purusa
Termine sanscr. traducibile con «uomo» (con la stessa ambiguità dell’italiano nel connotare solo il genere maschile o l’uomo in quanto essere umano), «spirito» o «persona». P. indica infatti il principio cosciente contrapposto all’aspetto materiale di cui fanno parte il corpo, ma anche gli organi di senso e le funzioni intellettuali inferiori, considerate in sé incoscienti e quindi parte della prakr̥ti (➔). Il concetto di p. è centrale soprattutto nei sistemi Sāṅkhya e Yoga. Il Sāṅkhya riconosce una pluralità di p. tutti sullo stesso piano e distinti dall’unica prakr̥ti e dai suoi sviluppi. Lo Yoga come rappresentato negli Yogasūtra di Patañjali e nel loro commento, individua invece un «p. particolare», identificato con Dio, il quale ha già raggiunto l’isolamento dalla prakr̥ti e funge perciò da modello per tutti gli altri. Le riletture del Sāṅkhya alla luce del Vedānta ammetteranno infine un unico principio cosciente, o p., contrapposto all’unica prakr̥ti. Sono evoluti dalla prakr̥ti, secondo il Sāṅkhya, anche intelletto, senso dell’Io e mente. Il più sottile, l’intelletto, ha come attività propria il discernimento. La soggettivizzazione interviene, come (errata) nozione di un Io, nel gradino immediatamente seguente, quello del senso dell’Io. Segue poi la coordinazione dei dati sensoriali, tipica della mente (manas). Manas (➔ pratyakṣa) indica nella filosofia indiana il senso interno, quello tramite il quale cogliamo per es. il piacere o il dolore. In Sāṅkhya, in partic., esso ha uno status ambivalente, perché è anche una facoltà d’azione, nel senso che coordina le facoltà d’azione, fungendo da tramite per l’intelletto. Il p., pur essendo pura coscienza (o anzi, proprio per questo), letteralmente non pensa nel senso di produrre pensieri. Poiché infatti la caratteristica della prakr̥ti è l’attività e la capacità di generare, è prodotto della prakr̥ti anche la generazione di nuovi pensieri. Il p. è invece intrinsecamente in quiete e quindi non produce nuovi pensieri; è coscienza limpida, testimone (sākṣin) di quanto accade nella prakr̥ti, nel suo aspetto psichico e fisico. La pluralità dei p. non corrisponde perciò a un loro essere soggettivamente diversi; ciascuno dei p. non è che pura coscienza. Quindi, tutto quanto viene generalmente legato alla soggettività e all’attività cosciente è invece, secondo il Sāṅkhya, parte della prakr̥ti. Come può però il p. essere cosciente delle esperienze di cui può godere grazie alla prakr̥ti? Anche se la prakr̥ti non equivale alla materia, il dilemma è simile all’impasse cartesiano sui rapporti fra psiche e corpo. Se non c’è legame fra p. e intelletto, senso dell’Io e mente, di che cosa è cosciente il p.? Le Sāṅkhyakārika («Strofe del Sāṅkhya») enunciano in merito la celebre metafora del cieco e dello storpio, per cui la natura è il cieco che porta in giro per il mondo il p., storpio, ma in grado di far esperienza di ciò che vede. Ma la metafora non è una risposta esauriente, perché in effetti il p. non è solo privo di facoltà d’azione, ma anche di facoltà conoscitive e deve perciò prendere in prestito dalla prakr̥ti anche gli occhi per vedere il mondo. Sua è solo la capacità di esser cosciente di quanto vede. In termini contemporanei, la prakr̥ti fornisce i dati sensibili già elaborati dai sensi esterni, dalla mente e dall’intelletto, come un computer che trasformasse l’immagine di un vaso di fiori nei corrispondenti stimoli elettrici neuronali. Solo un soggetto cosciente, il p., può poi essere cosciente di conoscere tali dati. Testi del Sāṅkhya successivi alla Yuktidīpikā («Fiaccola del ragionamento», che già però è consapevole del problema) descriveranno il rapporto fra il p. e le facoltà conoscitive attraverso la metafora di uno specchio. P. è lo specchio cosciente di quanto elaborato dall’intelletto. Esso non è perciò partecipe dell’attività di acquisizione ed elaborazione dei dati sensibili. Può però riceverli essendo esso stesso uno specchio che però si differenzia da uno specchio ordinario, per la consapevolezza di quanto in sé riflesso.