CARESINI, Rafaino (Raffain, Raphainus, Raphaynus, Raphael de Caresinis)
Figlio di Enrico di Alberto, notaio e possidente cremonese "de vicinia S. Fabiani", nacque non dopo la metà del 1314, come risulta dal primo atto da lui rogato a Venezia il 14 giugno 1334. In questo documento il C., oltre a ricordare il nome e le origini del padre, si definisce infatti "notarius sacri Palatii": ora, per la nomina a notaio imperiale si richiedevano almeno vent'anni di età (E. Pastorello, Introduzione all'edizione critica della Cronaca del C., p. VI). è comunque destituita di fondamento la notizia dell'origine vicentina della famiglia Caresini registrata dal tardo Pietro Gradenigo (Venezia, Civico Museo Correr, cod. Gradenigo 83, I, f. 175r). Legati alle fortune di Enrico Scrovegni e della sua famiglia, il C. e suo padre seguirono anche nell'esilio il loro patrono: nel 1334 si trovavano infatti a Venezia, dove abitavano "in contrata S. Mauricii", probabilmente "in domo dominorum de Scrovegnis" (Pastorello, p. VI). Questa devozione per gli avversari dei Carraresi vale a spiegare l'ostilità nei confronti dei nuovi signori di Padova, alla quale il C. informò costantemente la sua attività di uomo politico e la sua opera di storiografo.
Nel marzo del 1336 rogò il testamento di Enrico Scrovegni; nell'ottobre del 1337 seguì i suoi due figli a Padova, trattenendovisi sicuramente sino al marzo dell'anno successivo; sempre a Padova, nell'estate del 1339, rogò alcuni atti in favore di servitori della famiglia Scrovegni. Solo nel 1341 si stabilì definitivamente a Venezia, entrando negli uffici della cancelleria ducale, ed iniziando così una carriera che comportava impegni rilevanti di natura diplomatica e stretti rapporti con i rappresentanti delle più potenti consorterie aristocratiche della città lagunare.
Notaio dei Quaranta nel 1343 (Pastorello, p. VI); scrivano ducale nel giugno 1344, nell'ordocuriae del 1349 figurava al terzo posto fra i ventun notai di cancelleria (ibid.). Da questa data il C. prese. ad esplicare una intensa attività diplomatica, segno del favore e della fiducia da lui goduta nei circoli aristocratici più influenti del momento, e soprattutto presso i Dandolo, cui la fortuna politica del notaio sembra legata. L'attività diplomatica del C. e l'appoggio di cui godeva in Maggior Consiglio avrebbero finito anzi per valergli la carica di "cancellier grande". Le notizie sulla sua attività diplomatica si desumono dalla inedita cronaca di Gian Giacomo Caroldo e dai regesti dei Commemoriali. Nel 1348 seguì gli ambasciatori di Luigi d'Ungheria a Napoli (Pastorello, p. VII); nel 1350 fu inviato presso Mastino Della Scala di Verona per ringraziarlo della sua mediazione fra Venezia e l'Ungheria (ibid.). Nell'aprile 1353, come notaio dell'ambasciata veneziana a Innocenzo VI, consegnò al pontefice 18.000 ducati d'oro come quota veneziana per l'annamento di 18 galee contro i Genovesi (ibid.). Nel giugno 1354 fu inviato presso il signore di Padova, Francesco da Carrara, nominato capitano generale della lega contro i Visconti, per porgergli le felicitazioni del governo della Repubblica (ibid.): missione certo non gradevole per l'antico cliente degli Scrovegni. Nel gennaio del 1351 come ambasciatore a Milano presso i Visconti eredi dell'arcivescovo Giovanni, assolse al difficile incarico di avviare le trattative per una pace tra la città lombarda e Venezia: il carteggio allora intercorso tra il C. e la Signoria ci permette di seguire le fasi del progressivo sviluppo di questi negoziati. Quando le trattative furono giunte a buon fine, al C. si affiancò il "cancelliere grande", Benintendi de' Ravegnani, arrivato a Milano da Venezia, il quale firmò la pace con i Visconti il 1º giugno di quello stesso 1355 (ibid.). Nel febbraio e nel marzo dell'anno successivo il C. era a Genova per discutere, di fronte a Luchino Dal Verme, luogotenente visconteo nella città ligure, una questione commerciale (ibid.). L'8 ag. 1357 il doge di Genova inviò a Francesco Gattilusio, signore di Mitilene, una lettera riguardante l'adulterazione e la contraffazione del ducato d'oro veneziano compiute in officina, che risultava lavorasse sotto la protezione dello stesso signore di Mitilene. Nella lettera il doge fa esplicito riferimento ad una chiara richiesta avanzata in proposito dall'inviato veneziano Rafaino Caresini (Venezia, Civico Museo Correr, cod. Gradenigo 83, I, f. 175v). Nell'estate del 1358 il C. si trovava ancora a Genova, dove discusse e definì una nuova questione commerciale (luglio-agosto 1358: cfr. Pastorello, p. VIII). Nell'estate del 1360 fu mandato nuovamente a Genova, per discutere sia alcuni problemi commerciali, sia la costituzione di una lega (ibid.) che avrebbe dovuto muovere in soccorso dell'imperatore bizantino contro i Turchi.
Nel 1361 fu inviato ad Avignone presso il papa Innocenzo VI: egli doveva offrire l'aiuto della Repubblica contro i mercenari che scorrendo la Provenza sembravano minacciare anche la sede papale, ma doveva soprattutto ottenere il rinnovo della licenza di navigazione ad Alessandria per i mercanti veneziani. Quest'ultima concessione costò alla Signoria 9.000 fiorini (18 marzo-11 maggio 1361: ibid.).
Nei primi mesi del 1362 fu inviato presso il re d'Aragona ma non riuscì a condurre a buon termine l'ambasceria. Nel febbraio 1363 fu di nuovo inviato presso Francesco da Carrara per lamentare l'inflazione dei patti conclusi nel 1304 circa i confini di Sant'Ilario (ibid.). Nel novembre dello stesso anno ottenne dal doge di Genova un decreto che vietava ai mercanti genovesi di commerciare con i ribelli di Candia, insorta contro il dominio di Venezia (ibid.). Il 2 febbr. 1364 a nome della Signoria stipulò a Milano un contratto di condotta con Luchino dal Verme, il quale si incaricava così di reprimere la rivolta di Candia (ibid.). Nel giugno dell'anno 1364 il C. venne inviato ad Avignone col compito di impedire la riunione del patriarcato di Grado con la Chiesa di Venezia (ibid.). In tale occasione espose anche alla Curia pontificia il punto di vista della Signoria sul conflitto con il re d'Aragona. Ad Avignone lo raggiunsero alcune lettere della Signoria in cui lo si informava che il re d'Ungheria Luigi d'Angiò minacciava l'Istria; gli si inviarono, con le stesse lettere, anche disposizioni circa il viaggio delle galere veneziane in Egitto (ibid.). Nel luglio 1365 il C., poiché era stato nominato "cancellier grande", dovette rientrare a Venezia per assumere il nuovo incarico; recava fra l'altro proposte di pace degli Aragonesi (ibid.).
Durante il suo cancellierato il C., data l'età, non partecipò probabilmente in prima persona alle azioni militari della guerra di Chioggia ma diede un contributo in denaro pari a 500 ducati d'oro; questo gli valse l'ammissione nella nobiltà veneziana (ibid., p. IX). Dal 1381 fino alla fine della sua vita il C. non si sarebbe più allontanato da Venezia; il suo nome compare nei documenti storici di maggior interesse per la vita pubblica della Serenissima (ibid., p. X). L'ultimo atto pubblico da lui rogato è del 2 ottobre del 1389; il 29 agosto 1390 egli appose l'ultima nota di suo pugno al protocollo degli atti privati (ibid., nota 2). Morì il 9 sett. 1390 (ibid., nota 3). Lasciò un capitale non trascurabile investito in prestiti obbligazionari della Signoria - gli "imprestiti" - e in una serie di immobili, soprattutto case in affitto, a Cremona e a Venezia, come risulta partitamente dall'incartamento della sua esecuzione testamentaria, o "commissaria" (ibid., note 4 e 5).
Aveva sposato in prime nozze una certa Caterina, morta dopo il 19 ott. 1382; da lei aveva avuto un figlio, scomparso ancora in giovane età, ed una figlia, che andò sposa al medico Giovanni Balastro (ibid., nota 6). Dalla seconda moglie, Beatrice, egli aveva avuto due figli, Pietro - che sposò Elisabetta Loredan - e Giovanni. Col figlio di quest'ultimo - pur esso di nome Giovanni - si estinse la linea diretta della famiglia Caresini; né Pietro di Rafaino, né suo nipote Giovanni ebbero infatti discendenza (ibid.).
Un ritratto del C. compare nel codice Marciano it.VII, 770, membranaceo del sec. XIV, che contiene una traduzione in volgare della Cronaca da lui composta. Il cancelliere è raffigurato nella miniatura finale del manoscritto: in ginocchio, in atto di offrire al doge Andrea Venier, di cui in quella pagina si inizia la vita, il libro della sua opera.
Pur fra i suoi molteplici impegni di diplomatico e di uomo politico, il C. trovò il modo, al pari di tanti altri notai e diplomatici italiani suoi contemporanei, di comporre una storia di Venezia nel suo tempo, trasferendo in tal modo negli scritti storici il suo impegno politico: compose infatti una cronaca in latino degli avvenimenti veneziani dal 1343 al 1388.L'opera, che ora appare come una continuazione della Chronica brevis del doge Andrea Dandolo - il C. la intitolò "Chronica edita per me Raphainum de Caresinis Cancellarium Venetiarum continuando historiam post Chronicam compilatam per illustrissimae memoriae dominum meum Dominum Andream Dandulo ducem" -, fu in realtà concepita e compiuta in tre diversi periodi e con intendimenti differenti.
In un primo momento il C. si dovette limitare a stendere il resoconto della guerra di Chioggia, che infatti figura - nella redazione più ampia e conosciuta della Cronaca - con un incipit e con un prologo particolari. L'esposizione si articola in tre parti distinte: una prima, che rievoca gli avvenimenti compresi tra l'ottobre del 1372 e il luglio 1380 (pp. 30-50 dell'ediz. Pastorello); una seconda, che narra gli eventi del luglio 1380-dicembre 1381 (pp. 50-57); una terza, per i fatti susseguitisi tra il dicembre 1381 e il dicembre del 1383 (pp. 557-69). Questo primo nucleo della Cronaca è caratterizzato nella tradizione manoscritta, da una notevole uniformità del testo; fu composto, secondo la Pastorello (p. XI), "nel breve periodo di pace che segue il trattato di Torino e precede il riaccendersi della guerra nel Friuli", ed è espressione dell'odio implacabile nutrito contro Francesco il Vecchio da Carrara dall'antico familiare di Enrico Scrovegni. In particolare, il racconto della guerra di Padova del 1372-73 offre all'autore la possibilità di sfogare il suo malanimo nei confronti del Carrarese.
In un secondo momento - ma forse quando stava ancora lavorando alla storia della guerra di Chioggia - il C. si propose di fare della sua opera la continuazione della Chronica brevis di Andrea Dandolo. A quella già composta premise dunque una nuova parte, sintetizzando "iuxta agendorum exigentiam" gli avvenimenti dal 4 genn. 1343 all'ottobre del 1372, dal dogato di Andrea Dandolo - sotto il quale il C. aveva iniziato la sua fortunata carriera politica - a quello di Andrea Contarini (ediz. cit. 3 pp. 3-30). Sommaria, schematica, talora elusiva, la narrazione non registra tutte le più importanti vicende di quegli anni, o le ricorda per rapidi accenni, anche quando l'argomento avrebbe invece meritato un approfondimento maggiore - come nel caso della congiura di Marino Falier - o una maggiore ricchezza di particolari - come nel caso della pace del 1355 con i Visconti -, dove preziosa fonte di informazione avrebbero potuto essere i suoi stessi ricordi didiplomatico e di alto funzionario di Stato. Esiste una sproporzione evidente fra questa sezione aggiunta in un secondo momento e il nucleo primitivo - ben più ampio e complesso nell'impianto generale e nell'esposizione - dedicato alla guerra di Chioggia: sproporzione che la Pastorello ha voluto spiegare ammettendo che il C., contemporaneo e testimone dei fatti che andava narrando, non ebbe la libertà di pensiero e di parola dei cronisti, a lui posteriori di un secolo e mezzo, che utilizzando le stesse sue fonti scrissero la storia di quel periodo (p. XXIX).
Una appendice, dedicata agli avvenimenti compresi tra il 1384 e il 1388, ci è nota in due redazioni, "l'una in volgare, sommaria ed episodica", composta certo intorno al 1386, l'altra in latino, più diffusa, più accurata nei dati e nell'esposizione. Le giunte in latino, per alcuni studiosi apocrife, per ragioni di critica interna sono state attribuite dalla Pastorello (pp. XII s.) al C., ed inserite perciò nell'edizione critica come ultima parte della sua cronaca (pp. 62-74).
Non sappiamo se il C. abbia avuto il tempo e la possibilità di rivedere il testo della sua cronaca, in modo da darne una stesura definitiva. Certo è che l'opera del C. ci è pervenuta in tre versioni diverse per il contenuto, per l'impostazione generale e per la distribuzione della materia: di esse rimangono da chiarire i rapporti e le eventuali influenze reciproche.
La Cronaca ci èstata conservata in 19 manoscritti raggruppabili in quattro serie diverse. La prima, che rappresenta il gruppo di codici più vicini in ordine di tempo alla redazione dell'originale perduto, è costituita dal ms. Marc. lat.X, 237 (metà sec. XV), e dal ms. Marc. ital.VII, 770, del sec. XIV, che riporta la versione in volgare della Cronaca. La seconda serie, costituita da cinque codici, il cui archetipo è il cod. Lat.14621 della Biblioteca di Stato di Monaco, ci ha conservato una lezione che si ricollega a quella dei manoscritti della prima serie, ampliata con aggiunte riguardanti il dogato di Andrea Dandolo. Benché due codici di questa serie derivino "ab exemplari Andreae Balastro nepotis", e cioè dall'ambiente familiare dello stesso autore, tale rimaneggiamento nella parte iniziale "non può veramente attribuirsi", secondo la Pastorello (pp. XXVII s.), al C., ma ad un anonimo che compose in latino una cronaca di Venezia dalle origini alla morte di Bartolomeo Gradenigo (28 dic. 1342), pervenutaci anche nei codici del Civico Museo Correr di Venezia, P.D. 392c, e della Biblioteca Marc. di Venezia, Marc. lat.X, 136 (= 3026), testo indicato come "famiglia A latina" della classificazione Carile (A. Carile, La cronachistica venez., Firenze 1969, pp. 3-7).La terza serie, rappresentata dal solo codice Lat.5874della Biblioteca nazionale di Parigi, del sec. XV, ci fa conoscere una nuova redazione della cronaca, dipendente da un secondo originale "corretto, compiuto, riveduto, successivo alla stesura iniziale e indizialmente definitivo" (ibid.); mentre un ultimo gruppo di undici codici, dipendenti dal cod. Vat. lat.5842della fine del sec. XV, riporta la stesura primitiva integrata con tutte le notizie in essa non contenute desumibili dal testo della seconda redazione o da altre fonti - alcune delle quali a noi ignote - e con "elementi descrittivi del cerimoniale e i nomi degli elettori dei dogi". "Non si tratta, dunque, di un processo di correzione, come da M 237 [ = Marc. lat.X, 237] a P [= Bibl. naz. di Parigi, ms. Lat.5874], o di compimento, ma di integrazione; e però sorge spontaneo il dubbio, se questa integrazione si debba anch'essa al C., o a un rimaneggiatore dell'opera sua" (ibid., p. XXII).
La Pastorello, adottando un criterio meritevole di attenta revisione, scelse "a base dell'edizione critica un testo, che fosse insieme corretto e compiuto": quello del Marc. lat.X, 10 del sec. XVI, un apografo del Vat. lat.5842, che ha "il pregio di rappresentare insieme la redazione più ampia, più diffusa, più nota dell'opera del cancelliere veneziano" (ibid., pp. XXVII s.). La Pastorello ammette l'intervento di un rimaneggiatore che ha compiuto sul testo della cronaca un vero e proprio "lavoro di revisione, grammaticale, lessicale, e in parte anche storico, che oltrepassa le intenzioni probabili del Caresini". Non si capisce perciò come la redazione del Marc. lat.X, 10 possa rappresentare, "fra tutti i codici della Cronaca C., quel testo critico a penna, che l'attuale nuova edizione intende realizzare a stampa" (ibid., p. XXV).
Della Cronaca del C. conosciamo una versione in volgare redatta da ignoto traduttore coevo del cancelliere, sul finire del sec. XIV e dedicata al doge Antonio Venier (21 ott. 1382-23 nov. 1400). Incompleta, perché si conclude con la fine della guerra di Chioggia, la versione deriva dall'originale latino, ed è contenuta in quattro codici: il già ricordato Marc. it.VII, 770, membranaceo miniato del sec. XIV, che rappresenta l'archetipo; il Marc. it.VII, 195 del sec. XIV, il Marc. it., Fondo Antico XVII, del sec. XVI, ed il Canonici-Sidney Murray del British Museum, del sec. XIV, che ripetono la lezione del Marc. it.VII, 770 (cfr. Pastorello, pp. XIV s.). Di questo volgarizzamento - il più vicino, nella tradizione manoscritta della cronaca, all'originale della prima stesura - dette l'edizione critica, nella seconda metà del secolo scorso, il Fulin. Per spiegare l'incompletezza del testo in volgare rispetto alla cronaca in latino, il Fulin ha avanzato l'ipotesi, che la versione fosse stata compiuta nei primi anni del dogato di Andrea Venier, al quale essa è appunto dedicata; tale spiegazione è però rifiutata dalla Pastorello, che ricorda come il progetto originario dell'opera storica del C. riguardasse il solo periodo della guerra di Chioggia.
Il C. nella sua cronaca fuse la cura della registrazione documentaria con una serie di citazioni bibliche in cui si esprime il solenne moralismo cancelleresco e lo spirito polemico dell'autore. La cronaca del C. fu compendiata dall'inedito Enrico Dandolo; da Andrea de Redussis nel suo Chronicon Tarvisinum, dall'inedito Gian Giacomo Caroldo e da Giovanni Bembo.
è discussa l'attribuzione al C. della marciana Chronica Jadratina, da alcuni attribuita al cancelliere Benintendi de' Ravegnani: è un testo storico, composto con intendimenti filoveneziani poco dopo il 1348 ad avvalorare il punto di vista veneziano circa il problema di Zara, da tempo oggetto di contesa con i re di Ungheria.
L'edizione più recente della cronaca è in Rer. Ital. Script., 2 ed., XII, 2, Raphayni de Caresinis Chronica a. 1344-1388, a cura di E. Pastorello (recensione di C. Frati, in Arch. stor. it., LXXXII[1924], pp. 123 s.). La cronaca in volgare è stata edita in La cronaca di Raffain Caresini tradotta in volgare veneziano nel secolo XIV [a cura di R. Fulin], Venezia 1876 (in occas. delle nozze Mocenigo-Windischgraetz).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Procur. di San Marco, Misti 148, commiss. del C. con vari docum. fra cui il testamento di Caterina, prima moglie, tramandato anche Ibid., Notarile, De Clarutis Guglielmo, 1023, n. 118. Il protocollo dei suoi atti notarili è conservato Ibid., Cancelleria Inferiore, busta 32, inserto 23: "Liber imbreviaturarum mei Raphayni…"; cfr. I Libri commemor. della Repubblica di Venezia, Regesti, a cura di R. Predelli, II, 3, Venezia 1878, nn. 549, 557, 566, 571; 4, nn. 33, 63, 180, 185, 205, 235, 243, 314, 320, 368, 385, 404 s., 411, 420; 5, nn. 7, 141, 159; 6, nn. 35 s., 54, 82, 84, 96, 285, 318; III, 7, ibid. 1883, nn. 19 s., 52, 62, 67, 101, 129, 156 s., 343, 357, 447, 513, 612; 8, nn. 42, 89, 95, 99, 103, 136, 139, 167, 196, 215, 231, 301, 322, 324; 10, n. 242. Cfr. inoltre Archivio di Stato di Venezia, Notarile, Testamenti, Arcangeli, 55, atto n. 6 del registro pergamenaceo, ff. 3v-4v, con copia; Ibid., Procuratori di San Marco de Ultra, 179, n. 3; testamento del figlio Pietro in data 8 dic. 1392 e commissaria nella stessa data con conti fino al 1396. Il testamento del fratello del C., Giovanni, notaio egli stesso, si conserva Ibid., Cancelleria Inferiore, Miscell. Testamenti, Notai diversi, busta 21, n. 522; la sua commissaria si conserva Ibid., Procuratori di San Marco, Misti 123; il testamento è in data 1º maggio 1371 e la commissaria in data 17 genn. 1380 more veneto.