Quantunque volte, lasso! mi rimembra
. - Canzone di due stanze (Vn XXXIII 5-8; schema 6 + 7 AbC, AcB: BDEeDFF, con concatenatio e combinatio), presente nella tradizione ‛ organica ' del libro e delle sue rime e nella Giuntina del 1527. Secondo il racconto in prosa, fu consegnata, subito dopo il sonetto Venite a intender li sospiri miei (Vn XXXII 5-6), a un fratello di Beatrice, che aveva pregato D. di dire qualcosa per una donna morta; tacendone il nome, ma lasciandogli evidentemente intendere che si trattava della gentilissima. Dopo il sonetto, scritto in modo che paresse fatto per l'amico, e più legato, nei modi e nella forma metrica stessa, all'occasione, la canzone nasce da un'esigenza di approfondimento e d'intensificazione: vidi che povero mi parea lo servigio e nudo a così distretta persona di questa gloriosa (XXXIII 1). Secondo D., infine, le due stanze dovrebbero apparire la prima ‛ detta ' dal committente, la seconda da lui stesso: chi sottilmente le mira vede bene che diverse persone parlano, acciò che l'una non chiama sua donna costei, e l'altra sì (§ 2).
L'artificio richiama quello analogo usato per le donne-schermo, solo che qui non è la poesia che si piega al ‛ vero ' significato della storia, ma " è la storia stessa che si propone come mistificazione " (D. De Robertis). In effetti la ‛ favola ' configurata dalla prosa non delinea un movimento narrativo, ma una chiave di lettura distinta per le due stanze, sottolineandone la diversa ispirazione, e Beatrice è, per così dire, schermo di sé stessa. La donna terrena, col piacere de la sua bieltate (v. 20), cagione di desiderio e di pianto, come ogni bene legato a un ritmo di contingenza, diventa schermo della spirital bellezza grande (v. 22); il lamento che nel sonetto si estendeva alla compartecipazione corale dei ‛ cor gentili ' è prima ricondotto a un'interiorità più profonda, poi superato dalla contemplazione della donna celeste.
La prima stanza esprime il dolore e il desiderio di morte del poeta con desolata e tenera dolcezza. Foster e Boyde rilevano qui modi cavalcantiani, dall'ipostasi delle facoltà, al colloquio interno, a parole tipiche come paura e pensoso; e, nella constructio, una tensione verso lo stile ‛ tragico ' (per l'apertura fortemente patetica, l'elaborata prolessi della fronte, le ‛ replicaciones ' dolente-dolore-dolorosa [vv. 3-5] e, alla fine, Morte-amore-more). Ma andrà anche messa in rilievo, oltre alla possibilità di un rifluire di proposte da D. al Cavalcanti, di cui la critica comincia a prendere atto, la personale elaborazione della tematica dolorosa, evidente soprattutto nella sapiente tessitura melodica, nell'intensità delle cadenze che definiscono l'interiore vicenda di memoria e struggimento.
Non diremmo, infatti, col Sapegno, che in questa stanza si esprima " un dolore umano " riecheggiante " un po' stancamente " quello di Li occhi dolenti, ma che, se mai, della canzone vengano qui ripresi e sviluppati gli esiti più intensi, come la quarta stanza. Si osservi, ad es., la disposizione strategica dei settenari - dalla forte clausola già mai del v. 2, a la dolorosa mente (v. 5), a ond'io chiamo la Morte (v. 10) - che concludono o propongono gli sviluppi della tematica svolta nella misura ampia e fluida degli endecasillabi, ne condensano la musica dolente, pausandola e poi ridistribuendola con nuovo impulso in una più distesa e progressiva tonalità elegiaca. E si osservi inoltre la dialettica strofico-sintattica, col prolungarsi del primo periodo di là dalla fronte, per concludersi col terzo verso della sirima, in quella che potrebbe essere chiamata una seconda concatenatio, che evidenzia la parte conclusiva della stanza come scansione definitiva e irrevocabile di temi di morte, amore, dolore. Le rime e le pause, le ben alternate misure metriche, le replicaciones che, mentre insistono su parole tematiche, intensificandone la portata semantico-affettiva, stabiliscono parallelismi timbrici coinvolgenti insieme il ritmo strofico e quello emotivo, riflettono uno sconforto chiuso in uno spazio di memoria e illusione, segnato dal limite della morte: un movimento circolare nella fissità dell'effimero che è l'intimo tema della stanza.
La fronte della seconda riprende ed esaurisce questo motivo, è come un tramite fra ‛ passione ' e ‛ gloria '. L'ultimo accenno alla crudelitate della morte (v. 19) è immediatamente contraddetto dal paradosso sofferto ma trionfante della trasfigurazione, con un atto risoluto di liberazione intellettuale e contemplativa. La sirima ha la fermezza di scansione dei momenti di lode distesa di Donne ch'avete e della seconda stanza di Li occhi dolenti, ma con uno slancio visionario più sicuro e irrefutabile, non solo per il fatto di essere in posizione conclusiva e ascendente, ma per la rinuncia a figure di ‛ teologia poetica ' mitologizzante delle due canzoni (il discorso di Dio ai beati nella prima, il suo ‛ intervento ' nella morte di Beatrice nella seconda). La visione culmina nei vv. 22-24: divenne spirital bellezza grande / che per lo cielo spande / luce d'amor che li angeli saluta, affidandosi, piuttosto che a esiti figurativi, alla tensione del ritmo e all'intensità della pronuncia. Si pensi alla forza di quel grande, avvalorata dalla posizione aggettivo-sostantivo-aggettivo, dell'enjambement spande / luce d'amor, dove il verbo, sottolineato dalla rima, esprime anche fonicamente un senso di slancio assoluto, un movimento d'integrità vitale, di bellezza che si riversa sublimandosi in una luce indefettibile di amore sottratto alla caducità e divenuto puro splendore dell'essere. Questo movimento è ribadito dalla concatenazione progressivo-intensificativa delle due relative, che si conclude, nella combinatio, con la finale prospettiva di una serenità contemplativa senza mutamento. Vedi anche VENITE A INTENDER LI SOSPIRI MIEI.
Bibl. -Oltre ai commenti alla Vita Nuova, cfr. B. Narri, Filosofia dell'amore nei rimatori italiani del Duecento e in D., in D. e la cultura medievale, Bari 1949, 46-47; Barbi-Maggini, Rime 124-127; D. De Robertis, Il libro della " Vita nuova ", Firenze 1961, 161-163; J.A. Scott, Dante's " sweet new style " and the V.N., in " Italica " XLII (1965) 98-107; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967, II 138-142.