oltre che per la comune matrice "romagnola"), il C. presenta non poche analogie.
Entrambi, ad esempio, probabilmente sollecitati dal cosiddetto "quovadismo", cioè dal rinnovato interesse per le origini della comunità cristiana di Roma e le prime persecuzioni, dovuto all'immensa voga e alla popolarità straordinaria del romanzo del Sienkiewicz, cantarono storie di conversioni o di convertite, il Pascoli immaginando cristiana Pomponia Graecina e il C. immaginando cristiana, almeno dopo la morte e la pietosa sepoltura di Nerone, la liberta ed ex favorita Acte (Carmina, pp. 57 ss., 73: "se cryptas abdidit Acte / et pietate nova Christi flagravit alumna"), colta e cantata nel ruolo improprio di fanciulla sedotta, d'innamorata fedele e di peccatrice pentita: nonché (nella scia non pur della notizia svetoniana, ma del Nerone di Boito) la vestale, od ex vestale, e martire cristiana Rubria (nel poemetto omonimo, Firenze 1902). Entrambi cantarono parimente, in margine alla tradizione biografica su Catullo, Virgilio, ed Orazio, episodi della vita dei tre grandi, il Pascoli trasfigurando poeticamente il dato della tradizione e la personalità dei singoli vates; il C., invece, ormeggiandoli, e cedendo più volte al gusto dell'intarsio, alla mera imitazione o rievocazione stilistico-linguistica.
Mentre il C. proseguiva la carriera d'insegnante (da Spoleto passò nel '95 al ginnasio di Ferrara, nel '97 al ginnasio Dante di Firenze, nel 1898 al liceo Archita di Taranto, nel 1906 al liceo Dettori di Cagliari e infine dal 1909 fino alla morte ai licei Parini e Berchet di Milano), gli eventi storici coevi o delle sue sedi scolastiche gli suggerirono varia attività di traduttore e di latinista. Stampò, ad esempio, un epillio esametrico Irisalba illyrica seu florentina (Firenze 1897) per le nozze del principe di Napoli con Elena di Montenegro, dove son echi molteplici, e non infelici, della Firenze foscoliana dei Sepolcri, e dove si tradisce il conformismo del lusus fra l'accademico e il patriottico, simultaneamente dimostrato dal Gandino nella sua parafrasi del vaticinio oraziano di Nereo.
Stampò analogamente (Livorno 1901) un opuscolo De Rege Humberto I nefarie interfecto ("Odecum italica interpretatione"), dedicato alla regina Margherita nel primo anniversario del regicidio di Monza, qui pure in probabile concorrenza col Pascoli e col D'Annunzio, ma più contento nel rievocare, sia nel testo sia in apposite note latine, gli episodi salienti della vita di Umberto, dal quadrato di Villafranca, al terremoto di Casamicciola e al colera di Napoli, ed abile nell'intarsiare un'eco della manzoniana "spoglia esanime" nel contesto d'un'alcaica carduccianeggiante.
A Taranto, che gl'ispirò il "carmen" Tarentum a Romanis receptum (in Carmina, pp.169 ss.), tornò alla pratica delle versioni da poesia greca, affiancando alla traduzione dell'Elettra di Sofocle (Ferrara 1883) la traduzione (Taranto 1905) dei cento Epigrammi di Leonida Tarentino mentre, prima e dopo, fu operoso nell'apprestare edizioni scolastiche di Virgilio (le Bucoliche, Firenze 1895, le Georgiche, ibid. 1896, i primi sei libri dell'Eneide, Roma 1907-1908) e delle lettere di Cicerone (Milano 1901). Agli anni milanesi, e all'esperienza del "realismo" lombardo, probabilmente, è infine da ascrivere il superamento degli epilli storici e mitologici (per esempio, Smilax et Crocus, Firenze 1896) nel poemetto prosastico-domestico Caecilia (in Carmina, pp. 115 ss.), dove il C., celibe, s'immagina nei panni d'un vecchio nonno, amorevole educatore dell'orfana cinquenne d'una sua figliola, cui legge il Corriere dei piccoli e che accompagna in convalescenza, durante la prima guerra mondiale, in una villetta sul Verbano: estremo conforto d'un uomo che, senza mai trascendere i limiti d'una corretta ed ornata "letteratura", dimostrò, non di meno, in tutta l'opera sua, fedelissimo amore alla poesia e alla scuola.
Il C. morì a Milano il 15 ag. 1918.
Fonti e Bibl.: Per i dati personali si consultino gli arch. del min. della Pubblica Istruz., del provveditorato agli studi di Milano (Ufficio ruolo) e del liceo-ginnasio "Giovanni Berchet" di Milano; inoltre si veda il profilo bio-bibliografico del C., tracciato dai colleghi C. Canilli e U. Nottola, postumi editori dei Carmina selecta, Milano 1921, pp. 1 ss.; nonché T. Sorbelli nel saggio premesso ad A. M. Casoli, Lyricorum liber, Modena 1922, pp. XII-XIV.