Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’opera italiana a cavallo fra Otto e Novecento trova in Puccini la sua figura di spicco, contornata da compositori di più limitata fortuna, autori di un solo capolavoro duraturo, che incarnano in musica alcuni aspetti del verismo letterario in auge. Il genere si trasforma, inseguendo forme più libere e un melodizzare sempre più attento alla parola, spesso scavalcato dall’orchestra. A ciò farà seguito fra le due guerre una nuova generazione di autori che, introducendo nuove istanze sperimentali, decretano di fatto la fine dell’opera italiana come prodotto di ampia popolarità e diffusione.
Giuseppe Giacosa e Luigi llica
L’ingresso di Mimì
La Bohème
RODOLFO Chi è là?
MIMÌ (di fuori) Scusi.
RODOLFO Una donna!
MIMÌ Di grazia, mi si è spento
il lume.
RODOLFO (corre ad aprire) Ecco.
MIMÌ (sull’uscio, con un lume spento in mano ed una chiave) Vorrebbe...?
RODOLFO S’accomodi un momento.
MIMÌ Non occorre.
RODOLFO (insistendo) La prego, entri.
in Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, a cura di G. Gronda e P. Fabbri, Milano, Mondadori, 1997
Gli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento sono caratterizzati dalla spasmodica ricerca di un compositore d’opera italiano che possa raccogliere l’eredità di Giuseppe Verdi, sostituendone al pari livello la posizione di spicco su scala internazionale. L’editore Ricordi, già editore di Verdi, punta tutto su Giacomo Puccini (1858-1924), mentre il suo diretto rivale, l’editore Sonzogno, si assicura una serie di compositori non meno promettenti, che insieme a Puccini costituiscono la cosiddetta Giovane Scuola: Ruggero Leoncavallo (1857-1919), Pietro Mascagni (1863-1945), Francesco Cilea (1866-1950), Umberto Giordano (1867-1948). A tutti arride una buona dose di successo, perlopiù abbastanza precoce, ma solo Puccini riesce a conquistare opera dopo opera il favore del pubblico (non sempre della critica), principalmente con Manon Lescaut (1893), La Bohème (1896), Tosca (1900), Madama Butterfly (1904), La fanciulla del West (1910) e l’incompiuta Turandot (1926). I suoi colleghi al contrario azzeccano un solo titolo destinato a grande popolarità tuttora perdurante, senza mai più riuscire a ripetere l’exploit: e sono Cavalleria rusticana (1890) per Mascagni, Pagliacci (1892) per Leoncavallo, Andrea Chénier (1896) per Giordano, Adriana Lecouvreur (1902) per Cilea.
A fine Ottocento l’argomento del giorno fra i letterati è il concetto di “verismo”, su cui si disquisisce anche in ambito musicale a seguito del successo della Carmen (1875) di Georges Bizet, rappresentata in Italia a partire dal 1879. Il legame estetico fra la nuova generazione di compositori e il verismo letterario viene dato per scontato nel momento in cui Cavalleria rusticana (esemplata sull’omonimo dramma di Giovanni Verga) s’impone sui palcoscenici di tutto il mondo con una veemenza senza precedenti. Dopo decenni di melodramma romantico interessato ai grandi drammi storici, alle gesta di eroi tutti d’un pezzo ed eroine immacolate, deve apparire del tutto nuovo l’intento di raffigurare a forti tinte la tranche de vie dei bassifondi, e le passioni scomposte di personaggi umili, tratti alla rovina da pulsioni erotiche irrefrenate. In realtà, dopo una manciata di lavori aderenti a questo spirito (Cavalleria rusticana e Pagliacci su tutti), il teatro musicale italiano dimostra di continuare a preferire ambientazioni lontane dalla realtà contingente, sia in senso storico (il Settecento di Manon Lescaut, di Andrea Chénier o di Adriana Lecouvreur), sia in senso geografico, sulla scia dell’esotismo alla moda (la giapponese Madama Butterfly, la cinese Turandot, l’americana Fanciulla del West). Ciò che di veristico rimane è piuttosto una certa concezione della vita dominata da destini ineluttabili, in cui l’amore non ricopre più il ruolo di sublimazione della virtù, ma di attrazione primitiva e nefasta: e sono drammi elementari, di breve gittata, in cui – sulla scia di Carmen – la donna si fa femme fatale e il tenore da eroe diviene vittima, mentre il dramma precipita (questo sì con ritmo altamente realistico) di fronte alla morte prorompente, senza alcuna intermediazione consolatoria della musica (vedi l’accoltellamento finale in Pagliacci o il suicidio di Tosca).
Abbandonate le “forme musicali chiuse” già dall’ultimo Verdi, le nuove partiture inseguono una concisione e una discorsività che vieppiù si avvicinano ai dialoghi del teatro parlato: per Puccini si parlerà a buon diritto di “opera di conversazione”, indicando con ciò la scioltezza d’intere scene come quella in Bohème che s’apre sul primo ingresso di Mimì, condotta con ritmi – diremmo oggi – assolutamente cinematografici. Certo, il pezzo assolo continuerà a sussistere, ma si tratterà il più delle volte di una sorta di monologo (modellato anch’esso sul monologo del grande attore), piuttosto che di una effusione lirica fuori dal tempo, com’era lo squarcio psicologico dell’aria romantica, del tutto irrealistica: ed ecco il “Te Deum” e il “Vissi d’arte” di Tosca, l’“Improvviso” di Andrea Chénier, lo stesso “Prologo” di Pagliacci, nonché tanti brani utilizzati con funzione di autopresentazione (“Mi chiamano Mimì, | ma il mio nome è Lucia” in Bohème, “Io son l’umile ancella | del genio creatore” in Adriana Lecouvreur).
L’arcata melodica rimane comunque perlopiù caratterizzata da campate brevi, magari fulminanti e come tali memorabili, ma sganciate dalle rigide squadrature che avevano dominato nelle epoche precedenti: e sono espansioni liriche frammentarie, fluttuanti, spesso destinate a rimanere “aperte” (le melodie “stanche” del Puccini meno popolare del Trittico, i tre atti unici del 1918, altamente contrastanti per soggetto: Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi), sono acmi melodici ed emotivi fugaci quanto inattesi, che possono arrivare a rasentare il grido. A dare il senso di continuità alla narrazione musicale è allora più spesso l’orchestra, densa sul modello wagneriano, timbricamente suadente a imitazione delle esperienze francesi, attivissima nel doppio compito di raddoppiare la voce con funzione enfatica (perorazione divenuta celeberrima, il “Vincerò!” di Turandot) o di sostenerne frasi frammentarie, scarne, ridotte talvolta a un semplice “martellato” (l’avvio di “E lucean le stelle” in Tosca, di “Che gelida manina” in Bohème), che si susseguono irregolarmente sull’onda del dramma: gran parte della Fanciulla del West è di fatto costruita come una colonna sonora strumentale a dialoghi sempre più modellati sul parlato.
Un certo senso di unitarietà proviene anche dalla riformulazione del concetto di Leitmotiv, che perde la marca rigorosamente simbolica attribuitagli da Wagner, per divenire con Puccini e gli altri (sull’esempio di Massenet) una sorta di tinta distintiva della singola opera: disinteressato alla referenzialità stretta (il tema che rimanda inequivocabilmente a quel personaggio o a quel concetto), il gioco delle reminiscenze assume piuttosto una funzione emotiva, d’orientamento affettivo (già dal primo ascolto lo spettatore, ripetutamente avvolto da temi presto memorizzati, si sente così compartecipe del dramma).
A questo genere di teatro musicale, che come scopo ultimo continua pur sempre a inseguire il consenso del pubblico (quantunque non sempre raggiunto, come si diceva), si oppone una nuova infornata di compositori accomunati anagraficamente dalla nascita nel penultimo decennio dell’Ottocento. Opponendosi alla “commercialità” del teatro pucciniano (con il sostegno critico di un acidissimo pamphlet di Fausto Torrefranca che nel 1912 si scaglia contro la popolarità dell’“opera internazionale”), la “generazione dell’Ottanta” persegue la strada di uno sperimentalismo fino ad allora del tutto sconosciuto all’estetica del melodramma italiano e che non può condurre che a risultati tanto sterili quanto, sul piano poietico, di inedito interesse. Dal punto di vista strettamente cronologico, il teatro musicale d’inizio Novecento non coincide dunque con gli esiti tardo-ottocenteschi della scuola verista, che pur monopolizzano i palcoscenici per almeno vent’anni, ma con la reazione ad essi.
Fra i suoi artefici, Ildebrando Pizzetti (1880-1968) s’impegna a superare il tradizionale concetto di canto operistico vocalmente spiegato, ideando un melodizzare scarno, austero, privato d’ogni edonismo sonoro. Il canto cede così il passo alla parola, divenendo mera declamazione intonata, perfettamente in linea con gli ideali di chi, con Fedra (1915), ha offerto a Pizzetti l’occasione per portare a compimento siffatto progetto: il “vate” Gabriele d’Annunzio, che nonostante i tentativi intrapresi con tutti i maggiori compositori italiani dell’epoca, solo in lui trova chi sia disposto a recedere di fronte alla musicalità congenita dei suoi versi, votati a un estetismo simbolista del tutto estraneo alla solare melodia italianeggiante.
Su un fronte differente, ma non meno sperimentale, si colloca l’esperienza di Gian Francesco Malipiero (1882-1973), che dell’opera italiana intacca la tradizione drammaturgica, piuttosto che la tradizione vocale, privandola del suo carattere narrativo: una partitura come Sette canzoni (1920) evidenzia sin nel titolo una costruzione “a pannelli” isolati, la giustapposizione di scene statiche cui è negata la possibilità di uno sviluppo drammatico, così come nel linguaggio compositivo di Malipiero è assente il concetto stesso di sviluppo tematico.
Fra gli esponenti della “generazione dell’Ottanta”, solo Ottorino Respighi (1879-1936) ha proposto in definitiva esempi di opere teatrali concepite come diretta prosecuzione della tradizione precedente (Belfagor, 1922; Maria Egiziaca, 1932; La fiamma, 1934), senza riuscire tuttavia a conquistare una collocazione stabile e duratura in seno al repertorio più comune.