Punti di forza e criticità della riforma
Lo scritto contiene un’analisi generale della l. 28.6.2012, n. 92 e delle sue linee guida, preceduta da un breve resoconto del suo tormentato iter formativo. La riforma è ispirata al modello europeo della flexicurity che implica una maggiore flessibilità del rapporto di lavoro e una maggiore sicurezza nel mercato. La parte della legge sulla cd. flessibilità in entrata tende a riregolare le varie forme di accesso al lavoro con l’obiettivo di correggerne distorsioni e abusi applicativi. Oggetto di analisi sono anche le modifiche alla cd. flessibilità in uscita, per cui nel caso di licenziamento ingiustificato la sanzione della reintegrazione non è più unica e automatica, ma il giudice ha il potere di decidere per la reintegrazione in casi gravi tassativamente stabiliti oppure per una indennità risarcitoria negli altri casi. Alle modifiche della flessibilità segue la riforma degli ammortizzatori sociali con la ridefinizione delle Casse integrazioni, il progressivo superamento dell’indennità di mobilità ed estensione dell’assicurazione contro la disoccupazione.
L’interesse dei primi commentatori della l. 28.62012, n. 92 si sta rivelando altrettanto intenso e tumultuoso come quello che ha accompagnato la gestazione del provvedimento. Si tratta di un vero diluvio di commenti, spesso affrettati ed ispirati più dalla passione dal tema e dal contenuto fortemente controverso, che dalla razionalità necessaria all’interprete1.
Questa intensità del dibattito ha caratterizzato tutte le leggi sul lavoro fin dallo statuto dei lavoratori. Già questa fu criticata come legge mal fatta da alcuni professori2 e da molti ritenuta causa della conflittualità delle nostre relazioni industriali, e della ingovernabilità delle fabbriche. Eppure la legge aveva avuto un consenso sociale ampio e un sostegno parlamentare non plebiscitario come quello della l. n. 92/2012, ma consistente. Il ripetersi dei contrasti nei confronti di altre leggi degli anni 2000 e ora della l. n. 92/2012, riflette dunque tendenze radicate nella nostra storia, in primis l’alta conflittualità che circonda in Italia i temi del lavoro e che investe gli attori sociali. Eppure ci sono non pochi elementi che inducono a riflettere sull’anomalia di questa dipendenza dal passato. L’elemento di contesto più macroscopico è la crisi economico-finanziaria in cui non solo l’Italia è intrappolata. La gravità della crisi fiscale riduce le risorse spendibili per provvedimenti redistributivi, in particolare nel caso nostro, la estensione degli ammortizzatori sociali, e per ottenere “concessioni” normative dai sindacati e dai partiti amici, secondo quella logica di “scambio neo corporativo” che ha largamente caratterizzato i patti sociali specie nei decenni ottanta e novanta. Il Governo di emergenza, con la sospensione della “normale” politica parlamentare, ha comportato l’accettazione da parte delle maggiori forze politiche di misure in materia sia di pensioni e di lavoro sia di rigore finanziario impensabili nel quadro politico e sociale dominante per tutti gli anni 2000: un periodo che ha visto peggiorare tutti gli indicatori della performance del sistema Italia, come risulta dall’impietosa diagnosi dell’Istat sul decennio perduto3. Ma se l’emergenza ha indotto le maggiori forze politiche presenti in Parlamento a dare una delega in bianco al Governo tecnico, le divergenze fra le forze di maggioranza, di centro destra e di opposizione, non sono state superate.
1.1 Un eccesso di aspettative
Anche l’enfasi che ha accompagnato l’iter formativo della l. n. 92/2012 è un carattere ricorrente nelle analisi dei problemi del lavoro ed è tributario di orientamenti propri della nostra tradizione non solo politica ma anche culturale (a cominciare dalla cultura giuridica). Nel caso specifico ad accrescere l’enfasi ha contribuito il sovraccarico delle aspettative riversatesi sul provvedimento, aspettative alimentate dallo stesso governo e dalle autorità europee. Il che aggiunge alla vicenda un ulteriore elemento di anomalia. Perché aspettarsi dalla riforma un contributo decisivo per la soluzione dei problemi del lavoro è del tutto irrealistico. Questo vale per ogni intervento di regolazione del lavoro, ivi compresi quelli volti a ridurre la rigidità delle protezioni del posto di lavoro, cui si attribuisce la maggiore importanza da parte delle tesi economiche tradizionali. Gli organismi internazionali impegnati da tempo in queste analisi, a cominciare dall’Ocse, pur riconoscendo che la flessibilità del lavoro – non solo quella in uscita – è rilevante per favorire l’occupazione e soprattutto può ridurre i dualismi e la segmentazione del mercato del lavoro, evitano di assolutizzare tali giudizi e di avallare nessi automatici fra flessibilità del lavoro e crescita occupazionale4. Le riforme del lavoro possono essere utili, non da sole ma come un tassello di un pacchetto molto ampio di misure tendenti a rendere il sistema più competitivo e a migliorare le condizioni dell’offerta aggregata di beni e servizi.
Scontato l’eccesso delle aspettative, l’impatto della riforma non potrà che verificarsi nel tempo, sulla base delle sue vicende applicative. Opportunamente la legge ha predisposto un sistema di monitoraggio sull’andamento applicativo della legge5 (art. 1, co. 2-4) per verificare la effettiva portata delle sue innovazioni e per decidere eventuali interventi correttivi a ragion veduta e non sulla spinta delle pressioni del momento, come spesso succede. Verifiche sistematiche e ricorrenti nel tempo permetteranno di valutare come i vari istituti della riforma possono operare nel contesto economico e politico dei prossimi anni, nei vari settori e territori in cui si articola la nostra complessa economia. Una analisi del dato normativo, contestualizzato in rapporto alle circostanze di fatto rilevanti, è condizione essenziale per conoscere la “law in action” e per valutare la sua capacità di incidere sui rapporti sociali ed economici, in questo caso sulle condizioni dell’occupazione e del mercato del lavoro. Non basta ripetere che nessuna legge può di per sé creare lavoro.
1.2 La flexicurity: le esperienze europee e le particolarità italiane
Gli orientamenti fondamentali sulla l. n. 92/2012, come indicato fin dall’inizio dal Governo, si ispirano ai principi della flexicurity europea. Si propongono l’obiettivo ambizioso di spostare il nostro sistema dal modello mediterraneo verso equilibri più vicini ai modelli nord europei6. In realtà questi riferimenti sono lungi dall’essere univoci, perché non esiste un modello europeo unico; e non è tale neppure la formula della flexicurity, che pure le autorità comunitarie hanno da tempo adottato per indicare la disciplina ideale del mercato del lavoro. Le esperienze storiche di regolazione del mercato del lavoro, cui la formula si ispira, sono alquanto diversificate per entrambi i termini della coppia. Così si presentano anche nei paesi dove la flexicurity si è originariamente sviluppata, quelli del centro/nord Europa. I caratteri del sistema italiano sono così diversi da quelli dei sistemi europei di flexicurity su entrambi i versanti della flessibilità e della sicurezza che ogni parallelo va operato con cautela anche nel valutare la portata delle innovazioni introdotte dalla l. n. 92/2012. Il nostro sistema di ammortizzatori sociali è stato storicamente impostato su base categoriale e tale è rimasto fino a ieri nonostante i tentativi dei decenni passati di imboccare la strada europea dell’universalismo. Questa diversità storica, sostenuta dalle parti sociali, ha influito profondamente sul sistema e sulla prassi della sicurezza sul posto e nel mercato del lavoro. Si è così alimentato un circolo vizioso. La resistenza degli attori sociali e politici, condivisa anche da molti esperti, ad abbandonare le norme di difesa del posto di lavoro, in primis l’art. 18, è motivata dalla carenza di efficaci strumenti di tutela e di accompagnamento sul mercato del lavoro; d’altra parte il ritardo nell’attivare questi strumenti ha perpetuato le spinte alla conservazione dello status quo, comprese le resistenze, individuali e collettive, alla mobilità fra posto e posto di lavoro. Tale sfasatura non è stata compensata da politiche attive del lavoro in grado di sostenere la mobilità e la qualificazione dei lavoratori. La distanza del nostro ordinamento dai modelli europei di flexicurity è altrettanto marcata sul versante della flessibilità del lavoro. La sfasatura più evidente, e più criticata, riguarda la disciplina dei licenziamenti, che costituisce un unicum nel contesto europeo: ciò non tanto riguardo ai motivi legittimanti del licenziamento, come pure le polemiche del dibattito hanno trascinato a dire, quanto riguardo alla sanzione prevista dall’art. 18, che stabilisce la reintegrazione come rimedio unico e necessario al licenziamento ingiustificato (nelle aziende in cui l’art. 18 è applicabile). Ma l’ordinamento italiano presenta particolarità marcate anche nella regolazione e nella prassi della flessibilità funzionale e in entrata. La molteplicità dei tipi contrattuali progressivamente affermatisi nel nostro diritto del lavoro non trova riscontro nei paesi vicini. Né soprattutto si ritrova altrove un utilizzo così massiccio e spesso distorto delle varie forme di lavoro autonomo o semiautonomo7, da ultimo anche gli associati in partecipazione con apporto di lavoro, solo o prevalente, e gli stessi soci lavoratori di cooperative. Si tratta di una particolarità che riguarda il lavoro autonomo tout court, ricollegabile alla particolarità del nostro sviluppo e al particolare favore contributivo, e talora fiscale, riservato a tale lavoro. La crescita anomala delle varie forme di lavoro parasubordinato si è alimentata di queste diversificazioni di costi e ha trovato terreno di coltura nella precarietà della nostra economia, oltre che nello scarso rigore dei controlli legali e sociali. Le mediazioni e le soluzioni adottate nelle varie parti della legge, sono state influenzate, a mio avviso negativamente, non solo dal carattere conflittuale degli argomenti ma anche dalla particolare impostazione del problema, evidente fin dalla prima trattativa fra le parti, cioè dall’idea che le innovazioni in tema di flessibilità in entrata dovessero essere bilanciate da parallele concessioni nella flessibilità in uscita. Cosicché l’impossibilità di ottenere la radicale modifica dell’art. 18 perseguita dalle parti imprenditoriali e dal centro destra – impossibilità ratificata dalle massime autorità politiche –, ha accentuato la spinta a modificare l’originale impianto delle regole sulla flessibilità in entrata, pure largamente concordato fra le parti sociali, con la eccezione della Cgil8 (v. Il riordino delle tipologie di lavoro subordinato). Questa impostazione, al di là della sua (discutibile) utilità tattica, segnala una particolarità della situazione italiana. Una simile contrapposizione/compensazione fra i due versanti della flessibilità è estranea ai dibattiti europei sulla flexicurity. Lo scambio proprio della flexicurity è viceversa fra flessibilità del rapporto di lavoro e sicurezza sul mercato del lavoro. Invece i due tipi di flessibilità sono visti come complementari, in quanto rispondenti a due funzioni convergenti, entrambe utili al funzionamento del mercato del lavoro.
La implicazione principale degli orientamenti seguiti dal Governo, conformi alle indicazioni europee, è stata di ridistribuire le tutele del nostro sistema nel rapporto e nel mercato del lavoro, puntando a un superamento dei dualismi, fra le regole dei rapporti a tempo indeterminato e dei contratti precari, e muovendo verso una maggiore universalità del sistema degli ammortizzatori sociali.
Tale orientamento segna una presa di distanza dalle scelte prevalenti negli anni recenti, concentrate in prevalenza su interventi al margine diretti ad aumentare la flessibilità in entrata nel mercato del lavoro, moltiplicando le forme giuridiche di accesso al lavoro anche non subordinato. La riforma della l. n. 92/2012 si propone di ridefinire le regole non solo al margine, sia pure in misura diseguale, ma nell’intero funzionamento del mercato del lavoro e di “instillare la flessibilità” anche all’interno dei rapporti di lavoro standard. La prova principale di ciò è la modifica dell’art. 18 st. lav.
Ma altrettanto rilevante, anche se meno reclamizzata, è la delega sulla democrazia economica che promuove varie forme partecipative dei lavoratori nelle imprese al fine di favorire una gestione collaborativa dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali e di migliorare la competitività delle imprese. Il contenuto della delega è richiamato dall’art. 1, lett. h), della legge fra i principi ispiratori della riforma, a segnalare il valore della partecipazione come criterio utile al funzionamento del mercato del lavoro. Il buon funzionamento di questo mercato infatti non dipende solo dalle regole di entrata e di uscita dal lavoro e dalla relativa flessibilità, bensì dalle modalità con cui viene gestito l’intero svolgimento del rapporto e dalla flessibilità interna o funzionale, che è un elemento fondamentale nella gestione del rapporto. La partecipazione dei lavoratori è uno strumento importante per favorire una gestione equilibrata dei rapporti di lavoro, proprio in quanto mira a coinvolgere i lavoratori e i loro rappresentanti nel perseguimento dell’obiettivo comune di promuovere la produttività dell’impresa e la qualità del lavoro. L’importanza del metodo partecipativo è confermata dalle esperienze dei paesi europei che l’hanno da più tempo praticato, non solo nella forma della presenza di rappresentanti dei lavoratori negli organi delle società, ma come criterio ispiratore della regolazione e della gestione dei rapporti individuali e collettivi di lavoro9. Anche qui la distanza non potrebbe essere più netta con quasi tutti i caratteri delle relazioni industriali italiane. Il che contribuisce a spiegare la difficoltà di introdurre nel nostro sistema meccanismi partecipativi, se non in forme di deboli e precarie, anche dopo le indicazioni della direttiva europea sulla Società europea (n. 2001/66; regolamento n. 2157/2001) e il suo recepimento nel diritto italiano (d.lgs. 19.8.2005, n. 188). Le indicazioni della delega contenuta nella l. n. 92/2012 circa le forme partecipative possibili sono volutamente generiche, per non “forzare la mano”; e le scelte al riguardo sono affidate in toto alla contrattazione aziendale, con un debole auspicio di sostegno finanziario pubblico. Talché il valore della delega sta più nel suo messaggio di policy che nei contenuti normativi, i quali aggiungono poco alle indicazioni introdotte nel nostro ordinamento con il recepimento della direttiva europea sulla Società europea.
2.1 La debolezza degli ammortizzatori sociali
Il sistema degli ammortizzatori sociali rappresenta, come si diceva, l’anomalia più grande del nostro ordinamento del mercato del lavoro e la distanza massima rispetto ai sistemi europei, che sono a prevalente, anche se variegata, impronta universalistica. Gli squilibri e le intersecazioni stratificatisi negli anni fra i vari tipi di ammortizzatori (le multiformi Casse integrazioni come i diversi tipi di sostegno al reddito dei disoccupati), costituiscono una delle forme più gravi di dualismo del nostro mercato del lavoro. Questa è la parte in cui l’intervento riformatore nella direzione annunciata dal Governo ha prodotto minori risultati10. I limiti dell’intervento dipendono anzitutto dalla scarsità delle risorse pubbliche messe a disposizione dal sistema. A dire il vero questa è una debolezza storica del nostro Paese, che ha sempre dedicato agli ammortizzatori sociali e alle politiche attive del lavoro, che li dovrebbero accompagnare, una quota di spesa molto ridotta in assoluto e in rapporto agli altri paesi. Il fatto è che le proposte di muovere verso ammortizzatori universali si sono scontrate con la preferenza delle principali organizzazioni rappresentative, in questo concordi nel rappresentare gli insider, per il regime preesistente di tutele settoriali differenziate. Tale attaccamento al sistema preesistente è destinato non solo a perpetuare le storiche diseguaglianze di trattamento, ma anche a frenare le capacità del nostro sistema di accompagnare le necessarie trasformazioni produttive riallocando efficacemente la forza lavoro. Questo rischio è insito nel funzionamento storico delle Casse integrazioni (CIG), che non pone disincentivi al loro utilizzo prolungato e indifferenziato; ed è accentuato nel caso degli interventi in deroga che tendono ad estendersi sotto la pressione delle parti sociali interessate. Le regole introdotte dalla l. n. 92/2012 hanno in parte contrastato tale deriva, ad es. escludendo una fattispecie del tutto anomala come quella della CIG per cessata attività e prevedendo il progressivo superamento di istituti altrettanto anomali come la indennità di mobilità e le casse in deroga. Ma è lo stesso permanere dell’istituto della cassa integrazione straordinaria che contrasta con il proposito di ricondurre l’istituto alla sua funzione di intervento temporaneo e predefinito, come era alle origini e come è stato utilizzato dalle esperienze europee11. Detto questo la indicazione di riforma più netta riguarda la istituzione dell’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) (art. 2, co. 1-45), e in qualche misura della mini Aspi (art. 2, co. 20). Se l’impianto dell’Aspi è universale, i suoi contenuti e la sua estensione risentono della concorrenza economica e politica degli istituti storici sopra ricordati. La pressione di tale concorrenza ha portato a utilizzare parte delle risorse pubbliche, già in sé limitate, per la continuazione e la integrazione di tali istituti, piuttosto che per rafforzare le tutele di base in caso di disoccupazione. Pur con questi limiti la nuova Aspi costituisce comunque un passo avanti verso la universalizzazione delle tutele del reddito in caso di disoccupazione. Si intende una universalizzazione, sempre nell’ambito di una sicurezza sociale occupazionale, come resta il sistema italiano, che è ancora privo di un welfare di cittadinanza. La distanza da sistemi europei è anche più netta per la mancanza nel nostro ordinamento di un istituto assistenziale come il reddito di cittadinanza o di inserimento, variamente adottato negli altri paesi, da noi abbandonato dopo la parziale sperimentazione alla fine degli anni ’90 e lasciato cadere dal Ministro Fornero, che pure l’aveva ipotizzato. Per gli stessi motivi è rimasto marginale nella legge l’intervento di sostegno per i collaboratori coordinati e continuativi, nella forma di un indennità una tantum, prevista in via sperimentale (art. 2, co. 51-56). La debolezza di questa normativa risente anche della natura incerta e della eterogeneità di questi rapporti contrattuali. La promessa di una evoluzione del bonus verso il sistema generale dell’Aspi contenuta nella legge, risponde all’idea che la gran parte dei collaboratori a progetto, anche nella forma genuina “garantita” dalla nuova normativa, sono economicamente dipendenti e quindi meritevoli di una tutela tendenzialmente uguale a quella dei lavoratori subordinati. È da segnalare viceversa l’“endorsement” fornito dalla legge all’impiego dei fondi bilaterali con compiti ampi di sostegno al reddito in settori esclusi tradizionalmente dalla CIG. Si tratta di un uso rafforzato della sussidiarietà – sia pure vigilata – riferito ad aree dove questi fondi hanno già avuto una significativa sperimentazione. A tale compito si aggiunge peraltro la funzione ulteriore di dar vita a una sorta di prepensionamento autofinanziato finalizzato alla gestione degli esuberi del personale (art. 4, co. 1-7); gestione che ora è resa più ardua dall’elevazione dell’età di pensionamento attuata dalla recente riforma (l. 22.12.2011, n. 214). L’indicazione riprende e allarga una formula già sperimentata con il fondo operante nel settore del credito e assicurativo. Il funzionamento di tale fondo peraltro ha potuto avvalersi di risorse non facilmente reperibili in altre circostanze e in altre categorie, ed ha operato in condizioni economiche di contesto più favorevoli delle attuali, anche per il settore del credito, nonché di orizzonti pensionistici più vicini di quelli segnati dalla nuova normativa. L’allontanamento dell’età pensionabile impone di ripensare a fondo gli strumenti necessari ad affrontare il nuovo contesto di vita e di lavoro, compreso l’uso degli ammortizzatori sociali, con l’obiettivo di promuovere quell’active ageing da tempo suggerito dalle guidelines europee.
2.2 Le politiche attive del lavoro
Il valore delle tutele sul mercato del lavoro introdotto dalla l. n. 92/2012 si misura non solo sulle innovazioni introdotte nella disciplina degli ammortizzatori sociali, ma sugli strumenti destinati a integrarne il funzionamento per renderli “attivi”: la formazione professionale, le politiche di activation e i servizi all’impiego. Questi strumenti sono stati oggetto negli anni di reiterati interventi legislativi sia nazionali sia delle Regioni, che hanno vaste competenze in materia. Ciononostante la loro efficacia è rimasta diseguale nel territorio e complessivamente inadeguata, come le istituzioni e gli osservatori internazionali denunciano da tempo. La l. n. 92/2012 propone una rivisitazione complessiva dei vari aspetti della materia, sia pure con indicazioni aperte perché incidenti sulle competenze concorrenti o esclusive delle regioni e quindi da negoziare con le stesse. Queste indicazioni segnalano la volontà di irrobustire le politiche di attivazione nei confronti dei beneficiari di ammortizzatori sociali per accelerare la transizione da un sistema di tutele di stampo passivo o assistenzialistico a un sistema di workfare, con diversi strumenti (art. 4, co. 33 ss.): il decalage nel tempo dei trattamenti previsti, la correzione della mini Aspi rispetto alla tradizionale disoccupazione a requisiti ridotti e soprattutto il rafforzamento della condizionalità dei trattamenti all’accettazione di una “offerta congrua” di lavoro e/o di formazione. Al riguardo la l. n. 92/2011 inoltre interviene stabilendo una serie di diritti e doveri delle parti, con la dovuta differenziazione fra soggetti disoccupati e soggetti in CIG: da colloqui di orientamento, a proposte di inserimento lavorativo, sostenute da attività formative, con la previsione della decadenza dal diritto agli ammortizzatori in caso di rifiuto immotivato di tali proposte. E prevede che sia definito con accordo in sede di conferenza unificata un sistema di premialità per la ripartizione delle risorse del Fondo sociale europeo, legato alla prestazione di politiche attive e servizi per l’impiego (art. 4, co. 34). Ma il punto debole di questi interventi, già rilevato in passato, non sta tanto nelle specifiche normative quanto negli strumenti organizzativi e istituzionali necessari a renderli effettivi nella pratica e nel personale ad essi dedicato12. Anche qui le migliori pratiche europee danno indicazioni utili, per altro più volte sollecitate da esperti colleghi: anzitutto gli interventi diretti a unificare le competenze e gli enti che erogano i sussidi con quelli che certificano lo stato di disoccupazione e svolgono politiche attive; in particolare con la nascita di un’Agenzia nazionale costituita fra Stato e Regioni che gestisca tanto le politiche attive quanto quelle passive; inoltre la previsione di incentivi agli operatori dei servizi sulla base dei risultati ottenuti e il rafforzamento della quantità e qualità delle persone impiegate (in questo contesto le politiche concrete possono essere attuate anche da providers privati)13. Indicazioni simili sono rilevanti anche per verificare l’impatto delle innovazioni legislative in materia di apprendistato e di tirocinio: entrambi istituti affidati alla gestione delle istituzioni competenti in materia di lavoro e di formazione scolastica e professionale e quindi dipendenti dal funzionamento di questi attori e dal loro coordinamento.
2.3 La promozione dell’apprendistato
L’effettività applicativa di apprendistato e tirocinio è importante non solo in sé ma anche per un giudizio complessivo sulla efficacia della legge, in quanto sono proprio questi i due istituti più esplicitamente diretti a promuovere l’occupazione. In particolare l’apprendistato, nella sua versione professionalizzante, è valorizzato dalla riforma come la modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro (art. 1, co. 16 ss.). La disciplina dello stage (art. 1, co. 34-35), pur rimandando a una intesa con le Regioni che sono competenti in materia, affida all’istituto una funzione propedeutica di orientamento e di preparazione al lavoro, fissando alcuni criteri per contrastarne l’abuso accresciutosi negli anni (un intervento, questo, comune alle norme della legge riguardanti l’uso dei contratti cd. atipici). In particolare sono indicate le attività proprie del tirocinante, al fine di distinguerle da quelle del normale dipendente; è inoltre prevista una sanzione per il caso di mancanza degli elementi qualificati del tirocinio e sancito il riconoscimento di una congrua indennità al tirocinante14 (v.Tirocini). Questa ultima è una previsione comune agli altri Paesi europei ed è lasciata necessariamente generica. Si tratta peraltro di prestazione distinta dalla retribuzione, in coerenza con la natura del rapporto, non di lavoro ma formativo, la cui quantità andrà definita meglio nelle intese regionali che specificheranno i tratti dell’istituto. Piuttosto sarebbe stato utile qualche maggiore indicazione per indirizzare meglio il ricorso all’istituto, com’era nella versione originaria del Governo; ad es. porre limiti quantitativi al suo utilizzo, come per l’apprendistato, e allo stesso fine, stabilire un più preciso raccordo con le istituzioni formative, con il cui contributo lo stage dovrebbe tipicamente svolgersi15. Ma la delicatezza dei rapporti, ampiamente sperimentate in passato, con le autonomie regionali, e con le loro competenze, ha suggerito di evitare direttive specifiche, rinviando la disciplina di merito all’intesa interistituzionale. La l. n. 92/2012 che si concentra sull’apprendistato professionalizzante, integra la normativa del d.lgs. 14.9.2011, n. 167, che recepisce l’accordo Stato-Regioni così da configurare nell’insieme una revisione sostanziale dell’istituto, la terza in poco più di dieci anni.
Questo insieme di interventi indica la volontà del legislatore di ampliare la possibilità di uso dell’istituto come strumento di promozione di occupazione qualificata16. Tale obiettivo si esprime anzitutto nell’aumento della quota di apprendisti impiegabili rispetto ai lavoratori qualificati o specializzati, (3/2 invece che 1/1, come nella tradizione), ma anche nella fissazione di limiti alle imprese, intesi a qualificare l’istituto come istituto formativo e a prevenirne l’uso come forme di lavoro “scontato” per i giovani: durata minima, obblighi di trasformazione di una percentuale di contratti di apprendistato in contratti a tempo indeterminato come condizione dell’assunzione di nuovi apprendisti. Anche questi interventi limitativi, come altri della legge, sono stati oggetto di polemiche17. La formazione ha un ruolo centrale in tutti e tre i tipi di apprendistato anche se è articolato con modalità diverse. Anche il tema della formazione e della certificazione delle competenze è affrontato dalla riforma solo con principi di delega da definire d’intesa con le regioni; data la loro competenza esclusiva in materia, ed è stato poco approfondito nel dibattito parlamentare (art. 4, co. 58 ss.). Si è segnalata la scarsa chiarezza del disegno complessivo perseguito, riscontrabile nelle incertezze delle scelte e della sistematizzazione degli attori abilitati allo sviluppo delle reti formative, nelle modalità delle certificazioni, delle competenze e nella loro focalizzazione sui vari skills. Il che comporterebbe un rischio duplice; da un lato di creare mostri burocratici, dall’altro di perdere di vista qualsivoglia standardizzazione a livello nazionale.
2.4 Flessibilità in entrata: scelte contrastanti
Come si diceva, la normativa sulla cd. flessibilità in entrata è stata oggetto delle maggiori polemiche e oscillazioni nel corso dell’elaborazione della legge. L’obiettivo di allineare il sistema italiano ai modelli della flexicurity europea sconta la particolarità della nostra regolazione su entrambi i versanti della flessibilità, quella in entrata e quella in uscita. Ma mentre per questo secondo aspetto l’intervento di armonizzazione con l’Europa si è concentrata sulla rimozione dell’anomalia dell’art. 18, per il primo versante l’opera di revisione legislativa ha dovuto cimentarsi con il frastagliato panorama delle nostre flessibilità “al margine”, stratificatesi nel tempo con modalità non rinvenibili nell’esperienza europea e spesso erratiche. Anche per questo l’iter e il risultato della riforma si differenziano nelle due parti della legge. L’intervento sull’art. 18 è oggetto di un contrasto molto forte, ma si traduce in una soluzione sancita in modo definitivo dalla mediazione governativa. Tanto è vero che nel corso dell’iter parlamentare ogni parola fu ritenuta intoccabile. Inoltre, il contenuto dell’intervento ha una portata nettamente innovativa, al di là della sua scrittura non certo esemplare. Viceversa gli interventi sulla prima parte della legge risentono molto della eterogeneità degli oggetti di volta in volta considerati, su cui si sono esercitate le pressioni degli interessi contrapposti, che hanno accompagnato l’iter parlamentare. La complessità degli equilibri raggiunti risulta in modo emblematico confrontando gli interventi sui due nuclei normativi più importanti della prima parte della legge: quello sui contratti a termine e quello sulle varie forme di lavoro autonomo: contratti a progetto, partite Iva e in misura minore associazioni in partecipazione. Questi due gruppi di norme sono particolarmente significativi per il senso della normativa, in quanto intervengono sulle fattispecie chiave della flessibilità. L’orientamento generale, (art. 1, co. 9 ss.) presente fin dal progetto governativo, risponde alla logica presente in tutta la prima parte della legge di prevenire gli abusi nel ricorso ai contratti flessibili.
2.5 Contratti temporanei: prove di liberalizzazione
Nel caso specifico dei contratti a termine l’intervento mira a contrastare gli abusi derivanti da una successione nel tempo da tali contratti, seguendo in ciò la indicazione della direttiva europea (1999/70, considerando 7, lett. b) e della giurisprudenza della Corte di giustizia. Nel corso del dibattito parlamentare l’impianto originario è stato corretto ammettendo la possibilità di stipulare contratti a termine senza causale di una durata di un anno e l’ulteriore possibilità affidata alla contrattazione collettiva, di prevedere in alternativa una franchigia del 6% di contratti a termine pure acausali (art. 1, co. 9, lett. b). Si tratta di due norme liberalizzatrici. La prima tiene conto delle indicazioni europee che riferiscono l’esigenza di assoggettare a vincoli e a ragioni oggettive i rinnovi dei contratti a termine e non viceversa il ricorso a un unico contratto. La locuzione «primo contratto a termine» non dovrebbe essere equivocata, sia per la chiarezza dell’indicazione testuale, ove il termine «primo» è indicato senza ulteriori qualificazioni, sia per la ratio della norma per cui quel che conta è la possibilità di ricorrere al contratto acausale una sola volta nella vita lavorativa, per prevenire le possibilità di abuso18. Quindi, da una parte tale contratto acausale non può essere ripetuto dallo stesso datore di lavoro neppure a distanza di tempo, ma dall’altra parte il suo utilizzo è sempre possibile una “prima volta”, a nulla rilevando che il lavoratore sia stato titolare di un precedente rapporto di lavoro di qualsiasi genere, subordinato o autonomo19 (v. Tipologie di lavoro subordinato). La seconda parte della norma in questione prevede una variante inedita di liberalizzazione del contratto a termine, emersa durante l’iter parlamentare dal confronto con le parti sociali. La liberalizzazione riguarda la quantità del ricorso a questo contratto (il 6% dell’organico) invece che il tempo (un primo contratto annuale). Per il resto rimangono valide le regole generali di durata massima oltre che i limiti a proroghe e successioni. Ma la ratio della variante è simile a quella della indicazione comunitaria sopra richiamata, in quanto la scelta delle parti di contenere i contratti a termine acausali entro la franchigia al 6% indica quello che è ritenuto un uso normale (o non anomalo) dell’istituto nelle circostanze stabilite dalla legge. Proprio per questo l’alternativa va definita dalla contrattazione di volta in volta, tenendo conto del contesto, oltre che delle condizioni indicate dalla legge. In mancanza di specificazioni restrittive sulle modalità con cui la franchigia può essere definita, si deve ritenere che il suo utilizzo alternativo al ricorso al contratto a termine annuale senza causale possa essere fissato dalle parti in modi diversi e flessibili: ad es. distinguendo singole unità dell’impresa e applicando le due formule alternative in periodi successivi. Se le previsioni della l. n. 92/2012 sul contratto a termine sono sufficientemente univoche – liberalizzazioni del primo contratto e vincoli riguardanti la successione e la proroga dei contratti – gli interventi normativi sulle varie forme di lavoro autonomo sono invece più articolati e per certi versi oscillanti.
2.6 Le cd. partite Iva
L’intervento più incisivo, specie nel disegno governativo, e molto criticato riguarda la disciplina delle cd. partite Iva20. La terminologia è impropria, perché si tratta, come indica la rubrica dell’articolo (art. 1, co. 26), di altre «prestazioni lavorative rese in regime di lavoro autonomo»; ma è di uso comune, anche perché la fattispecie lavoristica in questione è, non del tutto opportunamente, influenzata dalla disciplina tributaria, in quanto riferita alle prestazioni lavorative titolari di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. La scelta originaria del Governo è di ricorrere a indici “quantitativi e oggettivi”, sia pure non per individuare i contorni della fattispecie, come previsto in precedenti proposte di legge sul lavoro economicamente dipendente ampiamente dibattute in dottrina, ma per far operare una presunzione relativa di lavoro subordinato21. Nel primo testo governativo gli indicatori che facevano scattare la presunzione relativa di subordinazione erano così stretti, e discutibili, che rischiavano non solo di contrastare gli abusi di questo istituto ma di forzare la trasformazione in lavoro dipendente anche di prestazioni genuinamente autonome, solo perché svolte per un certo tempo con un committente prevalente. I tre indicatori previsti dal co. 1 della norma (art. 1, co. 26) per far scattare la presunzione, sono stati via via “ammorbiditi” per contrastare tale rischio. Le modifiche introdotte nell’iter parlamentare non si sono limitate a rendere meno restrittivi questi indicatori presuntivi di collaborazione continuativa (e poi di subordinazione). I due commi aggiunti in Senato alla formulazione originaria hanno cambiato radicalmente la rilevanza degli indicatori previsti nel testo governativo, fino a ridurne di molto la portata. Un’ampia area di rapporti sottratta all’operare della presunzione è identificata dalla presenza di due requisiti congiunti: una prestazione connotata da competenze tecniche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze pratiche; e un reddito minimo annuo da lavoro autonomo non inferiore a 1.25 del livello minimo imponibile ai fini previdenziale (circa 18.000 euro). La scelta di attribuire valore distintivo alla qualità dei contenuti professionali tecnico-pratici della prestazione è stata motivata dal fatto che questo è il tratto saliente dei lavori autonomi, quelli tradizionali e ancora più quelli di nuova generazione. Il riferimento a un reddito minimo non è inteso come compenso minimo dovuto al prestatore di lavoro, bensì quale indice di autonomia e di valore professionale, questa volta sul piano economico; come dovrebbe essere se si vuole veramente valorizzare il lavoro autonomo. Qui la norma riecheggia ipotesi avanzate in progetti legislativi esistenti che danno rilievo all’entità del compenso per l’identificazione del tipo “lavoro economicamente dipendente”. Ma nella disposizione in questione tale elemento rileva non per l’identificazione del tipo, bensì per escludere l’operare della presunzione relativa di lavoro coordinato. Per correggere letture affrettate, va precisato che i due requisiti operano in maniera congiunta, cioè che entrambi convergono a qualificare una situazione di lavoro come autonomo22. Essi operano su un piano diverso, ma non meno rilevante, dell’assenza o presenza dei requisiti materiali indicati al co. 1; la presenza dei requisiti di qualità professionale e di autonomia di reddito, previsti al co. 2, priva di rilievo gli indicatori previsti al co. 1. Il requisito del co. 3 valorizza analogamente il contenuto professionale delle attività, ma lo identifica con il fatto che per il loro svolgimento sia richiesta dall’ordinamento la iscrizione a ordini professionali, ad appositi registri, albi, liste o elenchi professionali qualificati. È un criterio forse discutibile e che solleva fra l’altro il problema di distinguere quale sia l’ambito delle attività rientranti nell’esercizio di queste professioni e chi ne debba definire i confini. L’indicazione è più ampia di quella del d.lgs. n. 276/2003 art. 61, co. 3, riguardante le collaborazioni coordinate e continuative non riconducibili a progetto, che si riferisce solo alle attività per il cui esercizio è richiesta la iscrizione in albi professionali23.
2.7 Le novità dei contratti a progetto
L’intervento correttivo della disciplina del contratto a progetto risente delle travagliate vicende di questo istituto. L’intento di restringere l’uso di tale istituto è realizzato anche qui con la tecnica della presunzione relativa e si traduce in una serie di precisazioni che incidono su diversi caratteri del rapporto, in particolare sul concetto di progetto (art. 1, co. 23-25). Opportunamente la legge fa riferimento solo a «progetti specifici», eliminando quello a «programmi o fasi di essi» già oggetto di critiche argomentate. Meno significativa mi sembra la precisazione che il progetto deve essere funzionalmente collegato a un risultato finale, in quanto il risultato si può identificare con la realizzazione del progetto (se questo è effettivo). L’ulteriore indicazione che il progetto non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente è poco più che una tautologia. Un progetto specifico non può limitarsi alla mera riproposizione di un oggetto sociale, anche se può essere correlato con l’attività dell’azienda committente e anzi è normale che sia così; in tal senso si era espressa a suo tempo la giurisprudenza e una circolare ministeriale24. La previsione che il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi si basa sulla considerazione che una prestazione di scarso contenuto professionale non è appropriata per un lavoro autonomo, come è il rapporto a progetto, e quindi la sua presenza fa sorgere la presunzione di subordinazione. Tale indicazione non contrasta con il principio acquisito che qualsiasi attività può essere svolta in forma sia autonoma sia subordinata, perché non serve a integrare la fattispecie, ma è solo un indice per l’operare di una presunzione. Non diverso significato ha la indicazione che fa operare la presunzione quando l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quelle svolte dai dipendenti. L’impatto di queste precisazioni legislative sull’uso del contratto a progetto è incerto. C’è chi lo considera una manutenzione della normativa che tiene conto largamente dell’acquis giurisprudenziale25, e come tale di dubbia utilità; altri ne enfatizzano l’effetto restrittivo rispetto all’uso attuale26. In realtà è plausibile ritenere che il contrasto all’uso dell’istituto deriverà non tanto dalle restrizioni definitorie quanto dall’aumento dei costi, contributivi e retributivi. I contributi infatti vengono progressivamente elevati per i contratti a progetto come per le partite Iva fino a raggiungere il livello dei lavoratori dipendenti (33%), sia pure con tempi che sono stati meglio graduati nell’ultima versione della d.l. 22.6.2012, n. 83 (cd. decreto sviluppo), convertito con modificazione, dalla l. 7.8.2012, n. 134. Tale aggravio contributivo è stato oggetto di critiche nell’iter formativo della legge, che però sono state soffocate dalla necessità finanziarie alla quale l’imposizione contributiva su questi contratti ha dato, anche questa volta, un contributo significativo. I costi retributivi del contratto a progetto sono destinati a essere influenzati anche dalla previsione legislativa di un compenso minimo. L’impatto dipenderà dal livello al quale verrà fissato il compenso minimo (art. 1, co. 23, lett. c); ma certo esso è destinato a incidere non poco sulle situazioni in essere che riportano prassi diffuse di compensi estremamente bassi. È questa forse la disposizione più innovativa in materia. È da tempo che non solo gli esperti e osservatori ma le autorità internazionali sollecitano la introduzione anche in Italia di qualche forma di salario minimo. La scelta della riforma di sperimentare l’istituto in una forma limitata ai collaboratori a progetto, si spiega per la particolare posizione di debolezza di questi rapporti nel mercato del lavoro e per il fatto che essi non sono coperti dalla contrattazione collettiva, cui nel nostro sistema è stata affidata la funzione di tutelare le retribuzioni base. La norma indica come riferimento prioritario per definire il salario minimo, i livelli base stabiliti da una contrattazione collettiva dedicata ai collaboratori. In mancanza di tale contrattazione viene fatto rinvio ai contratti collettivi in vigore per i lavoratori dipendenti di categorie paragonabili27. Tale scelta configura una forma di legislazione promozionale che vuole stimolare i sindacati più rappresentativi a sviluppare contenuti e forme di contrattazione pensati per rispondere ai particolari caratteri dei collaboratori. Gli interventi della riforma, in particolare quelli sui costi di tali rapporti, sono intesi a ricondurre molte di queste figure autonome o semiautonome in dimensioni più contenute; e quindi per questa via a ridimensionare non solo agli abusi, ma anche i contrasti definitori. Se così avvenisse, e sarebbe augurabile, risulterebbe più chiaro il problema critico, che riguarda non tanto le fattispecie di questi lavori ma i loro trattamenti; cioè la necessità di estendere ad essi alcune tutele originariamente proprie del solo lavoro subordinato, e di disegnare strumenti per la loro promozione e qualificazione professionale. Questo è un tema di riflessione e di politica del diritto che prima o poi andrà ripreso, per il quale rinvio a miei interventi precedenti28.
Resta da fare un’altra osservazione rilevante per la individuazione dei contratti qui considerati. La reiterazione degli interventi legislativi prima sulle fattispecie di lavoro a progetto e ora con la tecnica della presunzione relativa, ha fornito indicazioni diverse, non tutte coerenti. La giurisprudenza sarà decisiva nell’interpretare il significato di queste diverse formulazioni. Al di la dei singoli interventi è da ritenere che essa sarà indotta ad affinare ulteriormente gli indici di subordinazione e a precisare per distinzione quelli che identificano il solo “coordinamento” e la continuità delle collaborazioni.
2.8 Le modifiche dell’art. 18
Le polemiche che hanno circondato la discussione sull’ art. 18 dello statuto dei lavoratori (art. 1, co. 37 ss.) sono dovute più che al peso della disposizione, al suo alto valore simbolico, caricatosi nei decenni. Proprio per questo il valore dell’intervento legislativo si coglie, al di là delle diverse valutazioni di merito, anzitutto nel fatto di aver rotto il tabù storico dell’immodificabilità della norma. Lo stesso Governo Monti è stato attratto nel vortice dell’enfatizzazione ideologica e anche per questo il Presidente è dovuto intervenire di persona nel compromesso risolutivo sul testo della norma. Ma le polemiche continuano a investire sia l’opportunità dell’intervento, c’è già chi ha già attivato un referendum abrogativo, sia la portata della modifica. Al di là di questi giudizi, segnati anche dalla vicinanza dell’evento, sarà decisivo, al pari di altre parti della legge, come sarà accolta la modifica sia dai giudici e dagli avvocati, sia dalle parti sociali. Queste hanno sempre avuto un ruolo importante nella composizione delle controversie, che ora è rafforzato dalla previsione di un collegio di conciliazione preventiva al licenziamento (economico). Comunque la rottura del tabù storico della immodificabilità dell’art. 18 potrebbe essere uno stimolo a valutazioni più equilibrate anche in sede applicativa. La possibilità della reintegrazione mantiene alla norma il suo valore di deterrente29, ritenuto decisivo dai difensori dell’art. 18. Il fatto che la reintegrazione non sia più l’unico rimedio possibile per il licenziamento ingiustificato permette al giudice di modulare le tutele sulla base di una ponderazione comparativa degli interessi e dei valori in gioco. Nel merito della nuova normativa si segnala qualche aspetto della problematica generale (v. gli altri contributi qui pubblicati). Un primo rilievo riguarda la distinzione fra licenziamento disciplinare e licenziamento per motivi economici, invero più contingenti che convincenti introdotta nel corso dell’iter formativo dalla legge, prima dell’esame in parlamento. La scelta è stata motivata dall’esigenza, rappresentata soprattutto dagli imprenditori, di ridurre il rischio di interventi giudiziari nelle scelte aziendali, ritenuto grave soprattutto nei licenziamenti economici individuali. Tale scelta è stata criticata da chi ritiene sopravvalutato il rischio di simili controlli giudiziali invasivi. Quale che sia la valutazione su questo punto, il fatto è che sulla base di questa premessa discutibile circa la diversa natura dei due tipi di licenziamento, si è operata una trasposizione dal piano dei motivi giustificativi del licenziamento, economico o disciplinare, al piano delle sanzioni. Tale distinzione non è riscontrabile in nessun altro ordinamento europeo (salvo l’ipotesi, comunque considerata a parte, dei licenziamenti discriminatori). Per altro verso la debolezza dell’impianto legislativo e della distinzione recepita dal sistema si è rivelata nella scelta di sanzionare con la reintegrazione la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, quale che sia il loro numero.
2.9 La modulazione delle sanzioni
Questa impostazione, anche se non ha portato alle conseguenze ipotizzate da qualcuno, di escludere del tutto la reintegrazione nell’area dei licenziamenti economici, ha comunque aperto la strada a una graduazione dei rimedi, addirittura in quattro regimi, (due indennitari e due reintegrativi, art. 1, co. 4). Neppure una simile articolazione risulta prevista in altri ordinamenti legali e non facilita una ricostruzione razionale del nostro sistema. Il sistema tedesco indicato come riferimento ispiratore, spesso invero in modo rituale, affida al giudice il potere di definire le sanzioni da applicare al licenziamento ingiustificato sulla base di criteri alquanto generali: non solo la gravità e la consistenza dei fatti giustificativi del licenziamento ma la possibilità di continuare o meno utilmente la collaborazione fra le parti, visto anche il contesto aziendale. Il nuovo art. 18, nonostante la (forse) eccessiva articolazione del regime sanzionatorio, dà indicazioni più precise alle decisioni del giudice di quanto sia quella tedesca. La questione va chiarita per apprezzare correttamente quali sono gli elementi critici che determineranno le modalità di tutela dei licenziamenti; e anche per ridimensionare la percezione alimentata dalle prime reazioni che la nuova legge abbia fortemente aumentato l’incertezza del sistema. In realtà il grado più marcato di incertezza e di discrezionalità del giudice – come risulta dalla prassi – riguarda l’accertamento delle condizioni che legittimano il recesso del datore nel caso di licenziamento, sia disciplinare sia per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.). Ma su tali condizioni il legislatore ha evitato di introdurre modifiche, nonostante non siano mancati suggerimenti in proposito. È significativo il dibattito scoppiato nel corso dell’iter parlamentare, quando nel testo del nuovo art. 18 riguardante i licenziamenti disciplinari è apparso un riferimento non solo alla tipizzazione delle condotte e delle sanzioni contenuta nei contratti collettivi, ma anche a una possibile decisione sulla base delle previsioni della legge. Questo secondo riferimento è stato espunto dal testo per evitare il rischio che aprisse la strada all’applicazione dell’art. 2106 c.c.30 La novità, rispetto al passato, riguarda dunque non le cause legittimanti il licenziamento31, bensì le sanzioni applicabili. L’indagine del giudice nei due casi ha per oggetto gli stessi elementi di fatto, ma deve rispondere a criteri diversi. Nell’analisi circa la legittimità del licenziamento, il giudice dovrà valutare se i fatti in questione integrano o meno giusta causa o giustificato motivo e opererà secondo le regole fin qui seguite dalla giurisprudenza, perché – come si diceva – i concetti di giusta causa e giustificato motivo sono rimasti immutati. Nell’indagine successiva, qualora il giudice accerti la illegittimità del licenziamento, i criteri guida sono inediti e stabiliti dalla nuova legge in modo analitico e tassativo. L’esito finale è stato compromissorio ma netto, circa la definizione delle ipotesi di reintegrazione che sono rimaste tali fino alla approvazione della legge: nel licenziamento disciplinare, la insussistenza del fatto contestato e un fatto rientrante fra le condotte punibili con la sanzione conservativa dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari applicabili; nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento; inoltre il caso del licenziamento discriminatorio o nullo per contrarietà a norme di legge, per cui la sanzione della nullità/reintegrazione è stata sempre accettata, e i casi di insussistenza dell’idoneità fisica o psichica posta a base del licenziamento e di periodo di comporto non scaduto. La scelta e la coerenza di tali ipotesi sono variamente apprezzate. Da più parti si è rilevato come esse rispondano a un tratto unificante, cioè quello della assoluta pretestuosità del licenziamento, o di ipotesi in cui il datore di lavoro ha “torto marcio”, come si è detto con linguaggio più colorito. La soluzione adottata è più vincolante per il giudice di quanto non sia quella tedesca, a conferma di una cautela o diffidenza del nostro sistema verso l’intervento giudiziale in questa materia, in realtà in ogni controversia di lavoro. Si può sintetizzare dicendo che l’ambito di discrezionalità del giudice nell’accertamento delle condizioni che legittimano il licenziamento, sia esso disciplinare o economico, resta ampio, ma né più né meno di quanto fosse stato finora. Viceversa il nuovo art. 18 fornisce un’indicazione precisa, circa i presupposti della sanzione applicabile. Nessuna discrezionalità è ipotizzabile e la sanzione da applicare è la reintegrazione se il fatto che ha determinato il licenziamento, disciplinare o economico, non sussiste o se rientra fra cause per cui la contrattazione collettiva prevede sanzioni conservative. Qui la verifica del giudice non è discrezionale, perché il fatto c’è o non c’è. La sanzione indennitaria, meno grave, si applica nelle altre ipotesi, in cui il giudice valuterà se il fatto, pur esistente, è tale da integrare o meno la causa legittimante il licenziamento, giusta causa o giustificato motivo. Nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo l’ultima mediazione governativa ha aggiunto l’aggettivo «manifesta» alla formula «insussistenza del fatto». Si tratta di un’aggiunta che anch’io (come altri) propendo per ritenere ridondante, perché il fatto sussiste o non sussiste32. Essa sembra essere stata introdotta per confermare, a fronte della particolare delicatezza del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che la reintegrazione ha un carattere di extrema ratio, cioè è possibile solo in presenza di una decisione datoriale palesemente infondata e pretestuosa33. Una questione interpretativa aperta circa l’ambito di discrezionalità del giudice in questo caso riguarda la indicazione inserita nel testo finale della legge, secondo cui, nel caso di manifesta insussistenza del fatto addotto a base del licenziamento il giudice «può» ordinare la reintegra, mentre quando il motivo del licenziamento disciplinare non sussiste o rientra in ipotesi previste come passibili di sanzioni conservative, la formula usata è diversa: il giudice «condanna» il datore alla reintegra. Nell’iter formativo della legge la differenza non è sfuggita e la scelta del termine «può» nel caso del licenziamento giustificato motivo oggettivo si è voluta mantenere, nonostante le resistenze manifestate da alcuni, con l’intento di ridurre ulteriormente l’area della reintegrazione, lasciando così un (ultimo) margine di discrezionalità al giudice per decidere anche in tali casi nel senso nel senso dell’indennizzo. Il duplice tipo di analisi coinvolto nei casi di licenziamento è destinato a influire sui comportamenti delle parti, prima e durante il processo. Per un verso assumerà maggior rilievo che in passato la specificazione del fatto che motiva il licenziamento. Inoltre, potranno adeguarsi le tecniche di difesa del lavoratore licenziato: ad es. è probabile che le domande formulate siano presentate in via graduata, partendo da quelle aventi ad oggetto la reintegrazione piena e inserendo in subordine le altre fino a quella relativa all’indennità risarcitoria in misura ridotta34.
Le valutazioni della legge possibili allo stato attuale sono evidentemente provvisorie. Dovranno misurarsi con le vicende applicative che definiranno i contenuti della law in action.
La sua evoluzione dipenderà non solo dalla giurisprudenza che sarà chiamata a intervenire su molte questioni, ma dalla contrattazione collettiva cui è affidato il compito di integrare o modificare le direttive di legge su diversi aspetti critici, più di quanto fosse nel disegno governativo originario che era stato criticato per eccesso di statalismo. In particolare va ricordato che le indicazioni del legislatore circa i livelli contrattuali competenti a intervenire sono diseguali. In qualche caso indicano la competenza del livello nazionale o “su delega” dei livelli decentrati – secondo le indicazioni dell’accordo interconfederale del 28.6.2011: così in tema di contratto a termine, art. 1, co. 9, lett. b) e h); di compenso per il contratto a progetto, art. 1, co. 23; in tema di appalti, art. 4, co. 32. In altri casi la legge rinvia ai contratti stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale senza specificare il livello: es. art. 1, co. 23, lett. g), sulla identificazione delle professionalità elevate cui non si applica la presunzione prevista per i contratti a progetto; art. 3, co. 4, sui fondi di solidarietà. In altri casi ancora si rinvia agli accordi aziendali ad es. per definire le forme di partecipazione (art. 4, co. 62); mentre per gli accordi sui prepensionamenti si rinvia agli accordi fra datori organizzazioni sindacali rappresentative a livello aziendale (art. 4, co. 1), una formula invero discutibile e pressoché unica. Va rilevato che tali indicazioni eterogenee convivono con quelle dell’art. 8 della l. 14.9.2011, n. 148, che non è stato abrogato. Nei casi citati in cui la l. n. 92/2012 si limita a rinviare ai contratti stipulati dai sindacati nazionali, senza ulteriori indicazioni, si deve ritenere che alle stesse parti spetti anche la scelta di decidere il livello cui intervenire, quello nazionale o, per loro decisione, quello decentrato. È la indicazione più rispettosa dell’autonomia collettiva e la più coerente con le altre indicazioni contenute nella l. n. 92/2012. Oltretutto queste sono conformi all’accordo interconfederale del 28.6.2011 che è ritenuto essenziale per la stabilità delle nostre relazioni industriali.
3.1 Un cantiere aperto
Quale che sia la valutazione sui singoli contenuti della riforma, è appropriato il giudizio che la definisce un “cantiere aperto”. Il buon funzionamento di un cantiere richiede che tutti gli operatori usino correttamente gli strumenti e gli istituti che vi operano. Non è stato così nelle ultime riforme e occorre invertire la tendenza. Sarà, inoltre, decisivo sia il contesto politico sia quello economico, come è stato per tutte le riforme del lavoro. Passata la contingenza eccezionale del governo “dei professori” che ha favorito un consenso bipartisan ancorché anomalo, gli assetti politici che ne seguiranno saranno decisivi anche per le prospettive del mercato del lavoro. Potranno aprire diverse alternative: miglioramenti e correzioni incrementali della riforma, in collaborazione con le parti sociali, come sarebbe auspicabile, ovvero ulteriori revisioni dell’assetto faticosamente raggiunto, come è stato negli ultimi anni. La situazione economica generale e dell’occupazione in specie ha una rilevanza diretta – c’è chi ritiene prevalente35 – su tutte le aree in cui è intervenuta la riforma. Un miglioramento del contesto economico agevolerà gli obiettivi perseguiti dal legislatore di promuovere la flessibilità “buona” e di contenere quella “cattiva”, superando i dualismi del nostro mercato del lavoro; inoltre potrebbe rendere più agevole l’uso degli ammortizzatori sociali e più efficace l’operare degli strumenti di politica attiva del lavoro. È stato così in altri paesi europei ove le condizioni di stabilità politica ed economica e gli interventi attivati dai governi, hanno favorito il successo delle riforme del lavoro approvate negli anni passati, in un periodo più facile dell’attuale per tutta l’Europa. Anche il nostro Paese deve unirsi in un impegno in tale direzione, se vuole mettere a frutto le indicazioni parziali di un legislatore dell’emergenza.
1 Fra i primi commenti Magnani, M.-Tiraboschi, M., a cura di, La nuova riforma del lavoro, Milano, 2012; Vallebona, A., La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012; Fezzi, M.-Scarpelli, F., a cura di, Guida alla riforma Fornero, in www.wikilabour.it; De Cesari, M.G.-Micardi, F., a cura di, La riforma del lavoro, Milano, 2012; Stern, P., a cura di, I nuovi contratti di lavoro, Rimini, 2012; AA. VV., La riforma del lavoro, in Guida normativa, luglio 2012; Carinci, F.-Miscione, M., a cura di, Commentario alla riforma Fornero, Milano, 2012; G. Pellacani, a cura di, Riforma del lavoro, Milano, 2012; alla legge, ancora in via di formazione, è dedicato in parte il congresso Aidlass su “Il diritto del lavoro al tempo della crisi”, Pisa, 7-9 giugno 2012, con relazioni di Leccese, V., Il diritto sindacale al tempo della crisi; Carinci, M.T., Il rapporto di lavoro al tempo della crisi; Gragnoli, E., Gli strumenti di tutela del reddito di fronte alla crisi finanziaria.
2 Giugni, G., I tecnici del diritto e la legge “malfatta”, in Pol. dir., 1970, 479 ss.
3 Guerrieri, P.-Pirrone, S.-De Novellis, F.-Vaciago, G.-Pinza, R.-Bordogna, L.-Biancardi, A.-Tronti, L.-Oliva, A., nella monografia AREL, Il decennio perduto, a cura di T. Treu e C. Dell’Aringa, Roma, 2012.
4 Cfr. OECD, Employment outlook, Paris, 2004 e 2009.
5 L’importanza di sistemi di monitoraggio è ben documentata da Martini, A.-Trivellato, U., Sono soldi ben spesi? Come e perché valutare l’efficacia delle politiche pubbliche, Bologna, 2011.
6 Le implicazioni di tali esperienze sono oggetto di amplissimo dibattito e di non poche controversie. Cfr. per tutti Roccella, M.-Treu, T., Diritto del lavoro nell’Unione Europea, VI ed., Padova, 2012, 188 ss.; Sciarra, S., Is flexicurity a European social policy, in URGE WP, n. 4, 2008; Ichino, P., La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei lavoratori, ora in Liber Amicorum, Marcello Pedrazzoli, Milano, 2012.
7 Il vero “precariato“ italiano che si aggiunge al lavoro temporaneo di natura fisiologica sta soprattutto nei rapporti di lavoro autonomo che di fatto nascondono lavoro dipendente. Dell’Aringa, C., La riforma del mercato del lavoro, in Magnani, M.-Tiraboschi, M., La nuova riforma del lavoro, cit.
8 Tale impostazione è sottesa anche alla relazione governativa presentata al Consiglio dei ministri del 23.3.2012, e ritorna con varianti in molti commenti: cfr. Tosi, P., L’improbabile equilibrio fra rigidità in entrata e flessibilità in uscita, in Argomenti dir. lav., 2012, 4-5, in corso di pubblicazione.
9 Pepe, J.M., Il sistema tedesco fra globalizzazione e mitbestimmug, in Quad. rass. sind., 2011, n. 1, 209 ss., sulle risposte del sistema tedesco di cogestione alla crisi economica.
10 Ferraro, G., Ammortizzatori sociali e licenziamenti collettivi nella riforma del mercato del lavoro, in WP CSDLE Massimo D’Antona.IT – 143/2012, 3; Sigillò Massara, G., Le tutele previdenziali in costanza di rapporto di lavoro, in Vallebona, A., a cura di, La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012, 83 ss.; Spattini, S.-Tiraboschi, M.-Tscholl, J., Il nuovo sistema di ammortizzatori sociali, in Magnani, M.-Tiraboschi, M., La nuova riforma, cit., 341 ss.
11 Magnani, M., Genesi e portata di una riforma del lavoro, in Magnani, M.-Tiraboschi, M., La nuova riforma, cit., 6.
12 Magnani, M., Genesi e portata, cit. 6.
13 Pirrone, S.-Sestito, P., Ai disoccupati ci pensa un’Agenzia con sussidi e politiche attive, in Dell’Aringa, C.-Treu, T., a cura di, Le riforme che mancano, Bologna, 2010, 98.
14 La natura incerta di questa indennità lascia aperta la questione del loro trattamento contributivo e fiscale, come già rilevato dalla Commissione bilancio del Senato; Carminati, E.-Facello, S.-Tiraboschi, M., Le linee guida sui tirocini formativi e di orientamento, in Magnani, M.-Tiraboschi M., La nuova riforma, cit., 128.
15 Sestito, P., La riforma Fornero, in Magnani M.-Tiraboschi, M., La nuova riforma, cit., 5.
16 Falasca, G., Nelle imprese maggiori si accettano più apprendisti, in De Cesari, M.C.-Micardi, F., La riforma del lavoro, cit., 24; Tiraboschi, M., L’apprendistato come ipotesi di contratto di lavoro prevalente, in Magnani, M.-Tiraboschi, M., La nuova riforma, cit., 117 ss.; Carinci, F., E tu lavorerai come apprendista (l’apprendistato da contratto “speciale” a contratto “quasi-unico”), in WP CSDLE Massimo D’Antona.IT – 145/2012, 2.
17 Si è detto che essi ridurrebbero la libertà di licenziare ad nutum alla fine del periodo di apprendistato, Vallebona, A., op. cit., 27; Carinci, F., op. cit., 2.
18 In senso contrario si è espressa la circ. 18.7.2012, n. 18 del Ministero del lavoro e della previdenza sociale.
19 Così Vallebona, A., op. cit., 9; Mimmo, G., Liberalizzato dal legislatore il primo contratto a termine, in AA.VV, La riforma del lavoro, cit., 17. In senso contrario Falasca, G., Sul contratto a termine. La colpa della precarietà, in De Cesari, M.-Micardi, F., La riforma del lavoro, cit., 2.
20 Vallebona, A., op. cit., 33, la considera emblematica di una «folle crociata contro il lavoro autonomo».
21 Con tale scelta fa ingresso per la prima volta nel diritto del lavoro la figura del lavoro economicamente dipendente. Il dibattito sul tema è risalente nel tempo e tuttora controverso. V. Magnani, M., Genesi e perdita, in Magnani, M.-Tiraboschi, M., La nuova riforma, cit., 9; Treu, T., Lo statuto dei lavoratori autonomi, in Dir. rel. ind., 2010, 603 ss.; e da ultimo, criticamente, Razzolini, O., Lavoro economicamente dipendente e requisiti quantitativi nei progetti di legge nazionali e nell’ordinamento spagnolo, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2011, 63 ss.
22 Così Bubola, G.- Pasquini, F.-Venturi, D., Le partite Iva, in Magnani, M.-Tiraboschi, M., La nuova riforma, cit., 173; diversamente Vallebona, A., op. cit., 34.
23 Marazza, M., op. cit., 34 ss.
24 Circ. 14.6.2006, n. 17 del Ministero del lavoro e della previdenza sociale.
25 Magnani, M., Genesi e portata, cit., 8.
26 Marazza, M., op. cit., 41; Vallebona, A., op. cit., 31; Bubola, G.-Pasquini, F.-Venturi, D., op. cit., 55.
27 Per definire il concetto di retribuzione minima sarà rilevante la nota giurisprudenza dell’art. 36 Cost. che fa tipicamente riferimento ai minimi tabellari e la contingenza e non alle ultime voci retributive dirette a indirette.
28 Treu, T., Diritto del lavoro: realtà e possibilità, in Argomenti dir. lav., 2000, 467 ss. e Id, Statuto dei lavori autonomi, in Dir. rel. ind., 2010, 603 ss.
29 Il fatto che nel nuovo art. 18 rimanga la possibilità della reintegrazione e quindi il suo “effetto deterrenza” è il motivo per cui si è ritenuto che la tutela del lavoratore sia sufficiente per consentire al lavoratore di esercitare i suoi diritti senza temere di essere licenziato e quindi la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto: Maresca, A., Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo, in Riv. it. dir. lav., I, 2012, 454.
30 Questo rischio è stato evidenziato nel corso dell’iter parlamentare soprattutto da Maresca, A., Il Nuovo regime sanzionatorio, cit., 436.
31 Vallebona, A., op. cit., 56.
32 Maresca, A., Il nuovo regime sanzionatorio, cit., 436 ss.; Ferraresi, M., Il licenziamento per motivi oggettivi, in Magnani M.-Tiraboschi M., La nuova riforma, cit., 264.
33 A avviso di chi scrive, sono forzate le opinioni di chi cerca di ricondurre tutti i casi di licenziamento ingiustificato alla categoria del licenziamento discriminatorio (Carinci, M. T., Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, cit.,). Esse non tengono in nessun conto la scelta del legislatore che si è occupato solo delle sanzioni applicabili e ha lasciato immutate le fattispecie costitutive del licenziamento. Inoltre trascurano che la fattispecie del licenziamento discriminatorio, come degli altri atti discriminatori, è in tutti gli ordinamenti identificata con tratti propri, consistenti non nella mancanza di giustificazioni bensì nella contrarietà dell’atto a specifici divieti normativi tassativamente stabiliti (anche se nel tempo allargatisi ad ambiti nuovi).
34 Maresca, A., Il nuovo regime sanzionatorio, cit., 448 ss.
35 Dell’Aringa, C., La riforma del mercato del lavoro, cit., 46.