purismo
In ambito linguistico e letterario, con purismo si intende ogni dottrina e atteggiamento critico-normativo, a carattere tradizionalista, che rifiuta e condanna con intransigenza ➔ neologismi, tecnicismi, ➔ forestierismi e ogni tipo di apporto da altre lingue o dialetti, per salvaguardare la fisionomia lessicale, grammaticale e sintattica di una lingua.
Tali propositi si legano per lo più alla convinzione che la lingua stessa abbia conosciuto, in un determinato punto storico-geografico, una fase aurea di incontaminata purezza, successivamente scaduta e corrotta, e che questa condizione possa essere recuperata attraverso lo studio e l’imitazione di un canone di scrittori assunti come modelli indiscussi.
Con accezione più specifica, si definisce purismo la corrente linguistico-letteraria diffusasi nei primi decenni del XIX secolo (soprattutto per opera di Antonio Cesari e Basilio Puoti, per i quali vedi oltre) che, oltre al rigetto degli esotismi, propugnava un ritorno a modelli di scrittura del Trecento. Con valore più estensivo, infine, talvolta purismo indica ogni teoria o posizione linguistica che si richiami ai valori della tradizione, e conseguentemente, nelle proprie scelte di scrittura, utilizzi fino all’affettazione ➔ arcaismi e voci letterarie e, viceversa, eviti neologismi, solecismi e forestierismi (frequentemente definiti, con valore polemico, ➔ barbarismi). L’istanza patriottico-nazionalistica (o, in determinati casi, municipalistica) non è di per sé essenziale al purismo, potendosi a volte proporre come fondamentale o del tutto secondaria (➔ questione della lingua).
In Italia i più importanti movimenti puristici sono rappresentati, dal tardo Cinquecento fino a tutto l’Ottocento, dai seguenti episodi:
(a) il fiorentinismo arcaizzante dell’Accademia della Crusca (➔ accademie nella storia della lingua), che, accogliendo in generale i criteri già fissati da ➔ Pietro Bembo, ma riveduti sulle idee di Vincenzo Borghini e di ➔ Lionardo Salviati, identifica la lingua letteraria con la lingua usata dagli scrittori fiorentini o al più toscani, soprattutto da quelli dell’aureo Trecento;
(b) la cosiddetta scuola capuista, attiva a Napoli nel Seicento (➔ età barocca, lingua dell’), che rappresentò una decisa ripresa del tradizionalismo nei confronti delle intemperanze linguistiche del barocchismo;
(c) la reazione intransigente alla licenza linguistica del secondo Settecento, rappresentata soprattutto dal veronese Antonio Cesari e, successivamente, dal marchese e patriota napoletano Basilio Puoti, che propugnavano un integrale quanto anacronistico ritorno all’uso trecentesco (è questo, come già detto, il purismo in senso stretto).
Non va invece considerata purista la dottrina di Bembo (Prose della volgar lingua, 1525), se non per un’eccessiva estensione semantica del termine, per la decisiva istanza estetica e retorico-letteraria che anima il bembismo in modo esclusivo, e la sua estraneità a ogni motivo nazionalistico, misoneistico o naturalistico. Allo stesso modo, non sembra utile né persuasivo definire puriste, sulla base di alcune convergenze, la teoria e la prassi di ➔ Alessandro Manzoni e dei manzoniani, che propongono e diffondono l’ideale di una lingua nazionale fondata sull’uso fiorentino colto, espresso in modo prestigioso nei Promessi sposi: nella dottrina manzoniana risulta infatti assente ogni motivo misoneistico o arcaizzante, mentre è decisivo il ricorso al modello attuale dell’uso parlato.
Pertanto, in nome delle precedenti indicazioni, la prima espressione di purismo può essere individuata nelle idee dei fiorentini Borghini (1515-1580) e Salviati (1539-1589), la cui eredità ideale e metodologica fu decisiva per la costituzione dell’Accademia della Crusca (1582-1583) e per l’impianto del grande Vocabolario degli Accademici della Crusca (prima edizione 1612), destinato a rappresentare per almeno due secoli il riferimento (➔ lessicografia) di ogni corrente arcaizzante e fiorentinista, oltre che il modello lessicografico dei grandi dizionari nazionali d’Europa. Fra le opere più celebri di Salviati si ricordano l’Orazione in lode della fiorentina lingua (1564; titolo completo: Orazione nella quale si dimostra essere la fiorentina favella e i fiorentini autori superiori a tutte le altre lingue, sì dell’antichità che moderne, e a tutti gli altri autori) e gli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, pubblicati tra il 1584 e il 1586. Salviati attaccò la Gerusalemme Liberata di ➔ Torquato Tasso, difendendo la preminenza del fiorentino contro le scelte linguistiche ‘italianizzanti’ assunte nel poema. Secondo un metodo che sarebbe stato tipico dei più noti puristi, sostenne costantemente le sue convinzioni con notevoli contributi filologici e costante attività lessicografica.
Nelle idee e nei lavori critici di entrambi gli autori è fondamentale la distinzione fra lingua come istituzione di natura e linguaggio retoricamente elaborato dagli autori, e l’indicazione del fiorentino come lingua intrinsecamente più adatta delle altre a garantire la perfezione letteraria delle scritture. Nel Trecento viene additato il secolo in cui quella lingua avrebbe goduto di una fase aurea di purità e perfezione, qualità allora condivise anche dall’espressione popolare: da qui l’allargamento del canone degli autori a scritti minori e pratici (cronachette e libri di conti fiorentini), nei quali meglio si coglierebbe (al fine di restaurarla) la regolarità e la purità naturale del fiorentino, oscurate nelle scritture troppo elaborate degli auctores. Si definisce così la tesi arcaizzante della superiorità naturale del fiorentino trecentesco – «io ho creduto che il suo perfetto grado sia stato dal 1348 al 1420 o quello intorno» (Borghini 1971: 203-204); «della qual purità si può ben dire sicuramente, che altrettanta fosse nella voce del popolo, o più, quant’ella era negli scrittori» (Salviati 1810: 194) – e il progetto di un restauro che rimedi al successivo degrado linguistico avvenuto nei due secoli successivi.
Viene spesso ritenuta espressione di purismo anche l’esperienza di Leonardo Di Capua (di Bagnoli Irpino, 1617-1695), di cui fu allievo ➔ Giambattista Vico, il quale, nella Napoli dominata dalle tendenze poetiche mariniste e barocche, sostenne con determinazione il toscanismo arcaizzante e un ritorno alla tradizione trecentesca, raccogliendo attorno a sé la cosiddetta scuola capuista. Come osserva Vitale (1986: 180-181),
nonostante gli inevitabili eccessi che seguirono a siffatto ritorno all’antico […], l’opera svolta dal Di Capua e dai capuisti ebbe funzione capitale nel ristabilire in Napoli i valori e i contenuti della lingua e della cultura toscana. Certo, come per ogni innovazione, […] la reazione agli imperanti indirizzi barocchi ha comportato una insistenza anticheggiante e una ostinazione toscanista, culminanti nel fastidioso arcaismo e nell’idiotismo linguistico, che risultavano esagerate, anche se storicamente comprensibili, persino a giudizi non prevenuti.
Si intende tuttavia per purismo, quasi in senso antonomastico, la dottrina sostenuta da Antonio Cesari (1760-1828), e la scuola e il movimento da lui ispirati, che più esattamente si potrebbero denominare purismo storico. Con riferimento a lui e ai suoi seguaci, del resto, vennero per la prima volta utilizzate in senso linguistico-letterario le etichette purista e purismo, di provenienza francese, entrate nella nostra lingua solo nei primi anni del XIX secolo. Le idee di Cesari sono desumibili da opere espressamente dedicate alla questione della lingua, dalla sua attività di lessicografo, da scritti letterari come versi, novelle e sermoni, dal vasto epistolario, da molteplici traduzioni (soprattutto di opere latine, da Cicerone e Terenzio a opere edificanti medievali come l’Imitazione di Cristo). Nel 1808 compose una Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (stampata nel 1810), l’opera che da sempre è considerata il manifesto del purismo. Ma già da alcuni anni lavorava a una riedizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, «cresciuto d’assai migliaja di voci e modi» tratti da spogli di autori del XIV secolo, pubblicata a Verona dal 1806 al 1811 (la cosiddetta Crusca veronese). Nel 1813, con lo scopo di integrare la Dissertazione fornendo una più ampia documentazione di parole e locuzioni del Trecento, pubblicò un lungo dialogo dichiaratamente ispirato al De oratore di Cicerone, intitolato Le Grazie, i cui interlocutori sono suoi amici puristi. La sua nozione linguistica fu ribadita nell’opera, pubblicata postuma nel 1829, Antidoto pe’ giovani studiosi contro le novità in opera di lingua italiana.
Nella Dissertazione Cesari proclamava che la lingua italiana aveva avuto il suo secolo d’oro nella Toscana del Trecento, in quanto il linguaggio toscano, portato alla sua massima grazia dai grandi scrittori del Trecento, rispetto agli altri dialetti neolatini si era già costituito come puro, perfetto e leggiadro, e questi pregi si sarebbero manifestati tanto sulla bocca degli umili popolani quanto nelle scritture dei poeti e dei prosatori che quel linguaggio vivo avevano assunto nelle loro opere:
il toscano dialetto, e il fiorentino singolarmente, prese una tal grazia, purità, gentilezza e proprietà, che mai la maggiore. Tutti in quel benedetto tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene. I libri delle ragioni dei mercanti, i maestri delle dogane, gli stratti delle gabelle e delle botteghe menavano il medesimo oro. […] Questa singolare proprietà e bellezza fece sì che […] solo la lingua toscana avesse degli scrittori che la rendettero chiara ed illustre […], e furono Dante, e il Boccaccio e il Petrarca. […] Ora io dico: essere quello appunto l’aureo secolo della lingua toscana, dal quale è bisogno ritrarre, chi vuol aver fama di buon dicitore (Cesari 1907: 144-145).
E altrove: «il vero oro puro di 24 carati sono, il Passavanti, i SS. Padri, i Fioretti» (Lettera a G. Manuzzi, 3 aprile 1826). La successiva storia del toscano è la vicenda del progressivo scadimento delle sue qualità intrinseche («la nettezza, la natìa grazia, la purità ingenua, il nitor singolar della lingua, dopo il trecento non parve più»): nel corso del Cinquecento, la lingua smarrì la sua spontanea naturalezza a causa delle eleganti modulazioni artistiche prodotte dalla raffinata cultura rinascimentale (per Cesari «altro è la lingua ed altro è la poesia ed eloquenza»); dopo le stravaganze italianiste e barocche del Seicento, il «secoletto miterino» (cioè il Settecento, che nel giudizio polemico di Cesari era degno della mitra che si metteva in capo ai condannati dell’Inquisizione) avrebbe decisamente contribuito a questo degrado con l’emarginazione dello studio dei classici, l’ingresso imponente del francesismo («il subisso di tante cattive traduzioni franzesi, che inondarono l’Italia») e l’influsso corruttore di altri sistemi linguistici (ad esempio, il linguaggio burocratico e quelli tecnici e scientifici, nei quali non è «sentore di lingua toscana»): «negli Scrittor del ’300 c’è una semplicità ed un candore, del tutto contrario agli artifizj o lezj dello scrivere moderno, che è tutto belletto e raffinatezze» (Lettera ad A. Galassi, 18 dicembre 1821).
Cesari propone quindi un’opera di restituzione dell’italiano ai valori antichi, anzitutto tramite una seria ripresa dello studio della lingua e un’attività filologica e lessicografica di recupero degli antichi testi. Pressoché nulla è concesso alle necessità dei neologismi, accettabili solo in presenza di realtà ignote agli antichi, e in ogni caso da adottare nel rispetto del ‘genio’ originario della lingua (➔ immagine dell’italiano). Cesari ritiene che il corpus lessicale trecentesco possa fornire ampia soddisfazione alle urgenze terminologiche dell’attualità: anzitutto
è da vedere, se le cose nuove si potessero con le parole che sono in piedi nominare; il che certo si troverebbe esser vero, chi ben avesse ripescato ne’ Classici; […] anche le voci morte e dismesse, possono, recandole in uso, ripigliar nuova vita; […] e perché pare anche che la miglior maniera d’arricchir la lingua sia quella, di restituirle la natural dote, e le native ricchezze, […]; così il pescare ne’ Padri di questa lingua e raccoglierne le voci, o dimesse, o da’ compilatori del Vocabolario dimenticate, sarà un vero arricchirla (Cesari 1907: 58, 150, 152-153, 188, 214)
La scuola di Cesari fu anzitutto costituita da un gruppo di letterati, quasi tutti veneti (e veronesi in particolare) e uomini di Chiesa: Giuseppe Pederzani, Antonio Benoni, Francesco Villardi, Michele Colombo, Paolo Zanotti, Giuseppe Manuzzi. Tutti si ispiravano alle idee e all’opera di altri veneti: il veronese Giulio Cesare Becelli (1686-1750), il roveretano Clementino Vannetti (1754-1795), il padre veronese Girolamo Lombardi. Ma il purismo ebbe presto ampia diffusione fra gli scrittori e gli intellettuali italiani, alcuni di formazione profondamente diversa da quella del caposcuola. In effetti, il successo della dottrina di Cesari fu assicurato anche dall’ampia, anche se parziale, condivisione di intenti con altre posizioni. Fin dalla prima metà del Settecento i tradizionalisti tuonavano contro i francesismi. Un preciso esempio di questo atteggiamento è nel Ragionamento intorno alle umane lettere del modenese Girolamo Tagliazucchi (premesso a una sua Raccolta di prose e poesie, 1744), ove vengono annotati e decisamente censurati vari francesismi in uso nelle scritture contemporanee, auspicando un ritorno a «quel secolo felice e beato» del Trecento.
A fine Settecento si diffuse anche nella cultura giacobina e rivoluzionaria un’avversione all’invadenza del francese e una levata di scudi a favore dell’italiano, di cui si era già fatto interprete ➔ Vittorio Alfieri nel celebre sonetto patriottico “L’idioma gentil sonante e puro”. Nel 1808 venne ripubblicato a Milano il Ragionamento di Tagliazucchi. Il piemontese Carlo Botta, medico, storico e politico, scrisse nel 1809 la Storia della guerra d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, in una lingua ornata ed eloquente, puristicamente priva di gallicismi. Del 1811 è la Dissertazione sopra la vita, le opere, ed il sapere di Guido d’Arezzo, del patriota giacobino Luigi Angeloni (Bellina 1987), che, di là dal tema musicologico cui il titolo allude, consiste in una brillante proclamazione polemica e patriottica dell’eccellenza delle pura lingua italiana. Le fonti coeve parlano di un sentimento collettivo di difesa e di studio della lingua italiana. Così testimonia Pietro Giordani, in una lettera del 1824 al purista e patriota Giuseppe Bianchetti:
gl’Italiani avevano abbandonata e disprezzata affatto la lor lingua: vengono i Francesi, e, con quella loro insolenza, vogliono proibire alla maggior parte d’Italia l’uso della lingua nativa. Per tutta Italia sorge uno sdegno generoso: si pone fatica e studio a ricuperare questo patrimonio trascurato, di che il tiranno insolente e stolto voleva rapire gli ultimi avanzi; e dall’808 ognuno s’impegna di scrivere più che può italiano, e meno che può francese (Giordani 1937: I, 210).
L’adesione di Giordani al purismo, peraltro, è stata ragionevolmente posta in discussione dalla storiografia letteraria degli ultimi decenni, che, pur mettendo in rilievo alcuni spunti puristici, ha ravvisato in lui posizioni ideali meglio definibili come classicistiche-illuministiche (Timpanaro 1969; 1980; Dionisotti 19772).
La pubblicazione delle opere fondamentali di Cesari suscitò subito aspre opposizioni: l’uscita delle Grazie animò nel 1813 un acceso dibattito fra Milano e Verona, che impegnò anche ➔ Vincenzo Monti e ➔ Ugo Foscolo. Monti, in particolare, contestando non solo le opinioni di Cesari ma anche i fondamenti filologici e lessicografici degli studi del veronese sui testi trecenteschi, fece pubblicare anonimi sul «Poligrafo» di Milano tre dialoghetti satirici (1813-1814), che confluirono nella Proposta (1817-1826). Le opere di Cesari suscitarono critiche e disappunto anche fra i letterati toscani dell’Accademia della Crusca, reintegrata nel 1811 da Napoleone, tradizionalmente interpreti e custodi gelosi della tradizione linguistica italiana. Un’altra notevole corrente di opposizione, nell’ambito di tendenze letterarie logico-razionalistiche e di derivazione cesarottiana, fu quella rappresentata da Francesco Torti (Il purismo nemico del gusto, 1818; poi nel volume Antipurismo, 1829).
Malgrado queste opposizioni, il purismo, debole sul piano teorico e senza ulteriori interventi di particolare rilievo dottrinale, raggiunse e mantenne sul piano operativo un’ampia popolarità per tutto l’Ottocento, coincidendo alcune sue istanze con motivi patriottico-risorgimentali e romantici (la lingua come principio costitutivo della nazionalità; cfr. Boine 1912): si ebbe, così, da una parte un maggior rigore nel controllo classicistico della scrittura, dall’altra, sul piano editoriale, un’ampia serie di noti repertori lessicografici, i cosiddetti antibarbari, fra i quali ricordiamo quelli di G. Bernardoni, di T. Azzocchi, di Puoti e, a fine secolo, di P. Fanfani e C. Arlìa (➔ lessicografia).
Dopo le radicali censure subite ad opera della scuola storico-positivistica e, subito dopo, neoidealistica (si veda soprattutto Il classicismo dei puristi, primo volume della vivace opera polemica di Luigi Falchi I puristi del secolo XIX, 1899), nel Novecento il purismo riprese vitalità nel corso dell’epoca fascista, sostenuto soprattutto da ragioni sciovinistiche (➔ fascismo, lingua del).
Successivamente il purismo, liberatosi dalle manifestazioni più intransigenti e pedantesche e dalle premesse politico-nazionalistiche, ha ispirato il ➔ neopurismo, movimento promosso da Bruno Migliorini, fondato su una matura e rigorosa consapevolezza storica e scientifica dei fenomeni linguistici: suo obiettivo principale era difendere con equilibrio i valori tradizionali, storici e sistematici della nostra lingua, accettando, se necessarie o opportune, tutte le innovazioni lessicali e grammaticali che si inseriscano nel sistema italiano o non siano almeno apertamente incompatibili con la sua natura.
Negli ultimi anni, l’incremento della diffusione degli anglicismi nell’italiano ha sollecitato gli interventi di Arrigo Castellani (raccolti in Castellani 2010), orientati alla tutela della fiorentinità originaria della lingua italiana, che risulterebbe alterata dall’indiscriminato accoglimento dei forestierismi, specialmente se non adattati alla fonetica e alla morfologia della nostra lingua.
Nell’ultimo cinquantennio gli studi critici, superando infondati luoghi comuni, hanno cercato di raggiungere una valutazione critica più obiettiva del purismo e dell’opera di Cesari (Timpanaro 1980; Bellina 2007), indagando in particolare: la cosiddetta «funzione patriottica» del purismo, la sua diffusione già in ambienti giacobini e il rapporto fra religiosità e purismo; su un piano più strettamente letterario e linguistico, la fondamentale distinzione di principio fra classicismo e purismo, l’opposizione alla scuola puristica dei tradizionalisti fiorentini dell’Accademia della Crusca e, di Cesari, il gusto ‘demotico’ e antiletterario per il primitivo e la natura (questa ispirazione quasi roussoviana è stata posta in relazione con lo stile della poetica idillica di Leopardi), l’amore per i riboboli popolareschi e l’antiboccaccismo sostanziale. Di fatto, prescindendo dalla fondatezza critica delle singole opinioni, il purismo non è divenuto ancora del tutto materia di indagine e giudizio obiettivi, anche a motivo di una certa compromissione con le ideologie estetico-letterarie e perfino politiche correnti, e rappresenta ancora oggi una possibile occasione di discussioni e polemiche.
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Timpanaro, Sebastiano (1980), Il Giordani e la questione della lingua, in Id., Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa, Nistri-Lischi, pp. 147-223.
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