QUASI POSSESSO
. Il diritto romano classico affermava il principio che potevano essere oggetto di possesso soltanto le cose corporali: possideri possunt quae sunt corporalia, non intellegitur possideri ius incorporale: queste, e altre simili espressioni, ripetono ancora gli ultimi giureconsulti classici (v. possesso). Sennonché l'esercizio di fatto di un diritto reale era protetto, anche se non era l'esercizio di fatto della proprietà che era chiamato possessio rei.
Il pretore proteggeva l'esercizio di fatto del diritto di usufrutto estendendo in via utile gli interdetti possessorî all'usufruttuario. A questo fine nel testo edittale la parola possidere era sostituita dalle altre: uti frui; così, ancora, il pretore concedeva un interdetto a chi avesse esercitato la servitù di passaggio nec vi nec clam nec precario almeno per trenta giorni nell'ultimo anno (interdictum de itinere actuque privato); a chi avesse esercitato senza vizio e anche in buona fede il diritto di valersi dell'acqua altrui o tutto l'anno (int. de aqua cotidiana) o nell'estate (int. de aqua aestiva); a chi volesse restaurare i condotti dell'acqua (int. de rivo reficiendo, de fonte reficiendo), o il sentiero su cui si esercitava il passaggio (int. de itinere reficiendo). In tutti questi interdetti, l'esercizio di fatto di una servitù prediale non era considerato come un possidere ma come un uti.
Nell'età postclassica, nelle scuole e nella prassi del basso impero, la dottrina del quasi possesso nacque e si sviluppò per le seguenti ragioni. Innanzitutto, perché, mentre i Romani esprimevano il diritto di proprietà con l'accentuare l'appartenenza della cosa al soggetto (res in bonis meis est, res mea est), i Bizantini l'esprimevano con l'accentuare la signoria, lo ius sulla cosa, tanto che gli altri diritti reali nell'età del basso impero e nella legislazione giustinianea non sono più iura in re, ma iura in re aliena. Configurata la proprietà più come signoria, ius, che come appartenenza della cosa al soggetto (res in bonis meis, res mea), era naturale che non si comprendesse perché l'esercizio di fatto di questo ius si chiamasse possessio e non potesse analogamente chiamarsi possessio o quasi possessio l'esercizio degli altri diritti reali. In secondo luogo perché, scomparsa la distinzione tra interdetti concessi direttamente (a protezione del possesso) e interdetti concessi in via utile (a protezione dell'usufrutto), l'esercizio di fatto dell'usufrutto risultava difeso come l'esercizio di fatto del possesso: perciò, scuola e prassi postclassica erano portate a conchiudere che l'esercizio di fatto dell'usufrutto era considerato come se fosse possesso; perciò, ancora, per abbreviazione, l'esercizio di fatto dell'usufrutto si disse quasi possessio. Di qui l'espressione si propagò a indicare l'esercizio di fatto delle servitù prediali: propagazione agevolata e quasi sospinta dal fatto che nell'età della decadenza usufrutto e uso rientrano anch'essi nella categoria delle servitù e costituiscono la classe delle servitutes personarum. Così la quasi possessio entro l'età postclassica penetra, come elemento spurio, forse già nelle Istituzioni gaiane (il manoscritto veronese appartiene al sec. V), e, secondo quanto la dottrina dominante ritiene, in testi interpolati della compilazione giustinianea. La timida affermazione si fa poi più ardita e il quasi finisce col cadere lasciando, così, più nettamente e decisamente emergere la possessio intesa come esercizio di fatto di qualunque diritto reale. Nel diritto giustinianeo la possessio romana è diventata rei o corporis possessio; l'esercizio di fatto dei diritti reali diversi dalla proprietà è diventato possessio iuris. Questa finisce con avere riguardo anche agli status personali, per modo che già s' inizia entro l'età della decadenza (sec. IV-VI) quel dilatarsi del concetto della possessio iuris, che tocca il suo vertice nell'età medievale per influenza del diritto canonico (v. possesso).
La elaborazione del concetto di quasi possessio ha portato il diritto postclassico a parlare di quasi traditio, per indicare la tolleranza. dell'esercizio di un diritto di servitù; di interdicta veluatī possessoria, per riassumere in questa generale espressione gl'interdetti con i quali l'esercizio di fatto di un diritto di servitù è difeso di longa quasi possessio per indicare l'istituto, parallelo all'usucapio o longi temporis praescriptio, che trasforma, quando tutti i richiesti requisiti concorrono, il fatto (esercizio di servitù) in diritto.
Bibl.: S. Perozzi, I modi pretorii d'acquisto delle servitù, in Riv. it. sc. giur., 1897; id., Ist. di dir. rom., 1ª ed., Firenze 1906, I, p. 560; 2ª ed., Roma 1928, I, p. 866; E. Albertario, Di nuovo sul glossema in Gai IV, par. 139, in Filangieri, 1914; id., Il quasi possesso dell'usufrutto nella dottrina romana, in Rend. Ist. lomb., 1912; id., Vat. Fr. 90 (Contributo agli studi sulla origine della posseessio iuris), in Rend. Ist. lomb., 1931; P. Collinet, in Mélanges Girard, Parigi 1912, I, p. 185 segg.; E. Rabel, ibid., II, p. 387 segg.; A. Berger, in Grünhut's Zeitschrift, XL (1913), p. 299 segg.; P. Bonfante, Note del Trattato di Pandette di B. Windscheid, Torino 1926, V, p. 330 segg.; id., Corso di diritto romano, III, Roma 1933, p. 130 segg.; M. E. Peterlongo, Il possesso di stato nelle fonti del diritto romano, in Studi in memoria di A. Albertoni, II, padova 1935.