Puglia
Ai tempi di D. con il nome di P. o Apulia (v.) veniva indicato quel corno d'Ausonia che s'imborga / di Bari e di Gaeta e di Catona, / da ove Tronto e Verde in mare sgorga (Pd VIII 61-63), cioè tutto il territorio corrispondente all'Italia meridionale.
Si estendeva dunque sia sul lato destro sia su quello sinistro d'Italia (Ve I X 7), era stato nell'antichità teatro delle guerre sannitiche e puniche (If XXVIII 7-13) e nell'età di D. costituiva la parte continentale del regno di Sicilia (quel di Carlo, Pg V 69) divenuto regno di Napoli dopo la guerra del Vespro (Pd VIII 73-75), malgovernato dai discendenti di Carlo I d'Angiò (onde Puglia... già si dole, Pg VII 126).
La P., abitata fin dal paleolitico, intorno all'VIII secolo a.C. fu colonizzata dai Greci che favorirono lo sviluppo di centri importanti come Taranto e quindi Gallipoli, Brindisi, Otranto. Roma, dopo le guerre sannitiche e pirriche, conquistata Taranto (272 a.C.), confederò sotto il suo dominio le città apule. Soprattutto durante le guerre puniche (Mn II IV 9, IX 18) e in particolare dopo Canne (Cv IV V 19, If XXVIII 10-12) e nell'arco della guerra sociale non mancarono tentativi di ribellione, ma Roma riaffermò decisamente il suo dominio sulla regione che acquistò floridezza, grazie all'espansione romana d'Oriente. Tre strade principali, l'Appia, la Traiana e una terza, continuazione della via del Piceno, attraversando tutti i centri maggiori, la collegavano direttamente a Roma; Brindisi (Brandizio, in Pg III 27) divenne un porto importante, tutta la regione fu latinizzata acquistando prosperità economica. Il cristianesimo si propagò tra il III e il V secolo e favorì la nascita di diversi vescovati. Caduto l'Impero di Occidente, la P. conobbe la lunga contesa fra gl'imperatori bizantini, i Longobardi e i Franchi e l'insidia saracena. La guerra tra Goti e Bizantini (535-553), sotto l'impero di Giustiniano che ‛ commendò l'armi ' a Belisario (Pd VI 25), provocò la distruzione delle città e la desolazione delle campagne; la popolazione, inoltre, fu esautorata dall'esoso e rapace fiscalismo bizantino. I Longobardi, incorporando al ducato di Benevento la parte settentrionale della P., spezzarono l'unità della regione, sottratta quasi totalmente ai Bizantini (662-677). La P. visse allora secoli di estrema decadenza accentuatasi con la conquista franca di Lucera (802) e quella saracena di Bari (840) e di Taranto (842). Si susseguirono saccheggi e assedi e fu vano pure l'intervento dell'imperatore Ludovico II contro gl'invasori. Frattanto Bari, barcamenandosi abilmente fra Greci, Longobardi e Franchi, riusciva ad acquistare importanza, mentre le altre città miravano a un'autonoma organizzazione civile e militare, scendendo contro gl'invasori in aperta rivolta, che fu più che mai aspra con Melo da Bari (1009-1012). Fu in quest'occasione che i Normanni (If XXVIII 13-14), appoggiando la rivolta locale contro i catapani bizantini, s'inserirono per la prima volta nelle vicende della P., che in breve tempo entrava nell'orbita della nuova monarchia normanna, nonostante i tentativi di ribellione di alcuni centri. Dopo l'impresa di Sicilia (1128) Ruggero era riconosciuto duca di P. dal papa e, proclamato supremo signore della regione nella curia generale di Melfi (1129), veniva riconosciuto anche da Bari che giurava nel 1132 il patto di concordia. Accadeva così che mentre le città dell'Italia settentrionale acquistavano potenza e ricchezza, quelle dell'Italia meridionale entravano in una lenta agonia, sebbene esse, e in particolare Bari, che subì una parziale distruzione, non accettassero passivamente il dominio straniero, anzi frequentemente tentassero di sottrarsi al giogo normanno, sia pure invano nell'impari lotta.
Sotto Guglielmo II, tuttavia, la P. conobbe un periodo di prosperità (Pd XX 62); ripresero i commerci con l'Oriente in concorrenza con le città marinare italiane, a eccezione di Venezia con la quale Bari aveva stretto un trattato di commercio (1139), poi ampliato in alleanza politica (1175). Anche il re cercava di non opprimere la regione, anzi le concesse sgravi fiscali, franchigie, privilegi e favorì l'arcivescovo di Bari contro quello di Cattaro. La difficile successione normanna determinò nella P. uno stato di crisi alimentato dagli odi e dalle rivalità fra le varie cittadine e solo sotto il dominio dello svevo Federico II la P. ebbe una certa tranquillità, tutelata dall'ordine amministrativo, dalla pace con l'estero, dalla ripresa dei commerci. La regione si arricchì di cattedrali e di monumenti mentre rifioriva la vita culturale. Morto Federico e caduti Manfredi a Benevento - e a questo proposito D. fa un riferimento molto preciso alla defezione di alcuni baroni meridionali: a Ceperan, là dove fu bugiardo / ciascun Pugliese (If XXVIII 16-17) - e Corradino a Tagliacozzo (vv. 17-18) la P. passò non senza una profonda crisi agli Angioini che in un primo tempo continuarono la politica di Federico. Tuttavia ben presto iniziava un lungo periodo di decadenza; il trasferimento a Napoli della capitale del regno e la debolezza stessa della monarchia angioina favorirono le lotte feudali; Genovesi e Fiorentini, grazie ai congrui prestiti che potevano offrire al re Carlo I, ebbero il monopolio dei commerci più importanti. Carlo II (Pd XX 63) riprese la politica di amicizia con Venezia, ma questa ora mirava a impossessarsi di alcuni centri pugliesi per cui la reazione del popolo, già manifesta sotto il regno di Roberto, divenne aperta rivolta alla morte di Giovanna I
In If XXVIII 7-18 D. ha rapidamente sintetizzato le tappe fondamentali della storia della fortunata terra / di Puglia (v. 9). La regione, dopo esser stata teatro di guerre romane e della conquista normanna, aveva già visto, quando D. nasceva, concludersi la parabola del dominio svevo; Federico II era morto proprio in P., a Castel di Fiorentino, nel 1250, e l'eco delle sue gesta non si era spenta negli anni della maturità di D., durante i quali la P. ‛ si doleva ' del malgoverno angioino. Riferendosi alla storia contemporanea della regione pugliese, D. non tralascia occasione di condannare gli abusi e gli arbitri del governo degli odiati angioini, venuti dalla Francia a causare la rovina dell'Italia. Infatti D., convinto assertore della teoria imperialistica, non poteva di certo condividere la teoria e la pratica del governo angioino, quale Roberto d'Angiò nella sua polemica andava propugnando e che D. vivacemente contrastava.
Il nome della regione ricorre anche in Fiore XLIX 3: cfr. PUGLIESE.
Bibl. - J. Gay, L'Italie méridionale et l'empire byzantin depuis l'avenément de Basile I jusqu'à la prise de Bari par les normands 867-1071, Parigi 1904 (traduz. ital. Firenze 1916); F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, 2 voll., Parigi 1907; G.M. Monti, La dottrina anti-imperiale degli Angioini di Napoli, in Studi di Storia e di Diritto in onore di A. Solmi, II, Milano 1941, 11-54; E.G. Léonard, Les Angevins de Naples, Parigi 1954 (traduz. ital., Gli Angioini di Napoli, Varese 1967).
Fortuna di D. nell'attuale Puglia. - La presenza di D. in P. non è largamente documentata. Lo Zingarelli nel suo articolo D. e la P. (" Giorn. d. " VIII [1900] 385-407) ne sottolinea la mancanza: " Manca un articolo su Dante e la Puglia ". Ne echeggia la voce Giuseppe Petraglione, precisando: " Nel Salento... gli studi danteschi non hanno mai prosperato " (in " Rivista Abruzzese " VI-VII [1900] 331). Eppure non mancavano certe tendenze sotterranee o disposizioni di clima o di carattere, che possono essere considerate come presupposti di notevole rilevanza storica e psicologica. Valgano almeno la grande tradizione ghibellina e federiciana espressa eloquentemente da Giovanni di Otranto e Giorgio di Gallipoli, che sopravanza l'adesione angioina di Matteo Spinelli, e, dopo sei secoli, il guelfismo de Il Corradino di Antonio Caraccio; valgano le definite personalità in lingua volgare del Duecento pugliese, l'enorme mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto. Nel settore più strettamente dantesco scarni e isolati o generici sono i temi che possono risalire a D. o a personaggi cari al poeta o legati comunque al clima culturale e spirituale che gli fu proprio. Nel teatro, dalla Francesca da Rimini di Francesco Saverio Mercadante alla Francesca di Giuseppe Lillo; nell'arte, dalle opere La sfida di Marsia con Apollo, Il trittico sull'origine dei Guelfi e dei Ghibellini, I funerali di Buondelmonte (con un poco noto ritratto di D.) di Saverio Altamura, al disegno, grottesco e caricaturale, Esposizione marittima di Napoli visitata da Virgilio e D. di Antonio Manganaro, al quadro Castel del Monte di Antonio Bolognese. Nella letteratura dal dramma Pia de' Tolomei di Giacinto Bianchi al poema sull'Inferno Purgatorio e Paradiso di Salvatore Fenicia, ai versi Quadriglia di Giordano de' Bianchi; oltre a note sparse, discorsi d'occasione, dissertazioni scolastiche in gran parte dell'Ottocento. D'altra parte se non è difficile, certo è improbo cercar tracce di D. in poesie, poemi drammi dal XVI secolo in poi. Presenze, più o meno valide, possono individuarsi nel " canzoniere " galantinese (in gran parte inedito), costruito in lode di Maria Scanderbeg a opera di letterati della casa Vernaleone (particolarmente Ottaviano e Leonarda), a metà del sec. XVI.
Nel più grande umanista pugliese, Antonio de Ferrariis il Galateo, le presenze certe di D. sono piuttosto lievi (v. A. Vallone, Correnti, pp. 8-9). Né v'è segno di consenso a D. nel leccese fra Roberto Caracciolo, che è tra i più grandi predicatori del Quattrocento, il quale spesso sfiora, naturalmente nella doviziosa esemplificazione, temi e personaggi danteschi. Sorge, dunque, una domanda: quali le cause generali di questo lungo silenzio dinanzi a un testo che largamente veniva studiato ed elogiato in Toscana, in Emilia-Romagna, nel Lazio, in Lombardia e altrove? Cercare le cause di una vicenda culturale è sempre rischioso, ingrato o per dir meglio improprio. Certamente avrà influito l'accentramento, depauperante sul piano culturale e sociale, delle province-frontiera in Napoli-capitale; ma anche, e forse più specificamente, la mancanza di università e di centri di cultura (che tali certo non erano le molte arcadiche accademie di provincia), la riverenza a temi e atteggiamenti inculcati per tradizione dal paternalismo della Chiesa (anche quando in Roma stessa si discutevano, almeno). Dire, e lo ha detto purtroppo N. Zingarelli, che i Pugliesi " non cercano e ammirano Dante per angusti principi regionali " significa costringere complesse ragioni storiche e culturali entro l'alveo di una vicenda mediocre e privata. Con l'Ottocento, però, la P. si scuote, avanza premesse e condizioni. È allora che si estende e s'impone il culto di D., si sente la voce del poeta, si studiano le sue opere, s'indaga il suo pensiero. L'Ottocento pugliese (ma anche calabrese, lucano e siciliano) è legato ancora, e in maniera salda e tenace, politicamente e culturalmente, a Napoli. È la grande scuola napoletana che domina. Puoit, De Sanctis, Settembrini sono i maestri; dietro, l'autorità indiscussa di Vico. Non vi sono altre vie, né altri insegnamenti, non altre voci, né traccia evidente di movimenti d'idee e di pensiero. Le grandi correnti ‛ nazionali ' dantesche di guelfismo e ghibellinismo non hanno né rappresentanti, né voci autorevoli; giungono confuse (e non certo per mancanza di vigore e di polemica) e s'insaporano nel moderatismo napoletano.
Dalla scuola di Puoti stesso escono sia gl'interpreti in chiave puristico-cattolica, sia quelli di orientamento laico-politico. Al Baldacchini sembrava strano come dal Puoti potessero avere origine F. De Sanctis e Vito Fornari. Della prima ‛ corrente ', oltre al Fornari, che è certo l'esponente maggiore in P. di un'interpretazione cattolica di D., possiamo ricordare Gualberto De Marzo, Leonardo Forleo, A.M. Forleo, pur con le sue stranissime ricerche di sottofondi misteriosi, Oronzo Quarta, giurista; e altri. Dell'altra ‛ corrente ', ghibellina e laica, possiamo ricordare, con vari atteggiamenti, Saverio Baldacchini, che funge quasi da ideale tramite tra interpretazione cattolica e laica di D., Giuseppe De Leonardis, in polemica netta e perentoria col Fognari, e, seppure in modi più confusi e generici, Michele Baldacchini, Francesco Muscogiuri, Francesco Prudenzano, Alessandro Massimo Cavallo. In tutti è facile cogliere osservazioni sul realismo come modo d'arte " popolare e nazionale ", come altre sul " movimento progressivo della scienza prodotto dalle istituzioni religiose e sociali " o sulla poesia " come concitazione del genio ", sulla " filosofia del bello ", e così via. Quel che si poteva costruire in questo settore, col dominio della difforme materia o almeno con l'alto fervore di mente aperta e operosa, lo fa intravedere Bonaventura Mazzarella nelle poche pagine dedicate a D. nei suoi volumi Della critica.
L'estremo limite dello schieramento laico della critica dantesca pugliese è rappresentato da Giovanni Bovio. Qui De Sanctis è accoppiato a Giuseppe Ferrari, i soli critici che " intuirono questa fusione mirabile del pensatore coll'artista ". In definitiva, dinanzi ai guelfi e ghibellini di P., alle due grandi ‛ correnti ' letterarie d'interpretazione cattolica e laica che partono entrambe da Vico e dalla scuola napoletana, ci sembra utile fissare i seguenti punti-temi comuni: predominio del concetto vichiano di un D. solo e giustiziere, posto tra il mondo dell'oscuro (Medioevo) e quello della luce (età moderna); intendimento della Commedia più come somma di motivi dettati da sovrana dottrina che come soluzione di fermenti poetici in unità; rilievo del fondo cattolico del mondo dantesco, con la differenza che nel Fornari esso acquieta e convoglia temi e idee sorti nel tempo per tradizione tomistica, nel gruppo laico, De Leonardis-S. Baldacchini, invece, esso si pone a caratteristica personale di una coscienza pura e rigida in urto con la società attorno; attenzione infine, più esterna che scientifica, agli elementi formali dell'arte di D., che scioglie, in annotazioni di grammatica, il rigore, il timbro e la voce genuina del poeta. È una specie di pulizia formale che, certo, parte dal Puoti (o, a dar sfondo, dal garbato dilettantismo settecentesco di Baldassarre Papadia) e giunge, come limite estremo e parodistico, alle amenità di Giuseppe Ricciardi.
È dopo l'unità e col sec. XX che l'interpretazione di D. si libera di tradizioni incontrollate, di miti e numi, di derivazioni e accostamenti dilettantistici, di sottigliezze ermeneutiche. Le università di Firenze, Bologna, Torino (oltre quella di Napoli), cui accedono Pugliesi come studenti e docenti, rinsanguano e rimescolano la vita culturale della vecchia provincia-frontiera. Netto si fa ilétaglio tra studiosi locali e ricercatori ‛ laureati '. Né è raro il caso che giovani docenti, giunti in provincia, continuino ricerche e insegnamento secondo metodo e natura acquistati altrove. S'imposta così la migliore scuola pugliese dell'età nostra. Gli studi storici da Gaetano Salvemini a Michelangelo Schipa e particolarmente a Romolo Caggese forniscono nuove prospettive al tempo di D. e a figure della sua opera. Giacomo Lacaita ci dà, in ottima edizione, il Comentum di Benvenuto. Francesco Macrì-Leone, in pochi anni fervidi di studi, con note sul torinese " Giornale Storico della Letteratura Italiana " e saggi su La Vita di D. scritta da G. Boccaccio e su La bucolica latina nella letteratura italiana del sec. XIX (1889) è l'espressione tipica del rapido e intenso processo di osmosi che è in atto nella cultura italiana, dantesca in particolare, sul limite del secolo. Dopo di lui Achille Pellizzari porterà sulle cattedre dei licei di P. o su quella universitaria di Genova una fervida educazione storica perennemente ostile, nel tempo, al crocianesimo. Giuseppe Gabrieli, in varie occasioni, lungo trent'anni di Novecento, sottopone a vaglio un tema nuovo della critica dantesca: D. e l'Oriente. Né è senza significato che lo studioso pugliese di D. più significativo, N. Zingarelli (v.), abbia studiato a Napoli e ivi insegnato negli anni di formazione e poi per trent'anni nelle università di Palermo e Milano. Si capisce così che si è passati dalle interpretazioni polemiche o settarie, in armonia a più moderni indirizzi critici, a più tranquille e profonde acque, ove la sintesi storica segue all'indagine, l'edizione del testo cade sotto il controllo della filologia, la ‛ lettura ' si spoglia di ogni empirismo.
Bibl. - N. Zingarelli, D. e la P., in " Giorn. d. " VIII (1900) 385-407; F. Torraca, Il regno di Sicilia nelle opere di D. in Studi danteschi, Napoli 1912, 347-381; C. Zacchetti, L'Italia meridionale nel pensiero di D., Napoli s.d.; A. Masciullo, Studiosi di D. nel Salento, Lecce 1922; A. Vallone, Correnti letterarie e studiosi di D. in P., Foggia 1966. Per la parte linguistica, v. APULIA.