Abstract
I delitti contro la pubblica amministrazione presuppongono la presenza di un soggetto rivestito di una specifica qualifica. Nel nostro lavoro ci soffermeremo sui soggetti attivi dei reati contro la p.a., e precisamente verranno esaminate le figure di pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio ed esercente un servizio di pubblica necessità alla luce della riforma avvenuta con la legge 26 aprile 1990 n. 86.
1. Premessa
Le qualifiche soggettive di pubblico ufficiale, di incaricato di pubblico servizio e di persona esercente un servizio di pubblica necessità costituiscono un tema centrale per l’interpretazione di numerose disposizioni incriminatrici e, più in generale, per delimitare i confini della tutela penale della pubblica amministrazione.
Un corretto excursus storico della tematica proposta porta ad evidenziare che, intorno all’Ottocento, sia il codice penale per il regno delle Due Sicilie (1819) che il codice degli Stati Uniti delle Isole jonie (1841) richiamavano la figura dei pubblici agenti senza però in alcun modo definirli (per una ricostruzione storica della tematica, Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Commentario sistematico, II ed., Milano, 2002, 229 ss.).
Definiva la figura del pubblico ufficiale il codice toscano del 1853 il quale proponeva un'apposita disposizione: l’art. 165, infatti, disciplinava in tale qualifica «tutti gli impiegati dello Stato o dei Comuni, del pari di qualunque stabilimento, la cui amministrazione è soggetta alla tutela o alla vigilanza del Governo o del Comune» ed, invero, collegava alla figura di pubblici ufficiali i «notai, in tutto ciò che concerne l’esercizio delle loro funzioni» (Romano, M., Pre art. 357 c.p., in Commentario sistematico, I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei privati. Le qualifiche soggettive pubblicistiche, Artt. 336-360 cod. pen., Milano, 2008, 245; Bevilacqua, B., I reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Padova, 2003, 3).
Nel codice Zanardelli, del 1889, all’art. 207, co. 1, poteva leggersi la definizione di pubblici ufficiali: «coloro che sono rivestiti di pubbliche funzioni, anche temporanee, stipendiate o gratuite, a servizio dello Stato, delle Province o dei Comuni, di un istituto sottoposto per legge alla tutela dello Stato, della Provincia o di un Comune»; al secondo i notai; al terzo, gli agenti della forza pubblica e gli uscieri addetti all’Ordine giudiziario.
L’articolo specificava, inoltre, che «ai pubblici ufficiali sono equiparati, agli stessi effetti, i giurati, gli arbitri, i periti, gli interpreti e i testimoni, durante il tempo in cui sono esercitate le loro funzioni».
Nessuna definizione veniva prevista per la figura di incaricato di pubblico servizio, che, invero, veniva richiamata solo per disciplinarla quale soggetto passivo del reato di ingiuria dall’art. 369.
La collocazione e la disciplina delle qualifiche in oggetto si rinviene solo all’interno del codice Rocco del 1930, che definì anche la figura del soggetto esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 c.p.).
Il legislatore del ’30 si trovò, infatti di fronte al difficile compito di risolvere i contrapposti filoni interpretativi sviluppati intorno alla nozione di pubblico ufficiale, la concezione soggettiva e quella oggettiva.
La concezione soggettiva, sposata come visto dal codice Zanardelli, ancorava la titolarità della qualifica pubblicistica ad un rapporto di dipendenza dallo Stato o da un altro ente pubblico (Rosini, B., Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio e l’esercente un servizio di pubblica necessità, Padova, 1998, 2 ss; Picotti, L., Le nuove definizioni penali di pubblico ufficiale e di incaricato di un pubblico servizio nel sistema dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988, 278, rileva la predominanza della concezione soggettiva); quella oggettiva, invece, ricollegava la qualifica medesima all’attività svolta in concreto dal soggetto a prescindere dalla natura del rapporto con l’ente pubblico (cfr. Manzini, V., in Trattato di diritto penale, V, Torino, 1950, 4 ss.: l’autore evidenzia «come la qualità di impiegato non è essenziale per la nozione di pubblico ufficiale» dovendosi tale qualità riconoscere in capo al soggetto, impiegato o meno che eserciti una funzione pubblica).
Il tentativo di dirimere la controversia fu attuato attraverso sia l’adozione di una tecnica legislativa che, rifiutando la mera elencazione, consentisse l’utilizzo di categorie generali di derivazione giuspubblicistica alle quali poter ricondurre le diverse tipologie di pubblico agente, sia ancorando le figure in oggetto alla natura della mansione esercitata e non più al loro rapporto di dipendenza dalla pubblica amministrazione.
Per la vecchia formulazione dell’art. 357 c.p., precedente alla riforma del 1990 (l. 26.4.1990, n. 86), erano pubblici ufficiali: «gli impiegati dello Stato o di un altro ente pubblico che esercitano, permanentemente o temporaneamente, una pubblica funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria; ogni altra persona che esercita, permanentemente temporaneamente, gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per obbligo una pubblica funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria».
Si evidenzia come la norma risentisse delle politiche fasciste del periodo, volte ad assicurare una sempre maggiore ingerenza dello Stato nella vita di ognuno.
Invero, ha osservato la dottrina, sia i delitti dei pubblici ufficiali che quelli dei privati contro la pubblica amministrazione patiscono gli effetti, nella loro “intelaiatura originaria” dei principi autoritari del regime, il quale fonda la tutela penale non tanto sulla difesa di concreti interessi, quanto sulla violazione del rapporto di “fedeltà” tra pubblico agente e Stato (Manna A., Introduzione dei reati contro la Pubblica amministrazione, in A. Cadoppi, A. –Canestrari, S. –Manna, A. –Papa, M., Trattato di diritto penale. Parte speciale II. I delitti contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008, 3).
Si ritenevano incaricati di pubblico servizio ex art. 358 c.p.: “gli impiegati dello Stato o di un altro ente pubblico, i quali prestano, permanentemente o temporaneamente, un pubblico servizio; ogni altra persona che presta, permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per obbligo, un pubblico servizio”.
Emerge come le norme succitate sposassero entrambe le concezioni: le disposizioni si aprivano, infatti, con l’accoglimento della concezione soggettiva per aderire poi nella seconda parte al filone oggettivo.
Il catastrofico risultato fu quello di un'applicazione giurisprudenziale incontrollata delle qualifiche di cui trattasi.
In tale contesto critico, avanza l’idea di riformare le norme in oggetto con l’obiettivo di sganciarle definitivamente dal carattere soggettivo ed ancorarle a quella categoria oggettivo-funzionale.
Occorre precisare, però, che l’accoglimento della teoria soggettiva, anche in giurisprudenza, non aveva mai escluso la possibilità di una operatività della concezione oggettivistica in senso “ampliativo”. Infatti, ciò che si negava era la valenza restrittiva di quest’ultima concezione, nel senso che se un soggetto era stato identificato quale pubblico agente sulla base di un rapporto di dipendenza con la p.a., egli non poteva più sottrarsi al regime pubblicistico, neppure in ragione, ad esempio, dello svolgimento di attività disciplinate dal diritto privato (Plantamura, V., Le qualifiche soggettive pubblicistiche, in Cadoppi, A. –Canestrari, S. –Manna, A. –Papa, M., Trattato di diritto penale, Parte Speciale II, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, 894; l’Autore sottolinea come dal raffronto tra la prima e la seconda parte dei due articoli, emerga l’accoglimento normativo di entrambe le concezioni).
2. Art. 357 c.p.: nozione di Pubblico Ufficiale
Come si spiegava sopra, la norma di cui all’art 357 c.p. presentava notevoli difficoltà interpretative e vistose lacune.
Invero, l’art. 17, l. n. 86/1990 ha modificato sostanzialmente i contenuti dell’art. 357 c.p.
Testualmente la norma recita: «Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.
Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica Amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi».
Balza da subito agli occhi del lettore come la riforma abbia avuto il pregio di svincolare la qualifica in oggetto dalla natura dell’ente per il quale il soggetto agente opera (Cadoppi, A. –Veneziani, P., Elementi di diritto penale. Parte speciale. Introduzione e analisi dei titoli, Padova, 2007, 102; Rosini, B., Il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio e l’esercente un servizio di pubblica necessità, in Giurisprudenza Penale, a cura di Dominioni, O. –Mantovani, F., Padova 1998, 4).
Nell’esaminare la norma, occorre osservare, infatti, che con la locuzione “agli effetti della legge penale” il legislatore ha voluto non solo ancorare la definizione all’esclusivo ambito del diritto penale, ma nello stesso tempo ha voluto che la stessa accompagnasse non solo l’alveo dei reati contro la pubblica amministrazione ma fosse un pilastro dell’intera parte generale e speciale (Stortoni, L., Delitti contro la pubblica amministrazione, in Canestrari, S. -Gamberini, A. -Insolera, G. -Mazzacuva, N. -Sgubbi, F. -Stortoni, L. -Tagliarini, F., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Bologna, 1998, 84. Per ulteriori approfondimenti: Bondi, A. -Di Martino, A. -Fornasari, G., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino 2008, 45).
Inoltre, è la stessa norma a mostrare come il legislatore non si sia soffermato, ritenendole sufficientemente chiare, nella spiegazione delle funzioni legislative e giudiziarie, differenziandole, pertanto, dalla funzione amministrativa al cui chiarimento è dedicato il secondo comma della norma.
In tema legislativo, occorre osservare che agli effetti dell’art. 357 c.p. qualche dubbio è stato sollevato circa lo status di parlamentare e la possibilità di estendergli lo statuto penale della pubblica amministrazione.
Per alcuni in dottrina, alla luce delle prerogative costituzionali, che all’art. 68 Cost. riconoscono i parlamentari quali soggetti non responsabili per i voti dati e le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, e poiché essi non sono direttamente assoggettati ai principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, i parlamentari non andrebbero qualificati come pubblici ufficiali (Tagliarini, F., Il concetto di pubblica amministrazione nel codice penale, Milano, 1973, 190).
Tale tesi sembra attribuire ai parlamentari un ingiusto privilegio che si risolverebbe in una disparità di trattamento in violazione dell’art. 3 Cost., conseguentemente appare più corretto, agli effetti dell’art. 357 c.p., attribuire la qualifica di pubblici ufficiali agli stessi (Severino Di Benedetto, P., I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Le qualifiche soggettive, Milano, 1983, 87).
Quest’ultima lettura interpretativa pare, anche più correttamente, rispondere a quella del “commentatore ufficiale” del Codice Rocco, il quale sosteneva che la «qualità di p.u. dei senatori e deputati è riconosciuta a tutti gli effetti penali, e non solo per l’applicazione delle disposizioni stabilite a loro favore, come invece era per il codice del 1889» (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1982, 30).
Conseguentemente, assolvono funzione legislativa i parlamentari nazionali, deputati e senatori, i componenti del Governo con riferimento esclusivo all’emanazione di atti aventi forza di legge, i consiglieri regionali, e quelli delle province autonome di Trento e Bolzano.
Attualmente a tale elenco, in virtù dell’art. 322 bis c.p., introdotto dalla legge 29.9.2000, n. 300, devono aggiungersi gli organi aventi potestà legislativa nell’ambito delle Comunità Europee, quali i membri della Commissione e del Parlamento.
Per quanto concerne la funzione giudiziaria, la stessa viene comunemente svolta dai membri della Corte Costituzionale, della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato e da tutti i giudici c.d. togati, siano essi civili, penali o amministrativi, così come rientrano nelle fila i giudici onorari, di pace e popolari, nonché periti, testimoni (Cass., pen., sez. VI, 12.5.1993, in Cass. pen., 1994, 2439).
Il termine “giudiziaria” utilizzato dalla norma è stato reintrodotto dalla l. 7.2.1992, n. 181, dopo che il legislatore, nella riforma del 1990, aveva utilizzato l’aggettivo “funzioni giurisdizionali” in un'ottica di delimitazione.
Conseguentemente la lettura più ampia della norma districava ogni dubbio circa la qualifica di p.u. del pubblico ministero e di tutte quelle attività non direttamente riconducibili allo iusdicere - cancellieri, ufficiali giudiziari, consulenti tecnici del P.M. - (Cass., pen., sez. VI, 12.3.1998, n. 4825, in Giust. pen., 1999, 318; Cass., pen., 24.9.1998, n. 10619, in Cass. pen., 1999, 2847; Cass., pen., sez. VI, 7.1.1999, n. 4062, in CED Cass., 2000).
In linea con la lettura data vengono annoverati tra coloro che svolgono una funzione giudiziaria: gli ispettori postali, gli allievi della scuola di polizia e gli agenti e gli assistenti della polizia penitenziaria.
Per quanto concerne, infine, la funzione amministrativa, essa è stata l’unica oggetto di una precisa osservazione ed esegesi normativa, per cui si ritiene utile soffermarvisi nel prossimo paragrafo allo scopo di approfondire le questioni interpretative che la norma ha suscitato.
3. In particolare sul concetto di “pubblica funzione amministrativa”
La norma di cui all’art. 357 c.p. al suo capoverso, tenta di tracciare i confini applicativi interni ed esterni circa la figura di pubblica funzione amministrativa. Tentativo che era stato omesso dal codice ante riforma poiché in materia di art. 357 c.p. si riteneva sufficiente ricorrere alla definizione di funzione amministrativa dettata dalla dottrina giuspubblicistica.
Oggi la costruzione normativa di cui all’articolo 357 c.p. individua precisi limiti alla pubblica funzione amministrativa: come si può vedere dalla lettura della norma si tratta di limiti “esterni”, idonei a tracciare le differenze tra area pubblicistica e quella privatistica, e limiti “interni”, necessari a tracciare i confini tra pubblica funzione e pubblico servizio.
Con riferimento al limite esterno, appare indispensabile che la funzione amministrativa, per poter essere definita pubblica, sia disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e pertanto, da atti che possano esprimere la supremazia della P.A. (Plantamura, V., Le qualifiche soggettive pubblicistiche, cit., 899).
Al fine di individuare le norme di diritto pubblico e gli atti autoritativi, appare opportuno porre in evidenza che diversi problemi sorgono in riferimento alle prime, dal momento che non sempre si riesce a distinguerle dalle norme di diritto privato (Pugliatti, S., Diritto pubblico e privato, in Enc. dir., XII, Milano, 1959, 696 ss.).
Necessariamente, quindi, allo scopo di dirimere i casi dubbi sono stati elaborati diversi criteri sussidiari quali: la determinatezza o meno del destinatario della norma (Guarino, G., Pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, 11. L’Autore afferma che sono pubbliche le fattispecie di poteri e di atti, tipiche in regime di monopolio, per le quali siano competenti solo determinati soggetti - c.d. fattispecie a soggetto vincolato -; private, al contrario, le fattispecie a soggetto indifferenziato che, potenzialmente, possono essere compiute da qualsiasi soggetto dell’ordinamento, come quando un'attività è esercitabile in un mercato concorrenziale e non in regime di monopolio legale (in questo senso anche Castellana, A.M., Profili di soggettività penale degli interventi pubblici nell’economia, Padova, 1989, 363), la sua natura derogabile o inderogabile (Pugliati S., voce Diritto Pubblico e privato, in Enc. dir., XII, Milano, 1959, p. 696), la procedibilità d’ufficio o ad istanza di parte delle sanzioni (Severino Di Benedetto, P., Pubblico ufficiale e incaricato di un pubblico servizio, in Dig. pen., X, 1995, 515), l’osservanza o meno di un obbligo di imparzialità (Garofoli, R., La privatizzazione degli enti dell’economia, Milano, 1998).
Poiché si ritiene che nessuno di tali criteri possa essere stimato come decisivo, avendo carattere meramente sintomatico non presentando nessuno il carattere dell’autonomia, sembrerebbe preferibile utilizzarli congiuntamente in una prospettiva di reciproca integrazione (Plantamura, V., Le qualifiche soggettive pubblicistiche, cit., 900).
Anche, con riferimento agli atti autoritativi si assiste ad una sostanziale confusione, dal momento che possono essere intesi in senso stretto, e quindi possedere natura coercitiva (come accade con l’arresto), oppure in senso lato, nell’essere unilateralmente produttivi di effetti giuridici.
In merito, ci si è chiesti se il compimento di un solo atto autoritativo valga a qualificare come pubblica l’intera attività e se, a contrario, la natura privata di un singolo atto, possa escludere la sussistenza delle qualifiche pubblicistiche.
Bisogna, quindi, domandarsi se debba accogliersi una concezione atomistica, pertanto stretta, oppure olistica, e pertanto allargata, della pubblica funzione amministrativa. Invero, la risposta fornita dalla dottrina è positiva nel primo caso e negativa nel secondo, poiché in quest’ultimo la qualifica pubblicistica dovrebbe risultare dalla disciplina dell’attività complessivamente considerata.
Il secondo limite da noi richiamato, quale quello “interno” è teso a distinguere “la funzione pubblica” dal “servizio pubblico”. Perché la funzione pubblica possa essere considerata tale è necessario che essa «sia caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi a mezzo di poteri autoritativi o certificativi».
Necessita precisare che anche in questo caso ci si è chiesti se la locuzione «formazione e manifestazione della volontà della p.a» vada intesa come un potere unico, richiedendo che sussistano cumulativamente sia la formazione che la manifestazione della volontà della p.a. o possa integrarsi tale potere di formazione della p.a. disgiuntamente da quello della sua manifestazione e viceversa.
In ottica garantista la soluzione più corretta auspicherebbe la sussistenza di entrambe, ma occorre precisare che si tratterebbe di una scelta portatrice di notevoli conseguenze sul piano applicativo, poiché la norma non troverebbe applicazione nei casi di atti a formazione frazionata.
Una tesi restrittiva valorizza il momento della formazione, attribuendo rilievo ai singoli contributi e quindi, anche ai meri atti preparatori interni alla pubblica amministrazione (Picotti, L., Le nuove definizioni penali di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio nei delitti contro la pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, 276).
Quello della formazione e manifestazione della volontà ha suscitato da sempre più problemi, poiché è l’unico dei tre che per potere essere compreso necessita, da un lato, del costante collegamento con il limite “esterno” e, dall’altro, di un richiamo ai contenuti dell’art. 358 c.p.
In riferimento, invece, ai poteri autoritativi e certificativi essi rappresentano l’espressione della supremazia della P.A. Sul tema, invero, la giurisprudenza ha affermato testualmente che «la qualifica di pubblico ufficiale compete a chi esercita poteri che sono la manifestazione della volontà dell’autorità che essi rappresentano e consistono in verifiche, accertamenti, verbalizzazione, constatazioni ed obblighi di denunce e rapporti interni ed esterni, cioè atti che rientrano nella funzione di documentazione amministrativa che è quella volta a dare certezza di quanto con la stessa accertato, e che non può essere che la manifestazione di una funzione pubblica» (Cons. St., sez. II, 18.10.1995, n. 1005/93, in Cons. St., 1997, I, 1766).
I poteri autoritativi non vanno intesi quali esclusivamente quelli coercitivi, che consentono il ricorso alla forza, ma anche tutti quelli in virtù dei quali la p.a. emana provvedimenti, ovvero atti tipici.
I poteri certificativi si sostanziano in tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria. Nonostante il contrario parere di parte della dottrina (Severino Di Benedetto, P., Prospettive di riforma degli artt. 357 e 358 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 1173), tali poteri non si limitano ai soli atti fidefacenti, ma comprendono anche altre documentazioni non assistite da certezze legali.
4. Art. 358 c.p.: l’incaricato di pubblico servizio
L’attuale formulazione dell’art. 358 c.p. recita testualmente al primo comma che «agli effetti della legge penale, sono incaricati di pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio».
Come può evincersi dalla lettura della norma è stato eliminato il vincolo di dipendenza del soggetto dalla p.a. in osservanza all’accoglimento della concezione oggettiva funzionale prevedendo con una formulazione, alquanto, tautologica come unico elemento necessario e sufficiente ai fini della suddetta qualifica la prestazione di un pubblico servizio.
Al secondo comma della norma viene introdotta una definizione di pubblico servizio: «per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni d’ordine e della prestazione di opera meramente materiale».
Non contenendo l’originaria formulazione antecedente alla riforma del ’90 precisi contributi sul significato di pubblico servizio ricorreva in aiuto l’elaborazione operata dalla dottrina giuspubblicistica. Tale dottrina tradizionalmente riferisce il rapporto di servizio al rapporto che si crea tra p.a. e persona fisica, la quale ha l’obbligo di agire di agire per realizzare i fini dell’ente. Conseguentemente il profilo più rilevante di questo rapporto è rappresentato dalla doverosità delle funzioni esercitate e dal loro carattere professionale e continuativo.
Una parte della dottrina definiva come pubblico servizio un’attività propria dello Stato o di un altro ente pubblico, svolta da pubblici impiegati o da privati in forza di una manifestazione di volontà della p.a., disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, come limite superiore, e avente come limite inferiore il servizio di pubblica necessità (Malinverni, A., Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio nel diritto penale, Torino, 1951, 85 ss. Contra Pagliaro A., Principi di diritto penale. Parte generale, secondo il quale «è da escludere che si possa richiedere l’obbligo di agire per il perseguimento dei fini dell’ente, in quanto appare sufficiente che il soggetto fisico ne abbia la facoltà. Inoltre conta non tanto un rapporto di servizio qualsiasi nei confronti dell’ente pubblico, ma si richiede un qualsiasi esercizio di un pubblico servizio; in altri termini l’aspetto pubblicistico è spostato dalla natura dell’ente alla natura del servizio che obiettivamente abbia una funzione pubblicistica»).
Oggi, dalla norma in oggetto possiamo evincere che il servizio pubblico è disciplinato da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, manca dei tre poteri tipici della pubblica funzione (deliberativo, autoritativo, certificativo) e non può reggersi sullo svolgimento o la prestazione di mansioni meramente materiali (Plantamura, V., Le qualifiche soggettive pubblicistiche, cit., 911).
Si tratta, invero, dello stesso criterio formale, contenuto nell’art. 357 c.p., che ha lo scopo di differenziare l’area pubblicistica da quella privatistica, per rendere solo la prima riconducibile al pubblico servizio.
Problematiche intorno alla figura dell’incaricato di pubblico servizio (i.p.s.) sussistono a seconda che lo stesso sia un soggetto legato o estraneo alla pubblica amministrazione.
Nel primo caso si parla, invero, di “incaricato di pubblico impiego”, figura per la quale il codice penale fissa specifiche fattispecie di reato. Il riferimento, per esempio, è alla fattispecie prevista e punita dall’art. 320 c.p. che, alla sussistenza di un pubblico impiego, limita la punibilità della corruzione impropria.
Occorre, comunque, osservare che lo spazio riconosciuto alla figura dell’incaricato di pubblico impiego risente dell’erosione operata dalla giurisprudenza a favore della qualifica di pubblico ufficiale, sembra, invero, difficile immaginare un i.p.s., impiegato pubblico, sprovvisto di almeno uno dei tre poteri tipici (autocertificativi, certificativi o deliberativi) richiamati nell’art. 357 c.p.
Maggiori problemi si pongono, invece, in materia di i.p.s. estraneo alla pubblica amministrazione.
Prima della riforma del ’90 si riteneva fosse sufficiente una concessione amministrativa, c.d. traslativa, con la quale si trasferiva un diritto soggettivo o comunque un potere della p.a., per qualificare il soggetto agente come i.p.s. Oggi, invero, proprio volgendo lo sguardo al pubblico concessionario, bisogna domandarsi se in riferimento alla nozione di cui all’art. 358 c.p. debba accogliersi una concezione olistica o lata.
La dottrina prevalente (Crespi A., Il nuovo testo dell’art. 358 c.p. e un preteso caso di corruzione punibile, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 1239 ss, e spec., 1252 ss; Severino Di Benedetto, P., Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio, in Dig. pen., 1995, X, 521, Fiorella, A, Ufficiale pubblico, incaricato di pubblico servizio o di un servizio di pubblica necessità, in Enc. dir., XLV, Milano, 556 ss.) ritiene che non ogni attività svolta dal concessionario possa essere considerata sempre pubblica, poiché al suo interno sono presenti attività regolate da norme di diritto pubblico e attività disciplinate da norme di diritto privato, le quali, queste ultime non rientrando in quel limite “esterno” da noi richiamato non risultano idonee a suffragare in capo a chi le svolge la qualifica di i.p.s.
In giurisprudenza, invece, assume prevalenza una interpretazione lata delle qualifiche soggettive pubblicistiche.
In conclusione, l’ultima parte della norma di cui all’art. 358 c.p. specifica che la qualifica di i.p.s. non possa riconoscersi a chi svolge semplici mansioni d’ordine o presta opera meramente materiale.
Con mansioni d’ordine vuole intendersi l’assenza di autonomia decisionale esplicandosi la suddetta attività meramente nella esecuzione di ordini altrui mentre con opera materiale vuole qualificarsi quell’attività che si esaurisce semplicemente in un dispiegamento di forze per portarla a compimento.
L’art. 359 c.p. distingue due diverse categorie di persone esercenti un servizio di pubblica necessità, la norma statuisce, infatti, che: «Agli effetti della legge penale sono persone che esercitano un servizio di pubblica necessità:
1) i privati che esercitano professioni legali o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando all’opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi;
2) i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione».
Lo stesso ha subito nel corso degli anni un limitato intervento legislativo a suo carico ed, invero, minore è stata anche l’attenzione riservata alla qualifica in oggetto da parte della dottrina.
Benché tale figura venga definita “pubblicistica” ha in realtà una natura mista, in quanto privata è l’essenza dell’attività svolta e la sua disciplina, pubblica la rilevanza che riveste.
Nella prima categoria rientrano quanti svolgono la professione sanitaria o forense o altra professione per il cui esercizio è necessaria una specifica abilitazione dello Stato. Perché a tali soggetti possa essere riconosciuta la qualifica in questione, occorre che il soggetto sprovvisto di tale abilitazione sia obbligato per legge a valersi (Trattasi di tautologia: se per l’esercizio di una determinata attività, occorre il possesso di uno specifico titolo, è evidente che la medesima attività sarà preclusa a chi di quel titolo non è in possesso, in Pagliaro, A., Principi di diritto penale, parte speciale, I, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 2000, 20).
La norma in oggetto richiama testualmente le professioni forensi e quelle sanitarie. La prima categoria annovera al suo interno, come appare facilmente intuibile, la figura dell’avvocato e del procuratore legale, meno circoscritta appare la seconda categoria.
Proprio in ordine alla figura dell’avvocato, di recente, le Sezioni Unite (Cass., pen., S.U., 28.9.2006, n. 32009, in Cass. pen., 2006, 3985) hanno risolto un annoso conflitto giurisprudenziale.
Il contrasto verteva sulla qualifica da attribuire alla figura del difensore nell’esercizio delle indagini difensive introdotte con la l. n. 7.12.2000, n. 397.
L’attribuzione della qualifica di cui all’art. 357 c.p. non trovava consensi, sulla base della premessa che lo svolgimento di attività di indagini difensive rappresentasse semplicemente una facoltà all’interno del rapporto contrattuale privato che si instaura tra difensore e assistito; vi era, inoltre, chi riteneva che il riconoscimento di uno status pubblicistico in capo al difensore, lo avrebbe collocato sullo stesso piano dell’accusa snaturandone la figura di patrono di parte (Nobili, M., Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, in Dir. pen., 2001, 12; Del Corso, S., Uno “spettro” si aggira nel palazzo di giustizia l’avvocato pubblico ufficiale, in Scritti in onore di A. Cristiani, Torino, 2001, 207 ss; Insolera, G.,“L’innaffiatore innaffiato”, ovvero la tutela penale delle indagini difensive, in Dir. pen. e processo, 2001, 1419; Manna, A., Il difensore come pubblico ufficiale: le controverse indicazioni provenienti dalla disciplina delle indagini difensive, in Dir. pen. e processo, 2003, 1281; Coppi F., Recuperare un giusto rapporto fra diritto sostanziale e processo, in Legisl. Pen., 2001, 472).
Di contro, vi era, invece, chi riteneva che il difensore raccogliendo le informazioni da un soggetto estraneo al rapporto di mandato e provvedendo a verbalizzarle in un documento idoneo ad assumere valenza processuale probatoria, svolgesse una tipica attività connotata dalle caratteristiche della pubblica funzione giudiziaria e pertanto assumeva la qualifica di pubblico ufficiale (Iadecola, G., Le nuove indagini investigative da parte dell’avvocato, in Giur. mer. 2001, 548; Montagna, A., Indagini difensive: infedele verbalizzazione e configurabilità del falso ideologico, in Dir. pen. e processo, 2006, 1467).
La questione è stata, come si accennava, risolta con la pronuncia delle Sezioni Unite del 28 settembre 2006 n. 32009, le quali hanno statuito che il difensore assume la veste di pubblico ufficiale nella raccolta della prova dichiarativa ex art. 391 bis c.p.p., qualificandosi il reato di falso ideologico in atto pubblico in caso di verbalizzazione infedele delle dichiarazioni ricevute.
In tema di prestazioni sanitarie, invece, appare conforme l’orientamento di riconoscere nell’attività dei sanitari i profili dell’esercizio di un pubblico servizio o di una pubblica funzione, limitando, pertanto, la configurabilità della fattispecie di cui all’art. 359 c.p. al solo caso in cui la professione sia svolta al di fuori di un qualsiasi rapporto con le strutture pubbliche.
Da ultimo la norma descrive colui che presta un servizio dichiarato di pubblica necessità nello svolgimento di un'attività assoggettata a disciplina pubblicistica, non qualificandosi tale attività né come pubblica funzione né come pubblico servizio. Necessiterà affinché tale circostanza possa verificarsi un atto autorizzativo amministrativo.
Fonti normative
L. 26.4.1990, n. 86; Art. 357 c.p.; Art. 358 c.p.; Art. 359 c.p.; Art. 165 codice toscano del 1853; Art. 207 c.p. Zanardelli; Art. 322 bis c.p.; L. 29.9.2000, n. 300; Art. 320 c.p.; L. 7.12.2000, n. 397; Art. 391 bis c.p.
Bibliografia essenziale
Bevilacqua, B., I reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Padova, 2003; Cadoppi, A. –Veneziani, P., Elementi di diritto penale. Parte speciale. Introduzione e analisi dei titoli, Padova, 2007, 102; Rosini, B., Il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio e l’esercente un servizio di pubblica necessità, in Giurisprudenza Penale, a cura di Dominioni, O. –Mantovani, F., Padova 1998; Crespi, A., Il nuovo testo dell’art. 358 c.p. e un preteso caso di corruzione punibile, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992; Manna, A., Introduzione dei reati contro la Pubblica amministrazione, in A. Cadoppi, A. –Canestrari, S. –Manna, A. –Papa, M., Trattato di diritto penale. Parte speciale II. I delitti contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008; Manzini, V., in Trattato di diritto penale, V, Torino, 1950; Pagliaro, A., Principi di diritto penale, parte speciale, I, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 2000; Picotti, L., Le nuove definizioni penali di pubblico ufficiale e di incaricato di un pubblico servizio nel sistema dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1988; Plantamura, V., Le qualifiche soggettive pubblicistiche, in Cadoppi, A. –Canestrari, S. –Manna, A. -Papa, M., Trattato di diritto penale, Parte Speciale II, I delitti contro la Pubblica Amministrazione; Romano, M., Pre art. 357 c.p., in Commentario sistematico, I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei privati. Le qualifiche soggettive pubblicistiche, Artt. 336-360 cod. pen., Milano, 2008; Rosini, B., Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio e l’esercente un servizio di pubblica necessità, Padova, 1998; Severino Di Benedetto, P., I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Le qualifiche soggettive, Milano, 1983.