TERENZIO AFRO, Publio
Poeta comico romano (195/190-159 a.C.), T. fu uno degli autori classici più apprezzati nel Medio Evo, modello per eccellenza della poesia comica, opposto e complementare rispetto alla poesia tragica rappresentata da Virgilio (70-19 a.C.), al quale venne associato a partire dal sec. 4° insieme ai prosatori Sallustio (ca. 86-35 a.C.) e Cicerone (106-43 a.C.) nell'immagine della 'quadriga' letteraria coniata da Arusiano Messio.
La riscoperta delle commedie, delle quali rimane un unico esemplare tardoantico privo di immagini, il Codex Bembinus (Roma, BAV, Vat. lat. 3226), avvenne nell'ambito dell'imponente fenomeno di recupero e trasmissione di testi classici che caratterizzò la prima età carolingia: un codice di T., forse illustrato (Villa, 1984, p. 2), figurava già alla fine del sec. 8° nel catalogo (Berlino, Staatsbibl., Diez B. 66, pp. 218-219) individuato da Bischoff (1981) come pertinente alla biblioteca di Carlo Magno. Risale all'825 ca. la più antica copia illustrata delle commedie (Roma, BAV, Vat. lat. 3868), esemplata ad Aquisgrana presso la corte di Ludovico il Pio (814-840) da un lussuoso codice romano degli inizi del sec. 5° oggi perduto, corredato da un ciclo di immagini che probabilmente costituiva la prima formulazione iconografica delle opere di T., basata non sull'esperienza diretta delle rappresentazioni sceniche delle commedie, cessate ormai da tempo, ma sulla scorta delle conoscenze antiquarie dell'artista (Wright, 1993; 1996, p. 170). L'organizzazione del manoscritto tardoantico, che doveva ospitare un ritratto dell'autore ad apertura di libro, frontespizi con scaffali contenenti le maschere delle sei commedie, più un cospicuo numero di illustrazioni (ca. centocinquanta) a introduzione delle singole scene, con i personaggi disposti generalmente in ordine di apparizione e identificati da iscrizioni, venne sostanzialmente conservata in questa e nelle altre tre copie carolinge illustrate, realizzate a Corbie intorno alla metà del sec. 9° (Parigi, BN, lat. 7900), a Reims verso la fine dello stesso secolo (Parigi, BN, lat. 7899) e di nuovo a Reims o in un altro centro della Francia settentrionale nella prima metà del sec. 10° (Milano, Bibl. Ambrosiana, S.P.4 bis, già H.75 inf.), prima che si perdessero le tracce del codice tardoantico. Il Terenzio vaticano (Roma, BAV, Vat. lat. 3868) costituisce la più fedele di queste quattro copie; alla sua realizzazione concorsero tre miniatori, il più dotato dei quali, Adelricus, si distingue per l'abilità con la quale riprodusse le caratteristiche salienti dell'originale del sec. 5°, quali il modellato pittorico delle figure e il senso ampio dello spazio rivelato dalla ricca gamma di movimenti e dalle ombre ai piedi dei personaggi. Negli altri tre codici la reinterpretazione stilistica del modello segnò un allontanamento in senso più decisamente 'medievale', come rivelano la maggiore approssimazione anatomica (particolarmente evidente nelle figure del codice Parigi, BN, lat. 7900), la resa essenzialmente lineare dei personaggi, definiti da contorni netti e pesanti solo occasionalmente rialzati da leggere velature di colore, come nel codice conservato a Milano (Bibl. Ambrosiana, S.P.4 bis, già H.75 inf.), e il diradamento delle quinte architettoniche.Più tardi, agli inizi del sec. 11°, scomparso il codice tardoantico, le illustrazioni del codice appartenuto a Ludovico il Pio sarebbero state a loro volta copiate da un artista assai maldestro nel codice probabilmente eseguito a Cluny (Roma, BAV, Arch. S. Pietro, H.19; Büren, 1994). In questo stesso periodo le illustrazioni del manoscritto francese (Leida, Bibl. der Rijksuniv., Voss.lat. Q 38), realizzate da un artista dotato di una notevole vena comica, riflettono invece un interessante tentativo di rinnovamento dell'iconografia terenziana attraverso l'aggiornamento delle architetture e dei costumi dei personaggi alla moda contemporanea, secondo un principio applicato successivamente anche in un codice di Roma (BAV, Vat. lat. 3305) e nel Codex Dunelmensis (Oxford, Bodl. Lib., Auct.F.2.13). In quest'ultimo - eseguito intorno alla metà del sec. 12° per l'abbazia di St Albans da un'équipe di quattro miniatori, il primo dei quali identificabile con il Maestro dei Disegni apocrifi, già attivo alla decorazione della Bibbia di Winchester (Winchester, Cathedral Lib., 3) - le illustrazioni vennero esemplate sulla scorta della copia reimsiana del manoscritto tardoantico perduto (Parigi, BN, lat. 7899), priva di alcune scene dell'Andria rimpiazzate nel codice inglese con altre immagini dello stesso ciclo. Il manoscritto di Roma (BAV, Vat. lat. 3305), eseguito probabilmente a Tours agli inizi del sec. 12°, riflette invece l'ambizioso e originale progetto, presto abbandonato dopo le prime cinque illustrazioni dell'Andria, di costituzione di un apparato iconografico delle commedie alternativo rispetto a quello tradizionale, con scene reinventate ex novo sulla scorta della lettura diretta del testo terenziano. Completamente inedita, anche se parzialmente ispirata al Prologo delle commedie, è l'idea di un monumentale frontespizio architettonico (c. 8v) all'interno del quale, al di sopra di due vignette narrative liberamente ispirate a episodi dell'Andria, è inscenata la disputa fra T. e i suoi Adversarii, anacronisticamente presieduta, davanti a un pubblico di Romani, da Calliopius, lo scholasticus che verso il 400 recensì il testo dell'esemplare tardoantico da cui derivarono le quattro copie carolinge illustrate e il cui nome, riprodotto nei colofoni del manoscritto Vat. lat. 3868 e degli altri codici medievali pertinenti alla stessa famiglia, rappresentò nel Medio evo un segno di prestigio anche per i manoscritti terenziani appartenenti a famiglie testuali diverse.Nei secc. 13° e 14°, contemporaneamente al progressivo diradarsi degli esemplari illustrati delle commedie di T., giunse al culmine il processo di elaborazione della lettura tipologica e normativa degli autori classici basata sul binomio Virgilio-T., che, introdotta fin dal sec. 10° nelle discussioni sul valore stilistico e retorico delle commedie di T. promosse dagli intellettuali legati alla corte sassone - Bruno di Colonia (925-965), Liutprando da Cremona (920-972), Gerberto di Aurillac (ca. 940-1003) e Rosvita di Gandersheim (ca. 935-ca. 975) -, sarebbe stata reinterpretata originalmente agli inizi del Trecento nell'opera in volgare di Dante e in seguito avrebbe dato luogo, con l'insegnamento di Petrarca, a una fervida stagione di studi terenziani. È tuttavia solo sulla scia dell'entusiasmo per le opere di T. suscitato dai primi umanisti italiani e francesi della fine del Trecento e degli inizi del Quattrocento che i codici delle commedie ripresero a ospitare di nuovo cicli illustrativi di grande respiro. Nel gennaio 1408 Jean de Valois, duca di Berry, ricevette in dono dal suo tesoriere Martin Gouge il sontuoso manoscritto decorato dal Maestro del Giuseppe Flavio (Parigi, BN, lat. 7907A); pochi anni dopo, nel 1415, egli entrò in possesso anche del c.d. Terenzio dei Duchi (Parigi, Ars., lat. 664), eseguito intorno al 1412 da un'équipe di miniatori all'interno della quale operarono il Maestro di Etienne Loypeau (o Maestro di Luçon) e il Maestro dell'Hécyra. Nelle illustrazioni dei due codici, strettamente dipendenti fra loro, le scene delle commedie, recitate da attori elegantemente vestiti secondo la moda della corte di Carlo VI (1380-1422), sono ambientate in spaziose ed elaborate quinte teatrali ispirate all'architettura contemporanea e arricchite da gustosi dettagli di vita quotidiana; mentre i fastosi frontespizi posti ad apertura di libro (rispettivamente c. 2v e c. 1v), ripropongono, accanto all'insolita scena della presentazione da parte di T. delle commedie al senatore Terenzio Lucano all'interno di un paesaggio romano di fantasia, la figura di Calliopius, questa volta rappresentato intento a leggere le commedie all'interno di una loggia posta al centro di un teatro circolare gremito da una variopinta folla di maschere gesticolanti e di composti spettatori romani.
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