Purgatorio
La struttura topografica, morale, narrativa del P. (termine che compare due volte nell'opera dantesca, in Pg VII 39 là dove purgatorio ha dritto inizio, e IX 49 Tu se' omai al purgatorio giunto) risulta, nel complesso, strettamente legata da D. a quella dell'Inferno, per effetto soprattutto della sua costante volontà di stringere il molteplice nell'unità (per essa, come per il problema critico, e per altre considerazioni generali sulla struttura totale del poema, nella quale la struttura del P. s'inserisce, v. INFERNO).
Fortemente significativo il fatto stesso che la montagna che D. immagina costituire il regno dell'espiazione sia derivata dall'identica causa che ha creato l'Inferno, la caduta cioè di Lucifero, punito per la sua superbia, dai cieli: caduta che ha scavato la voragine infernale facendo fuggire dal suo contatto la terra inorridita, sino a formare la montagna del Purgatorio. Si presenta così in modo più preciso il modo di essere del P., antitetico rispetto a quello dell'Inferno ma insieme parallelo, trattandosi di un monte anziché di una voragine, sicché bene venne detto che " la forma cava dell'Inferno è come la matrice d'un calco che avrebbe suppergiù la forma del Purgatorio " (Porena). Prima manifestazione di tale parallelismo è il fatto che nel P. dieci distinzioni complessive, con apparizione del tre e del sette (le tre parti dell'Antipurgatorio più le sette cornici), corrispondano alle dieci distinzioni complessive dell'Inferno e ai dieci cieli del Paradiso (anch'essi con apparizione del tre e del sette). D'altra parte anche nella logica del racconto allegorico-morale dantesco l'Inferno e il P. sono sia narrativamente legati tra loro, sia razionalmente consecutivi, poiché dopo la vista del peccato che definitivamente condanna e della sua punizione è concesso a D. di meditare sulla possibilità di espiazione e di redenzione.
Nella struttura morale del P. che ha, come nel caso dell'Inferno, riflessi fortissimi su quella topografica e narrativa (di tali riflessi il più semplice e nello stesso tempo il più importante è che a una maggiore purificazione di ciascuna anima corrisponde una sua maggiore sublimazione sul monte, così come nella cavità dell'Inferno avveniva il contrario) una prima invenzione dantesca di profondo significato è costituita dalla creazione, nel primo lembo del P., della figura di Catone che, simboleggiando la libertà, sottolinea una concezione dantesca fondamentale, e particolarmente importante nel P., quella per la quale l'uomo ha innanzi tutto il dovere di conquistare il libero arbitrio, carattere essenziale che lo distingue fra tutte le creature (pur se proponendo il personaggio di Catone con particolari mansioni nel regno ultraterreno D. ha evidentemente attinto dall'Eneide, VIII 670). Segue, sulla soglia più bassa del monte, l'inserzione, da parte di D., di gruppi di penitenti che il poeta colloca in posizione di attesa, esitando per vari motivi a introdurre a quella penitenza relativa alle fondamentali tendenze peccaminose, la quale di per sé costituisce un premio. Da questo atteggiamento nasce la creazione originale dell'Antipurgatorio (v.), nella pur quasi interamente originale concezione del P.: la struttura del quale - se si eccettui il Paradiso terrestre (v.) - assai meno che non quella dell'Inferno attinge ispirazione da fonti tradizionali, e tanto meno da fonti classiche, ignoto essendo alle religioni e filosofie antiche il concetto di espiazione-redenzione, e di conseguenza di un luogo a ciò idoneo, mentre insistente risulta per contro nella leggenda e nella scolastica la collocazione sotterranea delle anime destinate al Purgatorio. L'Antipurgatorio contiene appunto le anime ancora non ammesse, perché ancora non degne, all'espiazione. Tali sono gli spiriti appena giunti al monte, tuttavia legati a desideri terreni non illegittimi e persino nobili ma comunque non validi ai fini della salvezza, come l'amicizia e l'arte, secondo quanto subito dimostra, a modo di ‛ esempio ', l'episodio di Casella: invenzione in cui si riflette il forte senso dantesco della suggestione non facilmente deponibile degli affetti terreni, in sé innocenti, sull'uomo. Non ammessi all'espiazione sono gli scomunicati pentiti e salvatisi mediante un rapporto diretto con Dio, rispetto ai quali D. non volle concedere un'ammissione immediata che avrebbe significato offrire un'assoluzione totale a chi ritenne presuntuosamente di poter non tener conto della Chiesa, mentre d'altra parte neppure volle celare la propria ripugnanza all'uso talvolta incauto dell'arma della scomunica a difesa di quegl'interessi temporali che, soprattutto se coltivati dagli ecclesiastici, sempre sono da D. sottoposti a critica, nella sua spiritualistica concezione: egli risolve in tal modo un caso particolare e concreto di quel più vasto problema di riscatto morale della Chiesa che si proponeva. Poi D. colloca i negligenti per pigrizia naturale, quindi i pentiti all'ultimo momento perché colpiti da morte violenta, infine i pentiti in extremis per l'eccesso di cure attribuito all'esercizio del potere di cui si trovarono investiti: per ognuno di questi gruppi si rivela una posizione dello spirito di D., la sua ripugnanza per la fiacchezza nelle opere e per gl'indugi nei primi due casi, il suo sospetto per l'impegno materialistico, di nuovo, nel terzo.
Del P. vero e proprio la struttura morale è, come quella dell'Inferno, rigorosamente logica. Essa viene spiegata nelle sue ragioni da Virgilio in Pg XVII (così come lo stesso poeta aveva spiegato in If XI le ragioni della struttura morale e topografica dell'Inferno durante una sosta dovuta a motivi assai concreti, adeguati al tono della prima cantica, alla necessità cioè di avvezzarsi al fetore). Più pacato qui il motivo della sosta, il venir meno cioè della capacità di procedere col sopraggiungere delle tenebre, secondo la legge del monte, di cui si darà più ampia spiegazione. La sosta induce D. a chiedere quale offesa si purghi nel girone in cui egli si trova, e il quesito provoca la risposta di Virgilio, il quale spiega che lì si ripara il peccato di un amore difettoso, cioè l'accidia. Di qui, perché D. abbia buon frutto di questa sosta, Virgilio prende spunto per una più lunga spiegazione che illustra appunto la struttura morale del Purgatorio. Egli procede dal principio sancito anche dalla Summa theologica (I II 28 6) che nessun essere, né creatore (Dio) né creatura, fu mai senza amore, e che questo amore può essere o naturale, cioè istintivo, o derivante dall'animo, cioè da una scelta dell'intelletto eseguita dalla volontà, cose che il poeta afferma di saper conosciute da D.: egli le poteva infatti trovare in s. Tommaso (cfr. Sum. theol. I 60 1). Mentre l'amore naturale e innato, collocato da Dio nell'anima, non può mai essere in sé peccaminoso (successivamente si chiarirà che anche l'inclinazione naturale all'amore va però sottoposta al libero arbitrio), perché porta la creatura al suo scopo, l'altro può esser peccaminoso per il fatto di volgersi a cattivo scopo (per malo obietto, XVII 95), o per eccessivo o per scarso vigore. Più precisamente finché è diretto a Dio, primo bene, e si modera nel desiderare i beni terreni, l'amore non può essere cagione di cattivo diletto, ma quando si torce al male (appunto a malo obietto), e corre ai beni terreni con maggior intensità, con troppo... di vigore, o con minore intensità, con poco di vigore, rispetto a quanto non debba, allora la creatura opera contro il fattore del mondo: sicché è evidente come l'amore possa essere semente tanto di ogni virtù quanto di ogni opera che meriti pene.
E poiché se si ama il male non si può amare che il male del proprio prossimo (non certo di sé stessi o di Dio che ci ha creati), questo male può derivare dalla speranza di eccellere deprimendo gli altri (superbia), dal timore di perdere potenza o fama od onore per il fatto che altri s'innalzi (invidia), e dal desiderio di vendetta per ingiuria ricevuta (ira): e superbia, invidia e ira son punite nelle prime tre cornici, le più lontane da Dio, poiché relative a peccati di maggiore entità, secondo quella scala decrescente del vizio capitale (dal maggiore, la superbia, al minore, la lussuria) che risponde alla storia della parificazione ascetica del viator e, dunque, alla struttura complessiva del secondo regno escatologico. Può poi avvenire che si desideri confusamente un bene, ma con lento amore, con fiacchezza, peccando così di accidia, punita nella quarta cornice. Quanto agli altri beni terrestri, imperfetti e incapaci di dare felicità, l'amore che a essi troppo si abbandona, generando i peccati di avarizia, gola e lussuria, viene punito nelle tre ultime cornici. Struttura morale, questa, fondata su di una lineare e relativamente semplice logica: derivata in modo abbastanza stretto dalla Summa tomistica sia nell'impostazione generale già riferita sia nelle definizioni particolari che della superbia, dell'invidia e dell'ira si offrono (tratte rispettivamente da II II 212, 3; 36, 1-3; 208). Struttura genuinamente dantesca tuttavia nell'affermazione della preminente importanza, nella morale, del comportamento verso il proprio prossimo, e nella dichiarazione della minor gravità del cedimento agl'istinti rispetto alla violenza comunque consumata contro il proprio simile: atteggiamento perfettamente analogo a quello che regola la struttura morale dell'Inferno.
La caratteristica di semplicità rispetto alla minuziosissima casistica di peccati e di pene esistente nell'Inferno (con la conseguente complicazione strutturale) deriva essenzialmente dal fatto che nel P. non sono puniti i peccati per i quali è sopravvenuto il pentimento, ma le generiche tendenze verso i vizi capitali, verso i principali peccati, tendenze - nel loro numero - nettamente delimitate.
La struttura morale si completa con l'ideazione di un muro di fuoco nell'ultima delle cornici del P., ideazione fatta in conformità sia alla credenza popolare secondo la quale le sofferenze purgatoriali erano rappresentate soprattutto dal fuoco, sia alla teoria della patristica che interpretava come cortina ignea il " gladius igneus " del Cherubino custode dell'Eden ricordato nella Genesi, sia infine al concetto del battesimo " per ignem " (Matt. 3, 11-12). Attraverso tale barriera si fa intendere che passano - a prescindere dai lussuriosi che vi dimorano - tutte le anime dopo aver espiato le varie tendenze peccaminose. Attraverso di essa passa senz'altro D., sicché il fatto assume il significato di una suprema e definitiva azione espiatoria, secondo la quale l'uomo riacquista l'innocenza edenica insieme con la libertà totale, retta e sana, costituita dal libero arbitrio. Infine, sulla cima piatta del monte, nella foresta del Paradiso terrestre, vi sono l'incontro con Matelda, probabilmente simbolo della vita attiva oppure della felicità, stato perfetto che si può conseguire con le virtù morali e intellettuali e che per terrestrem paradisum figuratur (come lo stesso D. ci dice in Mn III XV 7-8); lo spettacolo di una processione simbolica che chiarisce a D. il senso della storia della Chiesa sin dai tempi biblici, storia unita strettamente alla storia umana dalla più antica alla più recente; l'arrivo di Beatrice; i suoi rimproveri e lo svenimento di D. nell'angoscia del rimorso, a sottolineare con forte evidenza il duplice piano, da una parte individuale (anzi per D. perfino autobiografico), dall'altra universale della vicenda narrata. L'immersione nel fiume Lete e nell'Eunoè hanno il significato di successive e definitive forme di purificazione. Struttura morale, come si è detto, per molti aspetti semplice, rispetto a quella dell'Inferno: ma anche - se osservata nel contesto delle tre cantiche - assai ordinata, forse fra le tre la più accuratamente studiata, per quello soprattutto che riguarda le regole che ne governano le singole parti, o meglio ancora le ricorrenti liturgie.
A tale struttura morale appare coordinata la struttura topografica. Al servizio della visione complessiva e organica di D., il quale concepì come vicenda essenziale della seconda cantica un'ascesa progressivamente purificante in contrapposizione con la discesa infernale e quindi uno scandito e meditante viaggio verso il Paradiso che presupponeva un'ascesa, è l'immaginazione centrale del P. come montagna altissima che si eleva al cielo, immaginazione nata, per i motivi accennati, in contrasto sia con le opinioni della teologia scolastica, sia con quelle della letteratura leggendaria (poté tuttavia influire su questa fantasia la fonte citata più oltre a proposito del Paradiso terrestre). Ciò permette al poeta - trovandosi la montagna con le sue vaste e varie prospettive panoramiche in mezzo all'altro elemento suggestivo del mare - di creare una nuova serie di paesaggi nettamente contrapposti, con sicura e profonda efficacia, a quelli infernali, perché ora intrisi di dolcezza e bellezza: mentre D. poteva poi inserire alle falde del monte - come per altri motivi gli premeva di fare - particolari paesaggi e situazioni.
Ma i vari luoghi del P. che D. tocca nella sua ascesa sono anche contrassegnati, con armonica distribuzione complessiva, dalla presenza di ministri divini che hanno tutti un loro particolare compito liturgico, e quasi sempre mostrano nella loro stessa figura tratti caratteristici di valore simbolico. Appena usciti dalla natural burella i poeti trovano non un angelo ma comunque un personaggio sacro, qual è Catone. Figura quasi di trapasso, avendo egli mostrato la particolare virtù in una storia umana, anzi pagana, pur se sempre provvidenzialmente guidata, egli ferma i pellegrini, e li fa proseguire quando viene informato che donna del ciel li move e regge (Pg I 91), risultando il primo di una serie di tre mistici guardiani. Un altro angelo, infatti, sarà alle soglie e a guardia del P. vero e proprio, e agirà, variatis variandis, in modo simile; un terzo angelo sarà collocato alle soglie del Paradiso terrestre. Altri angeli offrono con le loro parole lungo la cantica una costante e quasi sempre soave - talvolta ferma e severa - esortazione ai viandanti, contribuendo insieme, con la loro figura, a dare alla rappresentazione quel colore e quel tanto di preziosità che D. ama imprimere al mondo del Purgatorio. Primo tra di essi l'angelo nocchiero che guida il vasello snelletto e leggero (Pg II 41) che trasporta per mare i destinati al monte dell'espiazione, convenuti dopo la morte, in attesa del transito, alle foci del Tevere: egli benedice le anime col segno di santa croce al momento del commiato, ed è ritratto - secondo l'iconografia più comune che tuttavia D. varierà nel P., quando sia opportuno, appunto per dar luogo a questo o a quel tratto di valore simbolico - col viso luminoso e con le ali bianche (I 22-51). A difendere la valletta dei principi dal serpente che simboleggia il demonio tentatore D. collocherà due angeli con vesti verdi (a simboleggiare la speranza), con spade affocate (a simboleggiare l'ardore della carità), tronche e prive di punte (simbolo dunque della giustizia e insieme della misericordia di Dio, ovvero, secondo altra interpretazione, della difesa e dell'offesa affidata agli angeli stessi). L'angelo, dalla veste di color grigio (in segno di umiltà), che è portiere del P. vero e proprio, reca egli pure una spada nuda, sfavillante per i raggi che riflette, insieme tagliente e illuminante (riflettendo la grazia). Dapprima egli vieta l'ascesa; poi, reso certo da Virgilio del fatto che alla porta del P. ha condotto i due poeti appunto la grazia illuminante, Lucia, li ammette ai tre gradini che alla porta conducono, uno bianco, uno piuttosto nero che scuro, e screpolato, il terzo color di fuoco (a simboleggiare, con ogni probabilità, i tre gradi della contritio cordis, il candore cioè che segue la confessione, le oscurità dell'anima che la confessione rivela dopo la rottura dell'ostinazione peccaminosa, nonché l'ardore di amore che accende gli uomini a penitenza). D. chiede all'angelo la misericordia di aprirgli, dopo essersi percosso il petto tre volte (per i peccati commessi con il pensiero, con la lingua e con le opere). L'angelo incide sette P sulla fronte di D., quali segni delle sette capitali tendenze peccaminose delle quali ci si purifica nelle sette cornici; apre la porta con le due chiavi capaci di schiudere il regno dei cieli date da Cristo a Pietro (una d'oro, simbolo dell'autorità divina consegnata da Dio ai suoi ministri, e una d'argento, simbolo della prudenza e sapienza che devono guidare il comportamento del sacerdote confessore). I poeti salgono i tre gradini, e passano all'interno ammoniti a non guardarsi mai indietro. Al termine della settima cornice vi è un angelo che invita a non procedere oltre se non morda il fuoco, e un altro che ammonisce i poeti ad affrettare il passo fino a giungere alla soglia del Paradiso terrestre (non viene a lui dato altro rilievo).
L'iscrizione sulla fronte dei sette P quali segni dei peccati, destinati a scomparire man mano che D. supera i sette balzi, crea un'altra cadenza simbolica oltre che narrativa nella struttura del racconto, in quanto in ogni cornice, al momento dell'uscita, battendo le ali sulla fronte di D., e accompagnando il gesto quasi sempre con il canto di beatitudini, con parole di rallegramento, e con l'incitamento all'ulteriore progresso (non esiste, per tali azioni, un'assolutamente precisa corrispondenza strutturale, e D. mostra invece una sia pur misurata esigenza di libertà e di varietà), l'angelo elimina una P.
Attraverso l'iscrizione e la cancellazione delle P si lega nel modo più visibile alla penitenza e alla redenzione dalle varie tendenze peccaminose lo stesso D., che d'altronde mostra la sua partecipazione anche soffrendo almeno parzialmente nelle varie cornici le pene da cui sono afflitti i vari gruppi di peccatori, e ciò in maniera particolarmente chiara in relazione a vizi che egli riteneva di avere in misura maggiore: come avviene per la superbia (D. va chino, e dichiara specificamente, in Pg XIII 133-138, di temere un lungo tormento in quel cerchio dopo la morte), per l'ira, forse per la lussuria (ove l'attraversamento del fuoco vada inteso anche come pena specifica, oltre che come mezzo generale e finale di purificazione).
Inoltre, a mano a mano che D. sale, sempre meglio può sostenere la luce che dagli angeli stessi emana, e anzi sempre più goderne il diletto, nei limiti consentiti dalla naturale disposizione dell'uomo (XV 28-33), mentre nello stesso tempo la fatica dell'ascesa si fa proporzionalmente più lieve (XII 115-126). Si presentano pertanto successivamente a D. l'angelo che vigila alla soglia di uscita del cerchio dei superbi (XII 99); l'angelo che è alle soglie del cerchio degl'invidiosi (XV 35-36); l'angelo della pace (XVII 68-69), collocato all'uscita della cornice degl'iracondi, dalla luce ancora insostenibile, che pronuncia il verso evangelico Beati pacifici; l'angelo che è sulla soglia esterna della cornice degli accidiosi (XIX 49-51), e che dichiara beati qui lugent (come appunto fanno gli accidiosi che piangono correndo); l'angelo custode del balzo degli avari e prodighi, che chiama beati coloro che hanno il lor desiderio appuntato verso la giustizia e non verso l'oro (XXII 1-6); l'angelo che è sulla soglia del balzo che contiene i golosi, il quale mostra la via conveniente a chi vuole andar per pace (XXIV 139-141); l'angelo della purità che canta ‛ Beati mundo corde ', ma che ha, in più, il particolare compito di avvertire che non è possibile procedere se non si entri nel fuoco purificatore (XXVII 7-12). All'altro angelo che è al di là delle fiamme, date le parole che pronuncia (Venite, benedicti Patris mei), sembra piuttosto affidato l'ufficio di portiere del Paradiso terrestre, corrispondendo egli all'angelo che si trova sull'entrata del P., e a Catone, collocato all'ingresso dell'Antipurgatorio. Da osservare che in questo ultimo balzo dei lussuriosi non appare enunciata (anche se si suppone compiuta) l'azione della cancellazione dell'ultima P (forse D. la ritiene sostituita - almeno sul piano narrativo - dalla purificazione mediante il fuoco). Agli angeli si aggiungono (a parte Catone) i personaggi celesti presenti nel Paradiso terrestre, da Matelda a Beatrice ai componenti la mistica processione (v.).
Ma l'azione degli angeli s'inserisce in quell'elemento strutturale d'importanza centrale che è, nei vari luoghi del P., la compresenza di ammonizione e perdono angelico, punizione espiativa e formula di pentimento, preghiera ed esempi, procedimento nel quale D. segue insieme il criterio di osservare un'analogia che sottolinei lungo tutte le cornici il carattere, assai caro al poeta, dell'armonia strutturale, e insieme l'altro criterio della varietà. Nell'Antipurgatorio punizione è la sola lunghezza dell'attesa, che corrisponde per contrapasso al fatto che i penitenti attesero l'ultimo momento a pentirsi: di essi gli scomunicati e i pigri non pronunciano preghiere, i morti violentemente cantano il Miserere, e i principi dapprima recitano il Salve Regina, preghiera legata all'ora vespertina e alla necessità d'invocar protezione contro la tentazione, e più oltre il Te lucis ante. Nel girone dei superbi - ed è questo il modo in cui prevalentemente si manifesta nel P. il contrapasso - i penitenti esercitano la virtù opposta alla loro inclinazione peccaminosa, chinandosi pazientemente sotto i pesi, vedendo rappresentati sul pavimento in rilievo esempi di orgoglio punito, e meditando sulla virtù opposta all'orgoglio col contemplare esempi di umiltà (il primo esempio riguarda sempre Maria), esempi tratti - qui come altrove - dalla mitologia, dalle Sacre Scritture, dall'aneddotica storica: cantano inoltre una particolare forma - adeguata alla colpa - di Pater noster. Gl'invidiosi con gli occhi cuciti si reggono a vicenda indossando un cilicio, odono da voci esempi di carità e d'invidia punita, cantano le litanie dei santi ed esaltano la comunione tra Chiesa militante e Chiesa trionfante; gl'iracondi hanno visioni di mansuetudine e d'iracondia punita, sono immersi in un fumo acre, cantano i tre Agnus Dei; gli accidiosi corrono incitandosi al bene, due di essi, alla testa e alla coda della schiera, gridano esempi di sollecitudine e di accidia punita (manca in questo caso - la rigidezza strutturale è appunto non perfetta - la preghiera); gli avari e i prodighi piangono distesi, con mani e piedi (che mossero ad altro che a opere di virtù) legati, cantano il salmo Adhaesit pavimento anima mea, e or l'uno or l'altro dicono esempi di amore caritatevole, di giorno, e di notte di avarizia; i golosi patiscono fame e sete vedendo cibi e acqua che non possono toccare, e cantano Labia mea domine, mentre una voce misteriosa cita esempi di virtuosa sobrietà e di golosità punita; i lussuriosi corrono nelle fiamme divisi in due schiere che procedono in opposte direzioni (a seconda che seguirono amore naturale o amore contro natura), cantano l'inno Summae Deus clementiae, e tra l'uno e l'altro canto ricordano alternativamente esempi di carità e di lussuria.
Il viaggio di D. è anche contrassegnato, in questo caso con preciso e armonicamente intervallato schema strutturale, da tre sogni di significato simbolico, che tutti si compiono in momenti di cruciali trapassi, l'uno al momento del passaggio dall'Antipurgatorio vero e proprio al P.; il secondo al momento del trapasso dalla zona dei penitenti che hanno peccato per aver voluto il male del prossimo, o per accidia, a quella di coloro che hanno peccato per eccessivo amore verso i beni terreni; il terzo al momento del transito dal P. vero e proprio al Paradiso terrestre. Logicamente i sogni sono legati a soste notturne, a lor volta derivate da una legge generale che impedisce il salire nel P. durante la notte, quando non splenda il sole, legge che simboleggia il fatto che unicamente la grazia di Dio (il sole) permette l'ascesa, secondo una conforme sentenza evangelica (Ioann. 12, 35). I sogni sono tre in quanto il viaggio nel P., cominciato alla primissima alba, dura due giorni e tre notti, concludendosi al mattino del terzo giorno (v. VIAGGIO). Il primo sogno (IX 13-42) consiste nella visione di un'aquila dalle ali d'oro (simbolo di perfezione), che rapisce D. in alto alla sfera del fuoco (simbolo del sacro ardore della carità che purifica il peccatore), adombrando insieme il fatto che in realtà il pellegrino vien portato alle soglie del P. da una donna, Lucia, simbolo della grazia illuminante, che interviene pertanto per la seconda volta nella vicenda della Commedia (la prima in If II 97-108, quando Beatrice narra che da lei la santa si era recata per volere della Vergine al fine di sollecitarla al soccorso di Dante). Il secondo sogno (XIX 1-33) avviene di nuovo poco prima dell'alba nella cornice degli accidiosi, e con esso il poeta vede una donna balbuziente (la femmina balba), guercia, con i piedi distorti, con le mani monche, scialba di colore, che, osservata dal poeta, si trasforma, diviene bellissima, meravigliosamente canta, finché una donna celeste, sopraggiunta, non ne fa mettere a nudo da Virgilio, stracciando le vesti, il ventre fetido, tanto che dal fetore D. è svegliato: episodio che ha una precisa funzione strutturale, in quanto la femmina balba rappresenta i vizi capitali che seguono nelle tre più alte cornici del P., che D. deve ancora raggiungere - avarizia e prodigalità, gola e lussuria - brutti in sé, affascinanti per l'uomo, che potrà tuttavia riconoscerli come orrendi ove interroghi la ragione (Virgilio) inizialmente stimolata dalla grazia celeste. Nel terzo sogno, alla fine dell'ultima cornice e al limitare della divina foresta (XXVII 94-108), D. vede una donna che coglie fiori (gli atti virtuosi), e se ne fa ghirlanda: essa si presenta come Lia, la vita attiva, e asserisce che la sorella Rachele, simbolo della vita contemplativa, si guarda allo specchio, secondo il duplice atteggiamento indicato come necessario per conseguire la perfezione da s. Tommaso (in Sum. theol. II II 229 2), con teoria raccolta insistentemente da D. in Cv IV XXII 10-11, XVII 9, e in Mn III XVI 7. Sono, Lia e Rachele, prefigurazioni dei prossimi incontri di D. con Matelda, la felicità conseguibile sulla terra, e con Beatrice, che dona la contemplazione di Dio.
Circa la durata della pena dei penitenti, D. s'impegna a determinarla con precisione per quel che riguarda le anime presenti nell'Antipurgatorio (gli scomunicati, morti in contumacia della Chiesa, restano fuori del P. trenta volte il tempo che passarono in loro presunzïon, Pg III 136-141), e per i negligenti che indugiarono al fine i buon sospiri (IV 132), e ora dovranno attendere un tempo eguale alla lor vita. Per il resto, la pena è commisurata nel tempo alla gravità delle inclinazione peccaminose, e la si fa intendere comunque non breve, se si debba giudicare dall'episodio di Stazio, ove prende contorni numerici più precisi, in quanto il poeta chiarisce che la sua prodigalità fu punita con migliaia di mesi lunari (XXII 36) di pena (più di cinquecento anni), e che la tepidezza nel rivelarsi cristiano gli fece girare per oltre quattrocento anni la cornice degli accidiosi (XXII 92-93). L'episodio di Stazio giova a D. anche per definire un altro importante elemento, il modo cioè con cui avviene l'ascesa in cielo delle anime al termine dell'espiazione: un'anima si sente monda, e si appresta a salir su; e della mondizia fa prova la libera volontà che improvvisamente rende l'anima desiderosa di mutar luogo e di salire al cielo, mentre precedentemente la volontà assoluta di aver la beatitudine era raffrenata dal talento, o volontà condizionata, che induceva a scontare la pena per conseguire il bene, secondo la teoria enunciata da s. Tommaso in Sum. theol. III Suppl. Append. II 2. La liberazione delle anime D. presenta in forma spettacolare, dichiarandola accompagnata, mentre si leva da ogni parte il canto Gloria in excelsis Deo, da un terremoto, che Stazio spiega esser di origine non terrena (per vento secco e ‛ grosso ' che scuota l'interno, secondo le teorie dell'epoca) ma divina. Come esattamente le anime passino poi al cielo D. spiega solo parzialmente, poiché di Stazio, dopo che egli ha proceduto con Virgilio e D. prima, poi con D. e Beatrice, fino alla purificazione compiuta bevendo le acque dell'Eunoè (Pg XXXIII 134), non si parla ulteriormente. D'altra parte la durata delle pene non si commisura soltanto sulla gravità delle disposizioni peccaminose ma anche sulla possibile riduzione delle pene per effetto delle preghiere dei vivi, ed esiste anzi lungo il P. una precisa e costante insistenza da parte di D., che da una parte vuole avvalersi, e si avvale, delle possibilità poetiche offerte da questa relazione affettuosa, al di là della barriera della morte, tra i defunti e i vivi; dall'altra si compiace di tale possibilità d'intervento e di azione degli uomini su di un oltremondo ch'egli anche per tale via sempre strettamente lega al mondo, incrementando il valore pedagogico attivo della cantica in quanto possa persuadere gli uomini alla preghiera e all'opera benefica. Perciò mette subito sulla bocca già della prima personalità di penitente che gli si presenti, quella di Manfredi, la preghiera di rivelare alla figlia il fatto che egli si trova nel P. (situazione ovviamente preliminare, di base, al fine di muovere gli uomini ai suffragi per i defunti), e gli fa dire con estrema incisività - come avverrà anche in XI 34-36 - che nel P. per effetto delle preghiere degli uomini molto s'avanza (III 142-145); e la richiesta a D. da parte dei penitenti di rivelare ai vivi la loro presenza in P., e di rammentare la possibilità di beneficare che essi hanno si ripeterà con frequenza significativa: in V 133, poi in una scena affollata e animata all'inizio del c. VI, e via via molte altre volte lungo tutta la cantica. D. chiarisce anche subito come occorra che tale preghiera esca di cuor che in grazia viva (IV 134); chiede anzi una specifica delucidazione a Virgilio (VI 28-42), mettendo a fuoco il quesito mediante il confronto con quanto Virgilio stesso aveva affermato, in Aen. VI 376, sulla possibilità di piegare con preghiere il decreto del cielo: certamente perché il problema era in quei tempi assai vivo, date le opinioni contrarie alla dottrina delle indulgenze di alcuni gruppi ereticali, come i Catari e i Valdesi, e data l'insistenza, nei concili e nei sinodi del tempo, e nello spirito di D., sulla necessità che i suffragi non fossero cose mercenarie e illusorie (di qui l'insistenza sulla necessità della grazia - e anche del genuino slancio di affetto - nei cuori dei vivi); sicché oltre che di fatto strutturale si tratta di vera e propria importante presa di posizione. Alla norma secondo la quale a diminuire la pena valgono solo i suffragi dei vivi sembra far eccezione quanto detto da D. in Pg XI 142 a proposito di Provenzano Salvani, il quale dichiara che l'opera costituita dall'aver egli fatto una questua a favore dell'amico prigioniero diminuì per lui il confinamento nell'Antipurgatorio: si ritiene che D. in tal caso abbia agito sia in conformità della diffusa credenza su eccezionali condoni da parte di Dio per straordinarie opere buone, sia per aumentare l'efficacia poetica e morale insieme dell'episodio.
Quanto alla struttura narrativa, D., per i noti motivi (per ricerca di efficacia legata al suo intento che fa della poesia un messaggio da divulgare, per natura, per convincimento tecnico), anche nel P., come nell'Inferno, pur se con chiaroscuri meno palesi, ha evidentemente puntato sulla variazione e sul costante movimento contenutistico e stilistico dei fatti volta a volta narrati. Di qui anzitutto, a interrompere e a nutrire di umanità viva il racconto fondamentale del viaggio allegorico, i frequentissimi incontri e i relativi colloqui con i penitenti, ai quali D. fa esprimere, come già nell'Inferno, facendoli vivere intensamente in tale atto, situazioni psicologiche e vicende fondamentali della loro esistenza, in racconti che hanno al centro un contrasto, spesso esprimendo il definitivo pentimento dopo una vita lontana da Dio, con uno svolgimento e un lieto esito valido ai fini di una suggestiva drammatizzazione narrativa, pur se misurata e consolante, com'è nel carattere della cantica. Intervengono d'altra parte con un certo ritmo a interrompere il racconto del viaggio e degl'incontri le descrizioni paesistiche (v. PAESAGGIO), descrizioni quasi sempre di profonda importanza perché legate al senso intimo con cui D. vive la sua peregrinazione, dalla descrizione iniziale dell'aurora, immagine di un'albeggiante situazione di consolazione e di speranza, a quella finale del Paradiso terrestre che accompagna il raggiungimento della massima felicità terrena. Intervengono anche nella struttura narrativa le indicazioni dell'ora, peculiari del P., mancando per diversi motivi così nell'Inferno privo di luce come nel Paradiso che è fuori del tempo, indicazioni che D. ama fare, sorprendendo a mezzo di esse il lettore per acutezza di dottrina, e insieme esibendovi volontà di preziosismo letterario che come tale si lega al tono improntato al bello stilo, a tecnica letteraria, evidentemente raffinata, propria di molti passi della cantica. Questa volontà d'insegnamento dottrinario, sia, propriamente religioso-teologico sia di altra natura (che si riconduce alla nota volontà del poeta di popolarizzare cose ai suoi tempi riservate a pochi), si esprime in passi che interrompono chiaramente e variano pur essi, talora non per breve spazio, la costruzione narrativa centrale, come le spiegazioni sulla possibilità da parte delle anime di soffrire (III 25-45); sul moto del sole verso il settentrione (IV 58-85); sull'efficacia delle preghiere (VI 25-48), ecc.: passi anch'essi non gratuiti né divaganti dal motivo fondamentale perché consolati dalla visione della razionalità divina nel disporre le cose concrete della vita, così come dispone la possibilità del riscatto dal male, forme dunque diverse di una stessa ricerca di verità. Perciò la cantica acquisisce nel suo complesso un tono medio quanto ad altezza dottrinaria tra quel che il lettore ha trovato nell'Inferno, dove in sostanza (a parte la spiegazione filosofico-morale del canto XI) queste pronunciate disquisizioni dottrinarie mancavano, e quel che il lettore troverà nel Paradiso, dove esse diverranno assai più frequenti. Intervengono nella costruzione anche i numerosi atti liturgici, le non poche azioni simboliche che si ripetono simili di cornice in cornice, per le quali D., consapevole di un possibile pericolo di uniformità, cerca di volta in volta novità rappresentative, spesso fruendo a tal fine dei particolari. Spicca nella costruzione narrativa la lunga vicenda allegorica finale (preceduta da altre vicende allegoriche minori come quella del discacciamento del demonio tentatore nella valletta dei principi o quelle rappresentate nei sogni): tipiche - le allegorie di ampio rilievo - di questa cantica già più decisamente incline all'insegnamento intellettuale che non l'Inferno, ma ancora fortemente ancorata alla terra nella stessa collocazione della scena, e desiderosa di conseguire un tono medio, sì che il procedimento allegorico, con la sua volontà di concretare l'astratto, appare particolarmente conforme alla situazione generale. S'inseriscono nella costruzione narrativa con una loro profonda logica, trattandosi del regno ultraterreno abitato da coloro che hanno constatato la debolezza e l'inclinazione all'errore dell'uomo, le esortazioni morali (sulla necessità per gli uomini di non attribuire poteri illimitati alla loro ragione, III 34-45; sul dovere per il saggio di non farsi frastornare dal bisbiglio delle genti, V 10-18, ecc.); le invettive di contenuto morale-politico (contro l'Italia e Firenze in Pg VI 76-151, contro la corruzione papale in XVI 82-129, ecc.); i miti e gli aneddoti storici, presenti come esempi morali in fitto numero, espressi col disegno rapido, quasi sempre essenziale, di personaggi e di fatti; le discussioni vive e animate (anch'esse tipiche del P. in quanto riguardano attività nobili ma pur umane nei loro fini) di situazioni e problemi letterari e artistici di epoche passate e dell'epoca contemporanea, discussioni che animano gl'incontri con Oderisi (XI 87-117), con Bonagiunta (XXIV 49-63), con Arnaldo Daniello (XXVI 115-148), con Stazio (XXI 88-99 e XXII 94-114), col Guinizzelli (XXVI 94-126).
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