questione della lingua
Per contrastare l’interpretazione riduttiva della questione della lingua, considerata come un dibattito sulle varie denominazioni fiorentino, toscano, lingua comune o italiano, cioè equiparata a un’oziosa disputa nominalistica, si può ricordare il parere di Antonio Gramsci:
Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale (Quaderni del carcere, Quaderno 29, § 3)
Gramsci, in questa riflessione, si riferiva soprattutto alle tesi di ➔ Alessandro Manzoni, che collegava al dibattito della prima metà del Novecento. Poco oltre affermava (ibid.: § 7) che il De vulgari eloquentia di ➔ Dante era da intendere come un atto di politica culturale-nazionale (pur nel senso che la parola nazionale aveva al tempo di Dante), e che «un aspetto della lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata ‘la quistione della lingua’che da questo punto di vista diventa interessante da studiare». Essa, nell’interpretazione di Gramsci, era consistita nella «reazione degli intellettuali allo sfacelo dell’unità politica» e «alla disintegrazione delle classi economiche e politiche», al fine di «conservare e anzi rafforzare un ceto intellettuale unitario, la cui esistenza doveva avere non piccolo significato nel Settecento e Ottocento (nel Risorgimento)».
Collocandosi a mezza strada tra l’affascinante interpretazione integralmente ‘politica’ di Gramsci e quella nominalistica riduttiva, è possibile affermare che la questione della lingua è in sostanza il lungo dibattito attorno alla norma e all’identità dell’italiano, quale si è concretizzato nella trattatistica, da Dante in poi (in questa forma la materia è stata trattata in Vitale 1978, che è il riferimento specifico più autorevole; si veda anche Marazzini 2009), e quale ancora si svolge non di rado anche oggi, quando si riapre in qualunque modo la discussione su temi come: i destini dell’italiano, i suoi caratteri costitutivi, il suo ruolo di lingua ufficiale o nazionale, la lingua nella scuola, i rapporti con i dialetti, con le lingue di minoranza o con le lingue straniere. Vi rientrano le relazioni tra italiano e fiorentino, la definizione della ➔ norma linguistica (anche le questioni di grafia e i tentativi di riforma ortografica; ➔ ortografia), la distanza maggiore o minore che si vuole interporre tra scritto e parlato (➔ lingua parlata; ➔ lingua scritta), l’uso della lingua antica o la preferenza per la modernità, l’adozione o il rifiuto di novità lessicali (➔ neologismi), il rapporto tra uso letterario e uso corrente della lingua (➔ storia della lingua).
Le ragioni di un dibattito così ampio stanno in parte nella natura stessa della lingua, al di là della specificità italiana, perché sempre e dovunque esistono differenze tra scritto e parlato, ed è normale che il livello elevato, letterario e colto, si contrapponga all’uso corrente. Tuttavia, alcune ragioni del dibattito sono da ricondurre alle caratteristiche specifiche della storia d’Italia, paese in cui la lingua si è splendidamente sviluppata in assenza di uno Stato politico, come strumento pressoché esclusivo di una comunità di dotti e di letterati. I rapporti con il popolo, nella sua complessa stratificazione sociale, si sono resi necessari solo quando già esisteva una possente tradizione letteraria. Da ciò emerge quanto possa essere vasta la questione della lingua, intesa nella sua valenza letteraria e sociale, e come possa costituire parte rilevante dell’intera storia nazionale (non solo di quella linguistica), in riferimento alle idee sulla lingua, alla politica scolastica, oltre che alle scelte di intellettuali e scrittori messe in atto per fini d’arte. In gran parte, comunque, la definizione di questione della lingua si applica a un dibattito teorico, e potrebbe essere rimpiazzata dall’espressione teorie sulla lingua italiana (cfr. Marazzini 1993; ➔ storia della linguistica italiana).
Va precisato, infine, che la questione della lingua non è esclusiva dell’Italia. Basti pensare alla Francia, dove prese corpo nel Cinquecento il tentativo di vantare la (supposta) vicinanza del francese al greco, dove l’Académie française assunse la funzione di istituto garante e custode della lingua, dove si identificò la buona lingua nel miglior uso della corte reale, e dove poi alcune teorie settecentesche attribuirono alla costruzione sintattica del francese il primato universale della razionalità logica, dunque il primato sulle altre lingue. La Francia fu anche il paese in cui si crearono le basi del cosiddetto giacobinismo linguistico, avverso alle parlate locali.
Un altro confronto interessante può essere istituito con la Grecia, un paese costretto a fare i conti, a partire dall’indipendenza ottenuta nell’Ottocento, con una grande tradizione: qui la questione della lingua si è sviluppata nel confronto tra la katharèvousa, la lingua «pura», arcaica, simile al greco antico, e la lingua popolare, la dimotikì, esito normale della koinè ellenistica. Lo scontro tra i fautori delle due diverse soluzioni è stato talora molto forte, fino al prevalere della lingua popolare, per decisione politica, nel 1976, al momento della proclamazione della nuova Repubblica.
Dunque, anche in altre nazioni si è discusso di lingua. Tuttavia in Italia il dibattito si è caratterizzato per la maggior durata e per la speciale vitalità, almeno a partire dal Cinquecento. Quanto alla data di inizio, può esser giudicato discutibile l’inserimento nella questione della lingua delle teorie di Dante esposte nel De vulgari eloquentia, non per la pertinenza dei contenuti, innegabile, ma per la semplice ragione che l’opera non suscitò un dibattito, in quanto non risulta abbia avuto interlocutori, almeno fino al XVI secolo. Quanto alle discussioni tra umanisti a proposito dell’origine del volgare e delle sue eventuali possibilità di miglioramento qualitativo (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’), esse possono forse essere assunte come punto di avvio della questione della lingua, perché vertono sul confronto tra italiano e latino, quindi segnano la prima definizione delle qualità che si richiedono al volgare per raggiungere la perfezione. Anche Dante aveva confrontato volgare e latino, soppesando i vantaggi dell’uno e dell’altro, ma, come si è detto, la sua posizione è quella di un gigante solitario, mentre la questione della lingua, per essere tale, richiede un dibattito, la cui pienezza si raggiunse appunto nel primo Cinquecento, secolo che, assieme all’Ottocento, rappresenta il momento culminante di queste discussioni.
Le Prose della volgar lingua di ➔ Pietro Bembo, pubblicate nel 1525, sono il libro in cui meglio si valuta il confronto fra le diverse teorie linguistiche che allora si fronteggiavano.
Occorre tuttavia premettere che la discussione sulla ‘lingua migliore’ aveva investito in precedenza il latino, e ciò costituisce una fondamentale premessa. Già nel Quattrocento, Paolo Cortese aveva avuto una disputa con il ➔ Poliziano, fautore di un modello stilistico eclettico che attingeva ad autori latini di varie epoche. Cortese, per contro, fissò alcuni punti della teoria dell’imitazione dello stile ciceroniano. Pietro Bembo, prima di essere protagonista della questione della lingua per l’italiano, discusse con Giovanni Pico della Mirandola sul modello da adottare per la lingua latina. Pico, allievo del Poliziano, era sostenitore di uno stile eclettico; Bembo, per contro, indicava due modelli a cui attenersi in maniera sostanziale, se non proprio esclusiva: Cicerone e Virgilio, l’uno per la prosa, l’altro per la poesia.
Veniva proposta insomma, in riferimento alla lingua latina, la cosiddetta teoria dell’imitazione, poi applicata da Bembo al volgare, indicando come modelli ➔ Francesco Petrarca per la poesia e ➔ Giovanni Boccaccio per la prosa. Al terzo modello, cioè a Dante, Bembo rimproverava l’uso di un lessico basso, ovvero la caduta stilistica, che in Petrarca non si era verificata mai. Anche Boccaccio aveva adoperato, in certe parti del Decameron (per es. quelle dialogiche) un linguaggio meno elevato, ma Bembo invitava a considerare non i passi in cui c’era il rischio della mimesi di parlato, ma quelli in cui lo stile era più alto, come la cornice della raccolta. Inoltre ammetteva che la prosa potesse tollerare la varietà linguistica meglio della poesia.
Indubitabile è la propensione di Bembo per quello che oggi definiremmo il ➔ monolinguismo petrarchesco, e questa preferenza determinò una concezione classicistica e arcaicizzante della lingua, contraria a ogni contaminazione col parlato e l’espressività popolare. Di fronte all’obiezione che in questo modo, staccandosi dalla contemporaneità e facendo riferimento al Trecento, si rischiava di parlare la «lingua dei morti», Bembo, per bocca del fratello Carlo (il quale, nelle Prose, è portavoce delle idee dell’autore), rispondeva che parlava con i morti chi si affidava alla lingua contemporanea, di per sé effimera, mentre la perfezione dei modelli antichi garantiva la comunicazione con i posteri, cioè la lunga durata temporale. Parlare, in questa accezione, significava trasmettere un messaggio letterario, secondo una rigida e austera concezione classicistica della lingua, per la quale la letteratura ‘alta’ è l’unico momento che meriti davvero attenzione e rispetto. Questa è la sostanza più profonda della teoria arcaicizzante di Bembo, fondata sul primato dell’imitazione del canone trecentesco delle Tre Corone.
Di per sé, l’identificazione dei modelli nelle Tre Corone non era un fatto inusitato. Il primo grammatico dell’italiano, Giovanni Francesco Fortunio, aveva composto le proprie Regole (1516) utilizzando gli stessi modelli, seppure mostrando la massima disponibilità nei confronti di Dante. Quanto all’idea che la letteratura avesse in sé la capacità di nobilitare la lingua, riscattandola da eventuali difetti di origine, un’analoga concezione era stata esposta nel Quattrocento da ➔ Leon Battista Alberti, e anche dal Poliziano, nell’Epistola aragonese (➔ grammatica). Nelle Prose di Bembo, però, la teoria linguistica è collocata nel contesto di un’esposizione sistematica molto più completa e rigorosa. Inoltre nelle Prose venivano passate accuratamente in rassegna tutte le teorie linguistiche dell’epoca, per quanto con spirito di parte, allo scopo di far emergere come vincente la tesi fiorentinista arcaicizzante nella quale l’autore riponeva la massima fiducia. Le teorie con le quali si misurava erano tre: (a) quella della superiorità del latino; (b) quella detta cortigiana (➔ cortigiana, lingua); (c) la fiorentinista o toscanista dell’uso vivente.
Di esse, la prima era la meno difficile da avversare, perché nel 1525, data di pubblicazione delle Prose, essa aveva ormai perso mordente, visto che il volgare progrediva e otteneva successi.
Quanto alla teoria cortigiana, buona parte delle notizie che abbiamo su di essa vengono proprio da Bembo, cioè sono trasmesse da un avversario. Tale teoria, infatti, era stata sostenuta da Vincenzo Calmeta in un’opera che non ci è giunta. La teoria cortigiana è stata definita perciò un fantasma. Più di recente, ben due libri hanno cercato di eliminare la designazione, ormai consolidata, di teoria fantasma (cfr. Drusi 1995 e Giovanardi 1998). Senza dubbio la teoria cortigiana trovava rispondenza nell’uso linguistico di ➔ koinè delle corti tra Quattrocento e Cinquecento, che era dettato però da esigenze pratiche, senza pretese di coerenza e senza obbedire a una teoria sistematica.
Di recente è stato ritrovato un sunto del perduto libro di Vincenzo Colli detto il Calmeta, Della volgar poesia, stilato da Ludovico Castelvetro, il quale aveva contestato il modo con cui Bembo aveva esposto le tesi del Calmeta. Nella sintesi di Castelvetro, la teoria cortigiana pare meno antitetica rispetto alle teorie di Bembo, perché anche in essa ha parte l’imitazione delle Tre Corone. Il Calmeta aveva fatto speciale riferimento all’uso della corte di Roma, il cui carattere cosmopolitico dava luogo a una realtà linguistica non provinciale. Aveva parlato della corte di Roma anche Mario Equicola, un altro sostenitore della teoria cortigiana, mentre ➔ Baldassarre Castiglione, nel Cortegiano, aveva propugnato una lingua non solo toscana, ma comune, lontana dall’affettazione di arcaismi, non limitata all’imitazione di Petrarca e Boccaccio, anche se non ostile ad accogliere i toscanismi accettati dalla tradizione. Si può dunque ammettere che Bembo, nella propria esposizione, radicalizzasse alcuni aspetti della teoria cortigiana a scopo polemico e dialettico. Bembo aveva interpretato la teoria del Calmeta come riferimento all’uso dei cortigiani romani, non certo a quello del popolo della città, ma aveva condannato questa lingua, in quanto, per suo status naturale, gli pareva priva di omogeneità, nata da «mescolamento», mancante di «certa e ferma regola» proprio a causa della varietà degli usi, oltre che per la varietà delle corti. Per quanto gli studiosi di oggi si siano impegnati a mostrare la rispondenza tra lingua cortigiana e lingua di koinè, e per quanto la lingua di koinè adottasse soluzioni in parte omogenee anche in luoghi geografici diversi, non è difficile riconoscere la distanza abissale rispetto al rigore della soluzione bembiana, che non accettava di far riferimento a un uso localizzato, a un ambiente reale di conversazione quale era la corte, né poteva ridurre l’imitazione delle Tre Corone a un fatto casuale e non sistematico. Oltre al resto, Bembo non amava i crudi latinismi grafici e lessicali di cui la lingua cortigiana faceva largo uso. Di fatto, la teoria cortigiana, fantasma o no, fu spazzata via dalle tesi bembiane.
Cosa diversa dalla teoria cortigiana è quella della lingua comune italiana, esposta da ➔ Gian Giorgio Trissino. Contro di lui non vi è polemica nelle Prose di Bembo, perché le opere di Trissino sulla questione della lingua furono pubblicate più tardi, attorno al 1529: sia il dialogo Il castellano (che prende il nome dal fatto che nel dialogo compare, come portavoce delle idee dell’autore, Giovanni Rucellai, comandante di Castel Sant’Angelo, fortezza papale in Roma), sia la traduzione del De vulgari eloquentia di Dante. In larga parte la teoria di Trissino si fondava sul libro di Dante, nel quale quasi tutti i volgari italiani erano condannati, in particolare il toscano, e in cui si auspicava la formazione di una lingua italiana sovraregionale. Nella trattazione di Trissino, svolta discendendo dal generale al particolare, con un procedere logico di matrice aristotelica, ha sicuramente parte un certo nominalismo, perché la discussione si concentra proprio sul nome della lingua, prima ancora che sui suoi caratteri, ma si riesce a cogliere anche la sostanza della discussione, perché Trissino ritiene inaccettabili toscanismi come testé, costì, costinci, cotesto, guata, allotta, suto, e non si fonda affatto, a differenza di Bembo, su una rigida teoria dell’imitazione. Inoltre la teoria di Trissino apre la strada ai sostenitori della legittimità del contributo regionale al lessico, cioè a coloro che avrebbero voluto aprire la lingua letteraria a parole non toscane (come il grammatico piemontese Matteo di San Martino). La teoria italianista di Trissino è comunque cosa diversa da quella cortigiana con cui si misurò Bembo, la quale traeva le sue ragioni dalla situazione delle corti tra Quattrocento e Cinquecento.
L’altra tesi con cui si confrontò Bembo è quella secondo la quale i fiorentini sarebbero stati i naturali portatori della lingua più «vaga e gentile». La confutazione del primato fiorentino palesa il contenuto marcatamente classicistico della tesi bembiana, perché la maggior naturalezza della parlata dei fiorentini era un fatto talmente evidente da non poter essere messo in discussione. Tuttavia Bembo obiettò che proprio la maggior naturalezza nascondeva il rischio di una contaminazione con gli elementi popolari della lingua, rischio da cui i non toscani erano più facilmente immuni, visto che studiavano il volgare come un idioma artificiale. La tesi può sconcertare noi moderni, ma è assolutamente coerente con il pensiero di Bembo, e anzi ci aiuta a metterne a fuoco la splendida inattualità rispetto alle nostre concezioni.
Per molto tempo le posizioni bembiane, ovunque trionfanti (influenzarono persino la Chiesa; ➔ Chiesa e lingua), destarono solo reazioni negative a Firenze, dove pareva inammissibile che un forestiero (Bembo era un patrizio veneziano) si fosse permesso di dare le regole del volgare toscano. Si tenga presente che la posizione dominante a Firenze (a parte alcuni isolati consensi alla teoria di Trissino) accordava assoluta fiducia al primato locale, così come appare nel Discorso o Dialogo di ➔ Niccolò Machiavelli (opera che però rimase inedita), o come mostra Carlo Lenzoni nella Difesa della lingua fiorentina (cfr. Pozzi 1988: 369-371), là dove introduce Machiavelli a spiegare a certo Messer Maffio, un interlocutore veneto, quanto sia ridicola la pretesa dei non fiorentini di insegnare il toscano ai toscani, così come sarebbe stato altrettanto ridicolo che un toscano, avendo appreso il veneziano per via libresca, avesse preteso di insegnarlo ai veneziani.
La conciliazione tra le idee di Bembo e il punto di vista fiorentino si ebbe solo con l’Ercolano di ➔ Benedetto Varchi (pubblicato postumo nel 1570), ampio trattato in cui la questione della lingua è svolta nel contesto di una concezione totale della lingua, della sua storia, del suo funzionamento. Varchi seppe riportare l’attenzione sulla vivacità e dignità del parlato, evidenziando le qualità del fiorentino vivo e vanificando allo stesso tempo l’austero rigore delle Prose. L’Ercolano, pur tributando a Bembo il massimo elogio, ne tradì abilmente l’insegnamento, sancendo il principio dell’autorità ‘popolare’ (seppure mai troppo bassa, ma piuttosto di tono medio) la quale doveva affiancare con vantaggio i grandi scrittori. Firenze poté così candidarsi nuovamente alla guida e al controllo della lingua, dopo che il successo della teoria bembiana le aveva tolto il primato. Successivamente, la cultura linguistica fiorentina, con ➔ Lionardo Salviati, proseguì nell’operazione di snaturamento della teoria bembiana. A lui si deve l’ideazio-ne del canone che portò nel 1612 al vocabolario della Crusca (➔ accademie nella storia della lingua). Salviati collocò, accanto ai tre grandi del Trecento, una serie di autori minori e minimi, spesso di livello popolare, modestissimi per qualità d’arte, trasformando completamente la teoria di Bembo, la quale non era fondata sul pregio dell’arcaismo in sé e per sé, cioè sul mito dell’antico, ma sull’oggettiva constatazione del valore letterario. Tra le due posizioni passa la differenza che distingue il ➔ classicismo dal ➔ purismo, che è invece fondato sulla nostalgia del passato linguistico, al quale viene attribuita la perfezione. Con Salviati e con la Crusca, tuttavia, furono superate le posizioni simili a quelle di Giovan Battista Gelli, esposte nel dialogo pubblicato assieme alla grammatica di Pierfrancesco Giambullari, nel 1551: in questo dialogo si indicava la difficoltà di dare regole a una lingua vivente quale il fiorentino, in perenne evoluzione. Gelli aveva attribuito gran valore all’uso, ma in questo modo diventava impossibile la creazione di strumenti normativi affidabili, quali il pubblico italiano desiderava possedere e dei quali aveva necessità. Anche per questo la teoria fiorentinista modernista aveva avuto difficoltà ad imporsi, mentre il bembismo aveva potuto trionfare.
La Crusca, con l’autorevole vocabolario del 1612, ristampato due volte nel XVII secolo e un’altra nel XVIII (➔ lessicografia), invertì la tendenza: Firenze riebbe la piena autorità normativa; a conferma di ciò, vediamo realizzata a Firenze nel XVII secolo una delle più complete grammatiche, quella di Benedetto Buonmattei.
La questione della lingua, dopo la pubblicazione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, finì per gravitare essenzialmente attorno al dibattito pro o contro il vocabolario. L’autorità di Firenze fu in sostanza la questione principale su cui si discusse di lì in poi. Lo si fece non solo contrapponendo al fiorentinismo le posizioni italianiste o cortigiane che già abbiamo visto nel Cinquecento, sovente collegate al ricordo delle varietà del greco antico, ma talora anche avversando il primato fiorentino in nome di un più generico toscanismo, o vantando i meriti di un’altra città toscana, Siena.
Siena aveva una propria tradizione di lingua e di studi linguistici, già avviata da Claudio Tolomei nel Cinquecento, continuata nel Seicento da Celso Cittadini. All’inizio del Settecento, Gerolamo Gigli (che fu anche curatore degli scritti di Cittadini) preparò un Dizionario cateriniano (un lessico delle parole di santa Caterina da Siena) in cui diede libero sfogo a dissacranti sbeffeggiamenti contro la Crusca e contro la lingua fiorentina, i cui difetti erano emblematicamente rappresentati dal fenomeno della ➔ gorgia toscana (a Siena molto più tenue), anch’essa abilmente ridicolizzata. Lo stesso Granduca di Toscana chiese allora che Gigli fosse punito: fu in effetti bandito da Roma, dove si trovava; costretto alla pubblica ritrattazione, si ridusse in miseria. Nel 1717 il Dizionario cateriniano, non ancora giunto alla fine della stampa (si era alla lettera R), fu bruciato in piazza: è il caso più celebre in Italia di repressione nei confronti di un vocabolario, e di uno strumento linguistico in particolare. Mai la questione della lingua aveva avuto effetti così severi.
Senza dubbio molti tra i più illuminati e celebri letterati italiani del Seicento (➔ età barocca, lingua dell’) e del Settecento (➔ Settecento, lingua del) furono avversi al fiorentino e alle idee della Crusca, la quale, fra l’altro, si era resa responsabile dell’esclusione dal novero degli autori spogliati di ➔ Torquato Tasso, accolto solo nella terza edizione. Tra costoro, si possono citare Paolo Beni, Giambattista Marino, Emanuele Tesauro, Alessandro Tassoni, padre Daniello Bartoli, quest’ultimo molto attento a verificare le ragioni pretestuose che stanno a volte dietro i perentori divieti dei grammatici, dietro i loro recisi ma infondati ‘non si può’. Con il passare del tempo, le posizioni della Crusca apparvero via via più anacronistiche, senza che tuttavia si allestissero strumenti normativi diversi. Il Vocabolario della Crusca, con il suo rigido fiorentinismo e la sua impostazione arcaicizzante, continuò a fare testo, seppure ampliato nelle successive edizioni. Nessuno riuscì a rimpiazzarlo, anche quando il nizzardo Alberti di Villanova stampò tra il 1797 e il 1805 un dizionario ideato con spirito illuministico, attento alla terminologia delle arti e dei mestieri ben più di quanto fosse stata la Crusca, la quale aveva sempre voluto tenersi distante dal rischio del cosiddetto nomenclatore, come chiamava il repertorio del lessico tecnico. La rivoluzione, o meglio la liberazione dai canoni cruscanti, non poté dirsi allora compiuta. Ad Alberti fu impedito di dare alle stampe la sua opera a Firenze, come avrebbe voluto: dovette ripiegare su Lucca. Inoltre Alberti aveva certamente arricchito il vocabolario, ma la base restava pur sempre il repertorio della Crusca.
Nel dibattito teorico (se ne vedano i principali documenti in Puppo 196611), molti illuministi furono particolarmente aggressivi verso la Crusca: così Carlo Denina (che aveva finito per voltare le spalle alla lingua italiana), così i redattori della rivista milanese «Il Caffè», e in particolare Alessandro Verri, autore di una provocatoria e sarcastica Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca. Ma la migliore, più completa e più meditata presa di posizione settecentesca nella questione della lingua, estranea al radicalismo un po’ superficiale di Verri, è senz’altro quella di ➔ Melchiorre Cesarotti nel Saggio sulla filosofia delle lingue, che si conclude con la proposta di un Consiglio nazionale della lingua da istituire a Firenze al posto della Crusca, con l’apporto di intellettuali di tutte le regioni italiane. Cesarotti era aperto non solo all’accrescimento del lessico tecnico, ma anche ai dialetti, oltre che ai prestiti forestieri.
Il Saggio di Cesarotti, così disponibile alle novità e così equilibrato, cadde in un contesto assai sfavorevole, che ne vanificò il possibile effetto benefico sulla cultura italiana. Infatti l’invadente primato politico-militare francese degli anni rivoluzionari e napoleonici ebbe come conseguenza una diffusa ostilità nei confronti di ogni apertura verso il prestito dalle lingue straniere e verso la lingua francese in particolare (si pensi al misogallismo di ➔ Vittorio Alfieri o al trattato di Gian Francesco Galeani Napione Dell’uso e dei pregi della lingua italiana, che, puntando alla definitiva italianizzazione del Piemonte, vantava i pregi dell’italiano rispetto al francese). Si affermò sempre di più un’affezione fanatica per la tradizione italiana. In mancanza di unità politica, ci si abbarbicò alla gloriosa lingua antica, carica di valore simbolico, e ciò determinò un rinnovato amore per il Trecento. Fiorì allora la stagione del ➔ purismo, ben rappresentato al Sud da Basilio Puoti (che fu ottimo maestro di allievi famosi, come Francesco De Sanctis), al Nord dal padre Antonio Cesari e dalla sua Crusca Veronese, realizzata a Verona, ma più intensamente cruscante della stessa Crusca fiorentina, quest’ultima già variamente riproposta nel corso del Settecento in molte ristampe non ufficiali, in particolare a Venezia e a Napoli. Padre Cesari, con la Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana, divulgò il culto del Trecento, epoca in cui tutti (a suo parere) avevano avuto il merito di scrivere bene, colti o ignoranti che fossero.
I romantici si occuparono di lingua facendo proprie alcune posizioni del Settecento illuminista e sensista (così Ludovico di Breme), ma con vivacità minore rispetto ai classicisti. Si sviluppò anche, tra romantici e classicisti, una polemica sui dialetti, nella quale non tutti gli argomenti dei classicisti sono da considerare reazionari: Carlo Porta attaccò in una serie di poesie Pietro Giordani, il quale riconosceva nei dialetti un ostacolo alla comune circolazione delle idee (la polemica aveva un precedente settecentesco nella disputa tra Giuseppe Parini e padre Paolo Onofrio Branda). Quanto al purismo, il vero fustigatore di questa dottrina, «così debolmente e sgraziatamente presentata e così vigorosamente combattuta», eppure destinata a «così lunga fortuna in Italia» (Dionisotti 1971: 121), fu il classicista ➔ Vincenzo Monti, all’apice della celebrità, il quale si dedicò alla direzione e al coordinamento di quella grande impresa, pubblicata in molti volumi, che va sotto il titolo di Proposta di correzioni e aggiunte al Vocabolario della Crusca (1817-1826), conclusione della sua lunga attività di letterato. In questa impresa furono coinvolti altri studiosi: Giulio Perticari, Giuseppe Grassi, Amedeo Peyron. La polemica contro Cesari (definito privatamente da Monti come il «grammuffastronzolo di Verona»), poi estesa al Vocabolario della Crusca, raggiunge negli scritti di Monti un’intensità inusitata, talora con toni comico-satirici che richiamano le più vivaci dispute cinquecentesche, ad es. quella tra Annibale Caro e Ludovico Castelvetro.
Il purismo fu combattuto non solo dai classicisti, ma anche da ➔ Alessandro Manzoni, le cui teorie rappresentano il risultato più profondo della riflessione linguistica dei romantici, con un esito che il primo Romanticismo non avrebbe fatto supporre. Nel 1825-1827 Manzoni diede alle stampe la prima edizione dei Promessi sposi, nel 1840-1842 la seconda, rivista nella forma linguistica per renderla aderente al fiorentino vivo, nel quale giunse a riporre tutta la propria fiducia. In mezzo sta il soggiorno a Firenze, che gli consentì di consultare con larghezza parlanti nativi toscani.
Si noti che Manzoni, a differenza di altri cultori della parlata toscana, non guardava al fiorentino rurale, conservativo e arcaico, ma alla parlata della classe colta della città di Firenze: la sua propensione per l’ambiente urbano è significativa, e lo differenzia, per es., da ➔ Niccolò Tommaseo o da padre Giambattista Giuliani. Alcuni scritti teorici danno conto della posizione finale assunta da Manzoni, per es. la lettera al lessicografo Giacinto Carena del 1847. Ma l’occasione della svolta per il dibattito sulla questione della lingua fu l’incarico affidato a Manzoni nel 1868 dal ministro Emilio Broglio perché presiedesse la doppia commissione (milanese e fiorentina) incaricata di «ricercare e di proporre tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini di popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia» (➔ scuola e lingua). La commissione non raggiunse l’accordo perché la sottocommissione fiorentina non aderì alle tesi di Manzoni: questi pubblicò la propria Relazione sull’unità della lingua nello stesso 1868. Questa volta la richiesta di intervento era venuta da un ministro dello Stato unitario, e il dibattito non riguardava le scelte di un singolo scrittore o di un gruppo di letterati, ma il popolo dell’intera nazione da poco unificata. La Relazione del 1868 provocò un dibattito vivace, perché proponeva l’adozione del fiorentino vivo come lingua da divulgare attraverso l’insegnamento scolastico. Le obiezioni richiamavano le annose polemiche sul tema: chi difendeva i diritti della lingua letteraria, chi voleva estendere la funzione di lingua nazionale al toscano (andando oltre al solo fiorentino). Si noti che Firenze era allora capitale provvisoria, in attesa di Roma, ancora sotto i papi. Anche la questione romana si legò alla questione della lingua, perché v’era motivo di supporre che la nuova capitale, una volta divenuta italiana, avrebbe influito sullo sviluppo della lingua nazionale.
Questa era anche l’opinione di ➔ Graziadio Isaia Ascoli, il fondatore della scienza glottologica italiana, il quale intervenne contro la soluzione manzoniana nel Proemio al primo fascicolo dell’«Archivio Glottologico Italiano», la rivista che aveva appena fondato. Il Proemio, scritto nel 1872 e pubblicato nel 1873, fu la più forte risposta alle teorie di Manzoni. La via indicata da Ascoli si differenziava da tutte le altre, perché non presupponeva una lingua-modello a cui fare riferimento, non contrapponeva al toscano di Manzoni un’altra lingua, anche se considerava favorevolmente il contributo delle regioni al comune idioma nazionale. Ascoli riteneva che lo sviluppo culturale e sociale della nazione avrebbe portato in modo naturale all’unificazione linguistica (anche Luigi Settembrini aveva scritto che «il pensiero fa la lingua, non la lingua fa il pensiero», e aveva concluso: «Se volete una buona lingua, dovete prima fare una buona Italia»; cfr. Marazzini 1977: 62-65). Al modello centralistico di Manzoni (che si era ispirato alla funzione di Parigi e di Roma antica) veniva contrapposto un modello policentrico, e la lingua non era considerata una premessa, bensì una conseguenza dello sviluppo politico-sociale. Il salto era notevole, e non può essere attenuato da interpretazioni edulcorate del pensiero ascoliano (come quella di Francesco D’Ovidio). La tesi di Ascoli, in ogni modo, non fu mai popolare. Semmai la popolarità maggiore toccò a interpretazioni facilitate del manzonismo, come quella di Edmondo De Amicis nell’Idioma gentile (1905), libro che divulgò la terminologia domestica toscana e diffuse largamente l’apostolato toscanista anche tra gli educatori. A sua volta, l’Idioma gentile fu soggetto alla severa critica di ➔ Benedetto Croce, che respinse ogni idea di lingua-modello in nome della libera espressività individuale.
Toscanismo e fiorentinismo continuarono a essere operanti anche nella prima metà del Novecento, nonostante il prestigio del pensiero crociano e l’autorità di Ascoli. Successivamente all’unificazione italiana, si manifestarono novità nella politica linguistica, che ora assumeva il carattere di politica culturale nazionale, con qualche punta autoritaria. Si profilò una certa avversione ai dialetti e alle lingue di minoranza, anche prima che il fascismo accentuasse queste tendenze (➔ fascismo, lingua del). Nello stesso tempo, però, i dialetti venivano anche utilizzati come strumento di accesso alla lingua italiana, almeno in alcuni esperimenti ai quali non erano estranei i suggerimenti forniti da Ascoli, fin dal 1874, al IX congresso pedagogico italiano.
Si è accennato alla ‘parte di Roma’ nella questione della lingua. Il ruolo della capitale aveva destato aspettative e risvegliato gli animi negli anni attorno al 1870 (cfr. Marazzini 1978). La situazione dell’italiano, ora lingua di una nazione organizzata e moderna, è rivelata anche dal rinnovato interesse per la pronuncia. Nel 1939, Giulio Bertoni e Francesco Alessandro Ugolini affrontarono il tema dell’ortoepia nel Prontuario di pronunzia e di ortografia destinato a diventare strumento ufficiale dell’EIAR, l’ente radiofonico di Stato (➔ radio e lingua; ➔ pronuncia). In questa occasione la variante romana, divergente da quella di Firenze (nei casi di apertura vocalica diversa, come fedèle/fedéle, léttera/lèttera, ecc.), fu registrata e proposta come la pronuncia ‘dell’avvenire’ (più tardi, nel 1945, sul tema intervenne anche Bruno Migliorini, con il libretto Pronunzia fiorentina o pronunzia romana?, che conteneva un dialogo e una rassegna delle divergenze tra Firenze e Roma, con vari riferimenti all’uso di altre città toscane; ➔ neopurismo).
Durante il fascismo (➔ politica linguistica), la lingua italiana sembrava avviata a un destino imperiale, con una forte espansione all’estero, prima di tutto nelle colonie. In quel periodo si accentuò la politica di contenimento dei dialetti e si andarono radicalizzando atteggiamenti di natura esterofoba, fino all’intervento contro i forestierismi attuato dall’Accademia d’Italia. In tale contesto si inserisce anche la campagna contro l’uso del lei a vantaggio del tu e del voi (➔ allocutivi, pronomi). La caduta del fascismo e la perdita dell’Impero cancellarono le velleità autoritarie e i sogni di grandezza.
La questione della lingua, a lungo silente, ebbe un fortunato rilancio nel 1964-1965 con una serie di interventi dello scrittore ➔ Pier Paolo Pasolini che presero l’avvio con una conferenza, poi pubblicata su «Rinascita» (26 dicembre 1964), intitolata Nuove questioni linguistiche.
Pasolini, che prendeva le mosse dal rapporto tra gli scrittori del Novecento e la lingua italiana, passava a discorrere della fase in cui si trovava l’italiano del suo tempo, sostenendo che il centro irradiatore delle novità linguistiche si era spostato: non era più a Firenze o a Roma, nei centri umanistici, ma nel cosiddetto triangolo industriale del Nord. Nel Nord si veniva formando una nuova lingua, l’italiano tecnologico, legato al fiorire della nuova classe egemone capitalistica, un italiano brutto, comunicativo ma non espressivo. Nelle tesi di Pasolini, uomo dalle molte letture, si mescolava il concetto di egemonia di Gramsci con concetti stilistici e linguistici ricavati da Gianfranco Contini, da Charles Bally e da Ferdinand de Saussure. Attorno a questa tesi si avviò un dibattito molto vivace (cfr. Parlangeli 1971). Le posizioni di Pasolini furono giudicate in maniera riduttiva, mentre in realtà il suo innegabile ma geniale dilettantismo legava la personale concezione di stile ad alcune intuizioni profetiche, con una sensibilità verso i cambiamenti ben maggiore di quanto immaginassero molti dei suoi critici. Questo è stato forse il momento più notevole della questione della lingua nel Novecento, e ha riguardato la valutazione dello stato della lingua e del suo destino nella società tecnologica e industriale.
Negli anni successivi si sono avute altre polemiche notevoli, per es. quelle connesse con un lungamente discusso progetto di legge sulla definizione e tutela delle minoranze, infine approvato nel 1999 (legge 482; ➔ minoranze linguistiche; ➔ legislazione linguistica), dopo che si era arenato nel 1991 (Tullio De Mauro stigmatizzò la perplessità manifestata da vari celebri intellettuali di fronte a questa legge; ma anche quella del 1999 suscitò non poche reazioni negative). Spesso si è discusso della crisi dell’italiano nella scuola, individuando un processo di decadimento comunicativo che un fascicolo monografico della rivista «Sigma» (1-2 del 1985) ha definito come il trionfo della «lingua selvaggia».
Sta di fatto che molte parole comuni dell’italiano colto sono ormai ignote o fraintese, soprattutto dai giovani, tanto che il dizionario Zingarelli 2010 prevede una serie di ‘parole da salvare’ contrassegnate con apposito fiorellino, allusivo a una sorta di ecologia della lingua.
Quanto ai dialetti, sui quali la polemica ritorna ciclicamente, poco prima di morire, nel 1975, Pasolini aveva affermato che erano l’ultima possibilità di difesa dall’omologazione linguistica (in precedenza aveva mostrato di giudicare severamente l’italiano diffuso tra le masse proletarie ormai non più dialettofone, e per questo prive di vitalità e creatività linguistica). Nell’estate del 2009 si discusse dell’opportunità di introdurre nelle scuole l’insegnamento del dialetto (cfr. Pinello 2009). Le discussioni su singole norme dell’italiano trovano voce in rubriche di alcuni giornali, ma soprattutto negli spazi dedicati dall’Accademia della Crusca alla discussione e alla divulgazione. Sono state invocate regole rigide per ottenere una lingua ‘politicamente corretta’ (➔ politically correct), depurata dei pregiudizi legati agli stereotipi e non sessista (esistono, a proposito del sessismo, le Raccomandazioni della Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, pubblicate nel 1986; ➔ genere e lingua). Inoltre si è oggi più sensibili, anche da parte dei governi, all’esigenza di chiarezza comunicativa negli atti della pubblica amministrazione (esistono apposite raccolte di suggerimenti, utili per la formazione dei pubblici funzionari).
Una vivace discussione fu infine suscitata dalla proposta di istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana (2001), tema al quale fu dedicato l’editoriale del primo fascicolo della rivista «Lingua italiana d’oggi» (2004). Temi come quelli elencati provocano talora discussioni accese, senza però che il dibattito sulla questione della lingua ritrovi l’importanza che ebbe nei secoli passati.
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