punto
Il punto (o punto fermo) è il segno d’interpunzione dotato del valore demarcativo più forte tra quelli che fungono da marche di confine sintattico.
Serve per indicare una pausa forte (intendendo con pausa un valore e una durata ideali, in quanto non esiste perfetta corrispondenza tra le soste nella lettura e le segmentazioni dello scritto: cfr. Mortara Garavelli 2003: 56); esercita una funzione di chiusura, poiché «conclude un periodo o anche una singola frase» (Serianni 1988: 59).
Nei sistemi interpuntivi greco e latino, basati su un unico punto situato ad altezze differenti a seconda della parte del discorso da contrassegnare, il punto fermo corrisponde grosso modo, in greco, alla teléia stigmḗ o punto alto e, in latino, alla distinctio, definita da Isidoro di Siviglia (nelle Etymologiae, risalenti all’inizio del VII sec.) disiunctio, «perché separava un’unità di discorso [sententia] di senso compiuto», cioè il periodus.
Un’importante differenza del sistema interpuntivo antico rispetto all’attuale consiste nella netta distinzione, descritta in un codice estense del XV secolo, tra il segno coincidente con «il nostro punto fermo» (punctus planus fit in fine orationis perfectae ‹.›) e il «segno di fine opera» (periodus fit in fine orationis quando nil aliud in ea materia sequitur ‹;›) (cfr. Coluccia 2008: 97).
L’usus interpungendi antico, inoltre, prevedeva due o più segni di punto diversamente graduati ma rappresentati da un unico simbolo grafico ‹.›: si tratta della distinzione – presente tra l’altro nelle edizioni aldine – tra punto mobile (seguito da minuscola) e punto fermo (seguito da maiuscola).
Nel Seicento «vengono lasciate cadere le distinzioni tra i vari tipi di punto» vigenti nel Cinquecento e si arriva a una stabilizzazione della terminologia relativa alla punteggiatura nella trattatistica, che però «non risulta recepita nei lessici dell’epoca», se le tre edizioni secentesche del Vocabolario della Crusca ignorano le voci relative agli altri segni interpuntivi e «registrano solamente punto»: «Si dice a Quel segno di posa, che si mette nella scrittura, al fin del periodo. Lat. punctum; onde Far punto: val Fermarsi. Lat. pausam facere» (cfr. Marazzini 2008: 148, 152-153).
Presenze del punto seguito da minuscola, con valore intermedio fra punto e virgola e punto fermo, permangono tuttavia «almeno per tutto il primo Ottocento, soprattutto nell’uso manoscritto», ad esempio, negli epistolari; nel Novecento, una volta scomparse «dall’orizzonte dei grammatici» e dall’uso, vengono recuperate come «vezzo d’autore» da ➔ Gabriele D’Annunzio nel suo Libro segreto (1935) (Antonelli 2008: 182-184).
Mentre il punto mobile è andato sparendo, il punto fermo è stato invece interessato da una progressiva ascesa, registrata già a fine Ottocento da R. Fornaciari (1881) e successivamente, a inizio Novecento, da G. Malagoli (1905), che mise in relazione questa tendenza con la decadenza dei segni di pausa mediana (due punti e punto e virgola).
Il punto può dunque a buon diritto aspirare al titolo di «segno interpuntivo fondamentale, sia perché, storicamente, è il più antico» (Serianni 1988: 59), sia perché ad esso «fa capo tutta la famiglia dei vocaboli relativi all’operazione e al risultato di “mettere a dimora” i segni paragrafematici» (Mortara Garavelli 2003: 59).
In questo senso, una varietà di espressioni idiomatiche fanno riferimento al punto come indicatore di arrivo o di cambiamento: fare punto, fare punto e a capo, mettere punto. D’altro canto, il punto «tende a invadere il campo di altri segni, come il punto e virgola, i due punti, la virgola», secondo una tendenza che troviamo ampiamente nella prosa narrativa contemporanea e che è diventata una sorta di marca dello «stile giornalistico», dove il punto «non isola frasi verbali autonome, ma componenti nominali, […] messe così in grande evidenza» (Serianni 1988: 59).
In sequenze come questa (del giornalista Ilvo Diamanti): «Venezia dopo Genova. Città di mare. Con una storia lunga. E importante. Di autonomia. Potere. Oggi divise. Non solo perché alla testa di due diversi mari. Ma perché diverso è il loro destino», sono state individuate le caratteristiche movenze di una «ipotassi paratattizzata», di strutture, cioè, in cui «dietro l’apparente estrema paratassi ci sono tradizionali strutture ipotattiche, solo graficamente frantumate» (Sabatini 2004: 65).
La «flessibilità negli usi» di questo segno interpuntivo va oltre l’apparente semplicità del suo «valore fondamentale: la chiusura», per aprire all’«ambito della “testualità”», che presuppone «il richiamo all’implicito del discorso». Ne consegue una prospettiva in cui «il punto si configura come elemento di divisione e, nello stesso tempo, di (forte) connessione quando interrompe una sequenza segnando una pausa significativa». Il punto – come scriveva Vasilij Kandinskij – «è il simbolo dell’interruzione, del non essere (elemento negativo), e, nello stesso tempo, è un ponte da un essere a un altro essere (elemento positivo)» (cfr. Mortara Garavelli 2003: 59-60).
Tuttavia, un uso eccessivo del punto con effetti di triturazione sintattica comporta, da un lato, il rischio di richiedere al lettore un «continuo defatigante lavoro di ristrutturazione delle frasi spezzate» (ibid.: 63), dal momento che costringe a «concludere e ricominciare il conto interpretativo dopo ogni minima informazione» (Ferrari 1997: 54-55) e, dall’altro, il rischio di un appiattimento informativo: se ogni elemento del discorso viene messo in vedetta dal punto fermo, tutto ha eguale rilievo, il che è come dire che non ne ha più.
Accanto al ruolo di demarcazione sintattica, il punto riveste anche la funzione strumentale – che prosegue un uso già invalso in manoscritti umanistici – di segno di abbreviazione (➔ abbreviazioni), in particolare nei seguenti casi (per i quali si segue Serianni 1988: 59):
(a) «per contrazione», dove «il punto si colloca al centro dei due gruppi grafici» costituiti rispettivamente dalle «lettere iniziali e finali» del lessema (f.lli = fratelli, chiar.mo = chiarissimo);
(b) per compendio, dove il punto si trova alla fine di «una o più lettere iniziali della parola abbreviata» (es. = esempio, dott. = dottore, pag. / pagg. = pagina / pagine, S.P.M. = sue proprie mani);
(c) per sequenza consonantica, dove il punto si trova alla fine di una sequenza grafica costituita dalla «consonante iniziale seguita da una o più consonanti» (seg. / segg. = seguente / seguenti).
Quando una frase si conclude con un’abbreviazione, il punto fermo non si scrive perché è inglobato nel punto abbreviativo.
Il punto può seguire le lettere di una sigla (C.S.M. = Consiglio Superiore della Magistratura), ma può anche mancare (CSM). Manca senz’altro nelle sigle automobilistiche, italiane ed estere (FI, GB), «nelle sigle complesse, in cui per ottenerne la pronunciabilità o per facilitarne la decrittazione si aggiungono una o più vocali alle consonanti che le costituiscono» (CONAD = Consorzio Nazionale Dettaglianti), «in sigle molto comuni per le quali si sia perso il significato delle singole componenti» (FIAT) (Serianni 1988: 59-60).
Fornaciari, Raffaello (1881), Sintassi italiana dell’uso moderno, Firenze, Sansoni.
Antonelli, Giuseppe (2008), Dall’Ottocento a oggi, in Mortara Garavelli 2008, pp. 178-210.
Coluccia, Rosario (2008), Teorie e pratiche interpuntive nei volgari d’Italia dalle origini alla metà del Quattrocento, in Mortara Garavelli 2008, pp. 65-98.
Ferrari, Angela (1997), Quando il punto spezza la sintassi, «Nuova secondaria» 15, 1, pp. 47-56.
Malagoli, Giuseppe (1905), Ortoepia e ortografia italiana moderna, Milano, Hoepli.
Marazzini, Claudio (2008), Il Seicento, in Mortara Garavelli 2008, pp. 139-158.
Mortara Garavelli, Bice (2003), Prontuario di punteggiatura, Roma - Bari, Laterza.
Mortara Garavelli, Bice (a cura di) (2008), Storia della punteggiatura in Europa, Roma - Bari, Laterza.
Sabatini, Francesco (2004), L’ipotassi “paratattizzata”, in Generi, architetture e forme testuali. Atti del VII congresso della Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana (Roma, 1-5 ottobre 2002), a cura di P. D’Achille, Firenze, Cesati, 2 voll., vol. 1º, pp. 61-71.
Serianni, Luca (1988), Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria. Suoni, forme, costrutti, con la collaborazione di A. Castelvecchi, Torino, UTET.