Stazio, Publio Papinio
D. ricorda S. già in Cv IV XXV 6 come lo dolce poeta. Si sarebbe tentati di pensare che così definendolo egli alludesse alle Silvae. Ma del poeta egli ignorava proprio quest'opera, che fra l'altro gli avrebbe evitato l'errore di fargli dire (Pg XXI 89) che, tolosano, a sé mi trasse Roma, confondendolo cioè, sulle orme di s. Girolamo e di Fulgenzio, col contemporaneo retore L. Stazio Ursulo (v.) di Tolosa; ché in Silv. III 5 S. palesa chiaramente alla moglie, restia a lasciare Roma, la sua origine napoletana, celebrando le bellezze della sua terra (la tesi dello Zingarelli e del Pézard, rinfrescata da A. Greco, Lect. Scaligera II 852-853, in base agli studi di Guido Billanovich documentanti la conoscenza delle Silvae da parte di Lovato dei Lovati, che cioè a D. fosse giunta conoscenza delle Silvae, poggia su troppo fragili basi).
Di quello che definisce dolce poeta e che tale avrebbe potuto esser ritenuto solo grazie alle Silvae, D. mostra di conoscere a fondo solo ciò che il Medioevo conosceva sicuramente, e cioè la Tebaide e l'Achilleide; perciò poi del dolce poeta, come vedremo, egli ricorda o i principali personaggi o scene di pomposa o addirittura macabra magniloquenza, come quella di Anfiarao, quella di Capaneo e quella di Tideo e Melanippo. La denominazione deriva dunque, com'è stato universalmente riconosciuto (cfr. P. Mustard, D. and Statius, in " Modern Language Notes " XXXIX [1924] 120; P. Chistoni, La seconda fase del pensiero dantesco: periodo degli studi sui classici, ecc., Livorno 1903, 131; E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 256), da Giov. VII 82-86 " curritur ad vocem iucundam et carmen amicae / Thebaidos, laetam cum fecit Statius urbem / promisitque diem: tanta dulcedine captos / adficit ille animos tantaque libidine volgi / auditur " (Tanto fu dolce mio vocale spirto, Pg XXI 88). E che questa fosse la fonte ispiratrice di D. lo conferma Pg XXII, in cui i vv. 55-56 (Or quando tu cantasti le crude armi / de la doppia trestizia di Giocasta) palesano il tragico tono che D. doveva per forza riscontrare nella Tebaide, e i vv. 13-15 ci presentano un Giovenale attaccato alla memoria di S. e rivelante a Virgilio l'adorazione che questi aveva per lui.
Quanto poi alla tesi di V. Tandoi (Il ricordo di S. " dolce poeta " nella satira VII di Giovenale, in " Maia " XXI [1969] 122) affermante che la raffigurazione di S. in Giovenale è acremente satirica e che l'interpretazione accoltane da D. deriva da un'esegesi dell'ambiente padovano del Mussato, giunta, al solito, a D. attraverso il tramite di Giovanni del Virgilio, vedine la confutazione nella voce Giovenale. Ivi è posto in rilievo anche il contributo di A. Ronconi (L'incontro di S. e Virgilio, in " Cultura e Scuola " 13-14 [1965] 568-569) per il costante influsso di Giovenale sui giudizi danteschi relativi a Stazio. Col Ronconi non concordiamo solo sul punto relativo all'influsso che si è voluto scovare in Giovenale riguardo al fatto che D. abbia posto S. fra i prodighi. In realtà i commentatori forse non hanno avuto torto quando, sulla base della stretta dipendenza di D. dal luogo giovenaliano, hanno presunto che il poeta avesse ricavato l'impressione che S. avesse prodigato i suoi averi fino a ridursi in miseria dal v. 87 della settimana satira giovenaliana, " esurit, intactam Paridi nisi vendit Agauen ".
S. evidentemente era considerato da D. uno dei maggiori poeti latini, tant'è vero che negli ultimi canti del Purgatorio, dove compare come anima purgante che ha terminato l'espiazione nel girone degli avari e prodighi, egli finisce per assumere la funzione di trapasso da Virgilio a Beatrice, al punto che nel canto XXV gli si affida l'arduo compito d'istruire D. sul problema della formazione dell'anima e dei suoi rapporti col corpo. È proprio Virgilio a invitare S. a sostituirsi a lui nell'addottrinamento di D., quasi a sottolineare la propria inferiorità, già manifestatasi col lapsus di aver ritenuto S. espiante come avaro: ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego / che sia or sanator de le tue piage (v. 29).
In VE II VI 7 S. era stato nominato accanto a Virgilio, Ovidio e Lucano, anzi prima di Lucano (Statium atque Lucanum) fra i ‛ regulati poetae ' suggeritori della ‛ suprema constructio '. Poi nel Limbo - dato appunto che egli sarebbe stato inopinatamente incontrato fra le anime destinate al Paradiso - egli non era fra i poeti, nel gruppo di cui faceva parte abitualmente Virgilio, e che contiene Orazio, Ovidio e Lucano. E proprio l'elenco offerto dal De vulg. Eloq. deve far ripudiare la strana tesi di P. Renucci (D. disciple et juge du mondé greco-latin, Parigi 1954, 329 ss.), secondo cui il canto XXII del Purgatorio ha finito per sostituire il canto IV dell'Inferno, nel senso che in questa nuova sezione staccata del poema S. avrebbe assunto le funzioni di Orazio nella prima sezione: tesi assurda sol che si considerino i passi del Convivio in cui ci si sofferma sull'opera di Stazio. A ogni modo un autore moderno avrebbe forse preparato, al momento dell'incontro coi poeti nel Limbo, il futuro incontro con S., facendo esprimere al protagonista meraviglia per la sua assenza. Invece D., con la netta e distaccata fedeltà alla visione diretta dei fenomeni che è tipica dell'arte classica, si è limitato a registrare la presenza dei poeti fattiglisi incontro, accantonando la menzione di S. per il momento in cui l'avrebbe incontrato. Ma Giovanni del Virgilio, nella sua prima egloga, aveva avvertito il rapporto fra i due episodi, scrivendo: " nullus, quos inter es agmine sextus [cfr. If IV 102 sì ch'io fui sesto tra cotanto senno], / nec quem consequeris coelo " (vv. 18-19), ricostituendo integralmente il gruppo dei poeti ritenuti modelli da D.; e dobbiamo convenire con ciò che ragiona il Padoan (Il canto XXI del " Purgatorio ", in Nuove Lett. IV 342) contro chi inclinerebbe a scorgere piuttosto Virgilio in " quem consequeris coelo ", anziché Stazio.
In Pg XXI è contenuta una biografia di S. che, per ampiezza e precisione di notizie (salvo l'errore sulla città natale), è un unicum nel poema, in cui di solito non ci si attarda sui particolari biografici dei personaggi incontrati: si determina l'età in cui il poeta fiorì, localizzandola nel regno di Tito (mentre in XXII 83 si accenna al principato del suo successore, quello dell'effettiva fama di S., quando Domizian li perseguette); si allude a sue vittorie in gare poetiche (XXI 90); si enumerano i due poemi che D. conosceva, aggiungendo anche la precisazione che l'Achilleide era rimasta incompiuta (vv. 92-93). Anche il fatto che lì si taccia delle Silvae conferma che D. ignorava quest'opera. Per giunta il Padoan (art. cit. 348) ci richiama lo scolio di Benvenuto che, fraintendendo, difende D. da chi lo accusava d'inesattezza per aver affermato che l'Achilleide era rimasta incompiuta per la morte dell'autore, e perciò conclude: " Quibus respondendum est breviter et clare quod vere secundum opus est completum, nec Dantes hoc negat: sed vult dicere quod cecidit cum secunda salma, quia debebat subire tertiam historiam, scilicet gesta Domitiani ". D. in realtà sapeva che l'Achilleide era incompiuta e intendeva dire proprio questo: e Gius. Billanovich (Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, 162) ha posto in rilievo una lettera del Nelli al Petrarca che ci ha dato notizia di una difesa che Forese Donati, proprio un personaggio che appare in uno dei canti staziani, in Pg XXIII, nel girone successivo a quello in cui S. ha scontato la sua pena, ha fatta dell'incompiutezza dell'Achilleide.
Se in Pg XXI abbiamo una precisa presentazione della figura e dell'opera di S., nel c. XXII troviamo invece sviluppato quel complesso di notizie che con la vera biografia di S. non han da fare né punto né poco, e che costituiscono il sorprendente di più introdotto da D.: la notizia della sua prodigalità e quella della sua segreta conversione al cristianesimo, suggeritagli, come la stessa vocazione poetica, dalla lettura di Virgilio, e particolarmente dall'egloga quarta. La critica si è affaticata per scovare o intuire le fonti da cui D. può aver tratto queste arbitrarie aggiunte alla reale bio-grafia del poeta e, anche per la vanità dei suoi sforzi, ha finito per inclinare verso l'opinione che D. (forse stimolato da qualche spunto d'interpretazione allegorica di passi della Tebaide o di leggende come quella narrata da Vincenzo di Beauvais Spec. hist. XII 50, secondo cui Secundiano, Marcelliano e Verriano si sarebbero convertiti alla fede cristiana dopo aver letto la quarta egloga di Virgilio) avrebbe favoleggiato per conto suo tutto ciò che riferisce di S. in quel canto, perché, persuaso che egli era stato il più cosciente e il più fervido degli ammiratori e imitatori di Virgilio (fra l'altro la Tebaide consta di dodici libri come l'Eneide), lo ha concepito ‛ ad maiorem Vergilii gloriam ': Virgilio, il suo maestro di poesia, per giunta coi vv. III 56-57 dell'Eneide lo avrebbe guarito dal peccato della prodigalità e con l'egloga quarta gli avrebbe dischiuso la via alla fede cristiana.
La radice di tutta quest'adorazione è da ravvisare nella stessa Tebaide, dove nell'episodio di Dimante e Opleo si esprime quest'augurio (X 445-448): " vos quoque sacrati, quamvis mea carmina surgant / inferiore lyra, memores superabitis annos. / Forsitan et comites non aspernabitur umbras / Euryalus Phrygiique admittet gloria Nisi ", e proprio alla fine (XII 816-817) si esprime quest'altro augurio conclusivo: " vive, precor; nec tu divinam Aeneida tempta, / sed longe sequere et vestigia semper adora ". Di ciò l'eco precisa si coglie in Pg XXI 94-97 Al mio ardor fuor seme le faville, / che mi scaldar, de la divina fiamma / onde sono allumati più di mille; / de l'Eneïda dico. Di questa posizione critica il più reciso assertore è stato il Ronconi (L'incontro, cit., p. 566), che ha trattato con sprezzante sopportazione il tentativo di G. Padoan (Il mito di Teseo e il cristianesimo di S., in " Lettere Italiane " XI [1959] 432 ss.), valorizzante l'interpretazione allegorica che Guido da Pisa ha data dell'ultima parte della Tebaide, scorgendo entro di essa. nel pacificatore Teseo una figura Christi, e scoprente le premesse di tale figurazione in un commento della Tebaide attribuito a Fulgenzio, il cui tono ritorna nelle interpretazioni allegoriche di figure e passi della Tebaide che leggiamo nel Convivio; onde in If IX 54 mal non vengiammo in Tesëo l'assalto si dovrebbe scorgere appunto l'adozione da parte di D. di Teseo come figura Christi: qualcosa di analogo, del resto, a quanto da tempo si faceva della figura di Ercole. In seguito il Padoan ha reagito al giudizio del Ronconi (Il canto XXI, cit., pp. 349 ss.), ribadendo la validità delle sue ricerche; fra l'altro ha richiamato quanto già R. Sabbadini aveva notato in un commento anonimo del sec. XI alle Metamorfosi ovidiane, che Ovidio - vissuto (si badi !) al tempo di Domiziano - si sarebbe convertito segreta-mente al cristianesimo, pur ostentando pro bono pacis il culto delle antiche deità. E già M. Scherillo (Il cristianesimo di S. secondo D., in " Atene e Roma " XI [1902] 497) e C. Landi (Sulla leggenda del cristianesimo di S., in " Atti e Mem. Accad. Padova " n.s., XXIX [1913]; Intorno a S. nel Medioevo e nel " Purgatorio " dantesco, ibid., XXXVII [1921]) avevano addotto uno scolio a S. in un codice trecentesco del Seminario di Padova e due note marginali a due codici Laurenziani della Tebaide identificanti l'ara della Clemenza (Theb. XII 481 ss.) con l'ara del dio ignoto ricordata negli Atti degli Apostoli (17, 23). Altri hanno evocato la leggenda di s. Domitilla riguardo a ciò che S. dice in Pg XXII 79-84; in questo senso si orientò nelle sue ricerche il Poliziano (v.) che nella seconda centuria dei Miscellanea, ritornando su S., trovò unica difficoltà alla sua tesi che S. fosse stato il secondo marito di Polla Argentaria, nel fatto che Polla era ricca e che quindi le sue " nuptiæ... parum convenirent... huic quem Iuvenalis esurire dixerit " (Miscellaneorum centuria secunda, a c. di V. Branca e M. Pastore Stocchi, IV, Firenze 1972, 89). Il Padoan conclude perciò che, come da un accessus o da una chiosa dovettero provenire a D. le notizie contenute in Pg XXI, così dalla medesima fonte dovranno essergli derivate quelle di Pg XXII. In verità a noi sembra che - tolta l'erronea attribuzione a S. della nascita a Tolosa (si tratta, del resto, di una notizia diffusa nel Medioevo, la quale giunge fino al Boccaccio) - tutti i particolari espressi in Pg XXI dovessero derivare a D. da un'attenta lettura di S., mentre le superfetazioni del canto XXII sono spiegabili anche per noi in base ad accessus e a leggende indubbiamente circolanti prima di Dante.
Ciò che colpisce è il fatto che S., se ha fatto in tempo a guarire dal peccato della prodigalità (e prescindiamo dal problema nascente dall'interpretazione dantesca di Aen. III 56-57, perché esso esula dal nostro compito), si mostra un lapsus, un cristiano nascosto e timoroso, com'egli stesso confessa (Pg XXII 90-91 ma per paura chiuso cristian fu'mi, / lungamente mostrando paganesmo). Va bene che D. ci fa sapere (Pg XXII 92-93) che proprio per questo S. ha dovuto espiare anche nel girone degli accidiosi per più di 400 anni per questa tepidezza; ma è indubbio che secondo le idee e i sentimenti del Medioevo la sua condotta lo poneva di fronte al pericolo della dannazione. E forse proprio da questa impressione nacque l'ulteriore leggenda che S. fosse stato vittima della persecuzione domizianea. D. (e forse già le sue fonti) si è dovuto arrendere di fronte al fatto che nella Tebaide e nell'Achilleìde, salvo alcune interpretazioni allegoriche escogitate con molta buona volontà, non era possibile individuare alcun preciso orientamento cristiano. E forse D. ha inteso dire che Dio ha voluto premiare gli sforzi con cui S. aveva tentato di adombrare nell'ultima parte della Tebaide le sue nuove credenze. Ma a ogni modo D. ha tentato d'inquadrare lo spirito dell'opera e della figura di S. nel senso di un progressivo avveramento di ciò che di profetico era già contenuto nell'opera di Virgilio, e ciò particolarmente in Pg XXI 82-84, che precorre quanto dirà Giustiniano in Pd VI 92-93 e mostra insieme la visione provvidenziale di un accostamento della poesia epica latina di saldo impianto morale, nutrita di Virgilio, proprio al cristianesimo e proprio nel momento in cui le armi romane, guidate da un imperatore benefico, con la repressione della rivolta giudaica compivano la vendetta... / de la vendetta del peccato antico.
A parte questo, è stato già notato che S. godette nel Medioevo d'invidiabile fama; Pierre Maurice, abate di Cluny, lo cita fra i lumi della poesia e della filosofià, e Nicola Clamanges lo chiama addirittura secondo Virgilio (v. Greco, pp. 532-533). Per meglio intendere la funzione che D. gli riserba nel poema, dobbiamo cominciare a ricordare i luoghi del Convivio in cui già sono menzionati passi e personaggi della Tebaide. Così in Cv III VIII 10 si legge: Onde alcuno già si trasse li occhi, perché la vergogna d'entro non paresse di fuori; sì come dice Stazio poeta del tebano Edipo, quando dice che " con etterna notte solvette lo suo dannato pudore ": cfr. Theb. I 47-48 " merserat aeterna damnatum nocte pudorem / Oedipodes ". In Cv III XI 16, a proposito dell'uso di apostrofare persone coi termini astratti indicanti i sentimenti da loro ispirati, si legge: e sì come dice Stazio nel quinto del Thebaidos [e si noti la denominazione del poema con l'abituale genitivo delle soscrizioni iniziali, come Metamorphoseos, designazione abituale del poema ovidiano], quando Isifile dice ad Archimoro: " O consolazione de le cose e de la patria perduta, o onore del mio servigio ": cfr. Theb. V 609-610 " o rerum et patriae solamen ademptae / servitiique decus ". E finalmente in Cv IV XXV 6-8 si legge un lungo riferimento alla Tebaide (cfr. Theb. I 395 ss., 482 ss., 527 ss.): un brano che, nella tendenza a scovare una profonda simbologia morale in un episodio di poema epico latino, richiama il luogo di Cv IV XXVIII 13-19, in cui si analizza come allegoria della vita umana l'episodio di Catone e Marzia nel libro II della Farsaglia lucanea. Nell'ignoranza in cui ci troviamo delle fonti di D. riguardo al cristianesimo di S., non riusciamo a valutare quanto il poeta abbia tratto da leggende preesistenti e quanto egli abbia architettato da sé, organizzando il caso limite di una formazione poetica e spirituale modellata da Virgilio nel più alto senso della tradizione latina, ma che dal più fondo dell'intima esperienza virgiliana trae lo slancio per assurgere alla rivelazione del verbo di Cristo, trasfigurando in un senso nuovo i motivi etici popolanti la nuova creazione epica. Sotto quest'aspetto assume tutto il suo significato il fatto che in Pg XXII non solo Argia e Deifile, i modelli di virtù già esaltati nel Convivio, ma anche Antigone, Ismene, Isifile, Manto, e, accanto ai principali personaggi femminili della Tebaide, due dell'Achilleide, Teti e Deidamia, sono ricordati come abitanti il Limbo (vv. 110-114), non meno di Iulia, Marzia e Corniglia, personaggi lucanei (If IV 128); e sul problema del lapsus attribuibile a D. di essersi dimenticato di aver già collocato Manto in If XX 52 ss., nella quarta bolgia degl'indovini, e del riparatore emendamento congetturale del Torraca evvi la figlia di Nereo, Teti, v. MANTO; com'è superfluo andar notando il valore di personaggi essenzialmente storici che D. attribuisce agli eroi dei grandi poemi latini, parificando così i personaggi di Virgilio e di S. a quelli di Lucano.
Sorge così il problema del significato che S. assume nel poema come anima redenta, giunta alla fine dell'espiazione, già pronta a salire al cielo e perciò atta ad assolvere anche il compito di addottrinare D. in un arduo punto della scienza teologica, come avviene nel canto XXV. Ed ecco Pietro sostenere che S. rappresenta la filosofia morale, affiancando e integrando la filosofia razionale rappresentata da Virgilio: non per niente sin dal Convivio il suo poema era stato ricordato soprattutto come prontuario di esempi morali.
Invece L. Filomusi Guelfi (Nuovi studi su D., Città di Castello 1911, 63-68) ha visto in S. il simbolo della scienza soltanto speculativa, inferiore perciò a Matelda, che simboleggia la scienza speculativa e pratica insieme e che al suo primo apparire condanna al silenzio S., il quale quindi fra l'altro appare una guida solo supplementare e occasionale. Ma a ogni modo il fatto stesso che sia Virgilio a invitare S. a sostituirlo nell'addottrinare D. finisce per compiere il rapporto ideale fra i due poeti quale si è configurato nei canti XXI-XXII, mostrando il riconoscimento da parte di Virgilio della maturazione che la sua poesia ha prodotto nello spirito di S., sì che egli può sovrapporsi, come meglio profondato di lui nei misteri della fede, alle sue abituali spiegazioni, basate essenzialmente sui puri dettami della filosofia aristotelica. Come anima cristiana, per giunta la prima che si presenti a D. già monda e quindi potenzialmente equiparabile alle anime del Paradiso, egli è in grado d'iniziare D. ai problemi dell'iniziatica dottrina dei più invidiosi veri. E a ogni modo il rapporto Virgilio-S., che provoca l'intervento dottrinale del secondo nel canto XXV, è stato sempre considerato la chiave per spiegare la funzione di S. nei canti del poema in cui egli appare. È stato notato, analizzando i canti XXI-XXII, come l'incontro fra S. e Virgilio riproduca in fondo quello fra Virgilio e D. nel proemio dell'Inferno, arrecando conseguenze ugualmente benefiche e ugualmente estese dalla lezione nel campo della poesia all'iniziazione alle verità occulte di natura profetica. Per converso la poesia di S. appare a D. così profondamente nutrita dell'esempio di Virgilio da assurgere a valore di exemplum sul piano morale e da adombrare quindi un altro passo in avanti della più alta poesia latina verso la conquista dei valori comunicati dalla fede (e in questo senso, anche per D., S. finisce per assumere il valore dell'altro Virgilio). Francesco Arnaldi (La crisi morale dell'età argentea, in " Vichiana " n.s., I [1972] 37-38), analizzando la complessità spirituale degli episodi dell'Achilleide relativi all'amore di Deidamia, ne ha dedotto che, anche per la finezza delle espressioni rivelatrici di un'umana introspezione che vi si possono cogliere, " Dante, lettore attento di Stazio, ha posto Deidamia e le sue sorelle nel castello del Limbo ".
A ogni modo da quando compare e parla di sé nei canti XXI-XXII, S. non è mai dimenticato sino alla fine della cantica. In Pg XXIII 8 lo vediamo avviarsi con Virgilio e D.; alla fine del canto D. lo addita a Forese (vv. 131-133); in XXIV 8-9 D. lo addita di nuovo a Forese come procedente con Virgilio; ai vv. 98-99 Forese lo lascia con lui e con Virgilio; in XXIV 119 lo si ricorda insieme con Virgilio trascorrere nel girone dei golosi, e al v. 133 il voi sol tre detto dall'angelo ne conferma la presenza; nel c. XXV egli campeggia come maestro di D., e in XXVII 47 entra nel fuoco insieme con Virgilio e D.; al v. 114 al risveglio di D. egli è presente insieme con Virgilio; in XXVIII 145-146 D. si rivolge a Virgilio e a lui dopo aver ascoltato Matelda; in XXXII 29, dopo il lungo intervallo di silenzio su lui determinato dalla sparizione di Virgilio e dall'incontro con Beatrice, lo rivediamo seguire il carro insieme con Matelda e con D.; in XXXIII 15 lo si ricorda ancora come colui che era rimasto con D. (me e la donna e 'l savio che ristette); e ai vv. 134-135 Beatrice lo invita a venire con loro (e a Stazio / donnescamente disse: " Vien con lui "). Ma all'inizio del Paradiso egli è già fuori scena, assunto per conto suo fra le anime beate.
Nei canti staziani del Purgatorio, dopo il lungo indugio dei canti XXI-XXII sul poeta, la critica non ha trovato se non due echi dell'opera di S.: quella di XXVIII 31-33 (avvegna che si mova bruna bruna [l'acqua] / sotto l'ombra perpetüa, che mai / raggiar non lascia sole ivi né luna), che, oltre Ovid. Met. V 307 ss., richiamerebbe Theb. IV 723-724 " Una tamen tacita sed iussu numinis unda... / haec quoque secreta nutrit Langia sub umbra ", e quella di Pg XXX 85-90, che richiamerebbe Theb. XI 193-195. Lì dove S. parla, nel c. XXV, ci si aspetterebbe che qualcosa di lui filtrasse nel suo eloquio; ma il tema del suo discorso, profondamente innervato nei problemi della Scolastica, sembra escludere ogni possibilità per D. di attingere qualche particolare all'opera di Stazio. Il Nardi (in Lett. dant. 1175) e con lui il Mattalia nel suo commento scorgono nei vv. 10-12 del canto (E quale il cicognin che leva l'ala / per voglia di volare, e non s'attenta / d'abbandonar lo nido, e giù la cala) una rielaborazione di Theb. X 458-462 " volucrum sic turba recentum, / cum reducem longo prospexit in aëre matrem, / ire cupit contra summique e margine nidi / extat hians: iamiamque cadat, ni pectore toto / obstet aperta parens et amantibus increpet alis ". Ma, osserva il Nardi, in S. " l'uccellino sull'orlo del nido vorrebbe volare incontro alla madre che vede nel cielo venir di lontano; e la madre, accorrendo, glielo impedisce con le ali aperte e col petto, perché non abbia a cadere. Qui invece il cicognino è mosso da voglia di volare, e trattenuto da paura d'abbandonare il nido ".
Ma in realtà i commentatori, se avessero fatto maggior attenzione a certi termini dotti di derivazione classica, avrebbero scorto nel discorso di S. del c. XXV il trionfo dell'arte allusiva che in D. è raffinatissima, per tutto quanto concerne i rapporti coi poeti classici. Nella descrizione della generazione che comincia al v. 137, si può ravvisare, sia pure in secondo piano, anche un'eco della descrizione del nascente turbamento d'amore in Achill. I 304-310. Ma quel che è più è che al v. 79 l'idea della morte è introdotta con l'espressione Quando Lachésis non ha più del lino (il Petrocchi non accetta l'accentazione del Sanesi, adottata da tutti i commentatori, e torna alla forma classica Làchesis, e con lui G. Padoan nella voce Lachesi). Il nome della Parca è totalmente assente sia in Virgilio, sia nell'Ovidio delle Metamorfosi, sia in Lucano; invece esso compare tre volte nella Tebaide: II 249 (" Lachesis sic dura iubebat "), III 642 (" et Lachesin putri vacuantem saecula penso ") e IV 636-637 (" quo me Lachesis, quo torva Megaera / usque sinunt "); e tralasciamo il fatto che il nome ritorna proprio in Silv. III 5, ai vv. 40-41 " Scilicet exhausti Lachesis mihi tempora fati / te tantum miserata dedit ". E che il riferimento all'opera di S. sia intenzionale lo conferma un passo del c. XXI, nel momento preparatore dell'incontro col poeta, ove la menzione di Lachesi avviene senza farne il nome (vv. 25-26 Ma perché lei che dì e notte fila / non li avea tratta ancora la conocchia), ma pronunciando in compenso (v. 27) il nome di Cloto (che Cloto impone a ciascuno e compila), anch'esso assente in Virgilio, in Lucano e nelle Metamorfosi ovidiane, e presente invece nella Tebaide (III 556-557 " quid ferrea Clotho / cogitet? "). L'intento allusivo è quindi evidente, e lo conferma nel c. XXI il v. 50 né coruscar, né figlia di Taumante, ove ai ricordi virgiliani e ovidiani dobbiamo sentir sovrapporsi, in nome del medesimo intento di cominciar a far risuonare gli echi di S., Achill. I 219-220 " ventosne volucris / advocet an pelago solitam Thaumantida pasci ". Del resto in fatto di Parche già If XXXIII 126 innanzi ch'Atropòs mossa le dea aveva manifestato la dipendenza da S., in quanto anche il nome della terza Parca è totalmente assente in Virgilio, nelle Metamorfosi ovidiane e in Lucano, mentre S. lo introduce nella Tebaide ben cinque volte (I 111 e 328, III 67-68; IV 189-190 e 600-601, col medesimo appellativo " ferrea " adoperato per Cloto). E nel medesimo Pg XXI il Padoan (Il canto XXI, cit., p. 338) non ha mancato di notare che nell'altra spiegazione offerta da S. nel poema, quella del terremoto segnante la sua liberazione, la sua riflessione che il Purgatorio vero e proprio non subisce scosse (vv. 56-57 ma per vento che 'n terra si nasconda, / non so come, qua sù non tremò mai) è fatta in maniera da richiamare Theb. II 35-36 relativo al Tenaro (" stat sublimis apex ventosque imbrisque serenus / despicit "); e richiama al riguardo anche l'inserzione del ricordo di Iride in Achill. I 220. Né basta. Un'altra citazione di divinità pagana, la musa Clio in Pg XXII 58 (e proprio in riferimento alla Tebaide) è intenzionale. Clio non è mai nominata né nell'Eneide, né nelle Metamorfosi, né nella Farsaglia, e invece due volte nella Tebaide: I 41 " quem prius heorum, Clio, dabis? " e X 630 (" memor incipe Clio "), proprio, cioè, nel senso che qui D. rammenta.
Assodato quest'importante particolare inedito, volgiamoci a considerare gli echi di S. nei canti del poema in cui egli non compare. In If V 46, per i gru che van cantando lor lai, accanto all'influsso di Virg. Aen. X 264 ss., si è avvertito quello di Theb. V 13-14 (" illae clangore fugaci / ...volant, sonat avius aether "); ma l'eco è ancora più forte proprio in uno dei canti staziani, Pg XXIV 64-66 Come li augei che vernan lungo 'l Nilo, / alcuna volta in aere fanno schiera, / poi volan più a fretta e vanno in filo. Si è vista del passo la fonte in Lucan. Phars. V 712-713 " poturae te, Nile, grues primoque volatu / effingunt varias casu monstrante figuras "; ma l'espressione del luogo staziano (" decedunt agmina Nilo ") giustifica che si adduca anch'esso tra le fonti. L'altra eco del motivo delle gru avviene anch'essa in uno dei canti staziani (Pg XXVI 43-48). E anche qui i commentatori si son limitati ad additare altre fonti (Virg. Aen. X 265; Lucan. Phars. V 716), dimenticando l'intento allusivo sempre vigile in D. e trascurando il fatto che l'espressione del luogo dantesco (Poi, come grue ch'a le montagne Rife / volasser parte, e parte inver' l'arene, / queste del gel, quelle del sole schife, / l'una gente sen va, l'altra sen vene; / e tornan, lagrimando, a' primi canti / e al gridar che più lor si convene) richiama quella di Theb. V 12-16 " rauca... decedunt agmina Nilo, / quo fera cogit hiems: illae clangore fugaci, / umbra fretis arvisque, volant, sonat avius aether. / Iam Borean imbrisque pati, iam nare solutis / amnibus et nudo iuvat aestivare sub Haemo ".
Il grande Achille di If V 65 è stato visto ispirato anche dal " magnus... Achilles " di Achill. I 19. In la buia campagna / tremò sì forte di If III 130-131 e un greve tuono di If IV 2 si può vedere anche un'eco di Theb. VII 65-66 " tremit ecce solum et mugire refractis / corniger Hebrus aquis " (ricordiamoci che in D. siamo sulle rive d'Acheronte). Per Folo di If XII 72 si è visto tra le fonti, oltre il generico cenno alla contesa fra i Centauri e i Lapiti in Achill. I 40 ss., anche più specificamente Theb. II 563-564 " qualis in adversos Lapithas erexit inanem / magnanimus cratera Pholus ".
In If XIV vi è il primo grande esempio di elaborazione di un episodio staziano da parte di D., quello di Capaneo (Theb. II 602 ss., X 738 ss., XI 10 ss.). Al riguardo ci si permetta di rinviare a E. Paratore, Il c. XIV dell'Inferno (in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 226-239), per l'analisi del riscontro, ma soprattutto per il chiarimento, contro una persistente impressione critica in senso contrario, della libertà con cui D. ha svuotato il personaggio di Capaneo della pomposa, retorica velleità di eroismo e di titanismo di cui S. lo aveva circonfuso, e ha ribadito la sua empietà, trasformando l'imperturbabile e trascendente maestà del Giove staziano in un'impressione di smarrimento, solo perché la menzione della sua folgore è trasferita sulla bocca bestemmiatrice dello stesso Capaneo, il quale altera la sdegnosa riflessione di Giove (Theb. X 909 " Quaenam spes hominum tumidae post proelia Phlegrae ! ") in una rappresentazione di Giove smarrito (If XIV 55-58 o s'elli stanchi li altri a muta a muta / in Mongibello a la focina negra, / chiamando " Buon Vulcano, aiuta, aiuta! ", / sì com'el fece a la pugna di Flegra). Nel medesimo canto per le lagrime del Veglio di Creta si è additata come fonte anche Theb. VIII 29-30 " assistunt lacrimis atque igne tumentes / Cocytos Phlegetonque ". E il richiamo è tanto più legittimo, in quanto la scena staziana è ideata come sfondo alla figura di Minosse giudice infernale e in occasione del precipitare di Anfiarao nel Tartaro che, come vedremo, è episodio tenuto presente da Dante.
Per If XVI 22-26 Qual sogliono i campion far nudi e unti, / avvisando lor presa e lor vantaggio / ... ciascuno il visaggio / drizzava a me, il Vandelli ha recato a confronto - oltre Virg. Aen. III 281-282 e V 620 - anche Theb. VI 760-761 " Ut sese permensi oculis et uterque priorem / speravere locum ". Per XVI 77-78 e i tre, che ciò inteser per risposta, / guardar l'un l'altro com'al ver si guata, oltre a Virg. Aen. XI 120-121, si è addotto Theb. II 173-174 " Audierant, fixosque oculos per mutua paulum / ora tenent ". Per la figurazione di Manto in If XX (e vedi quanto è stato già detto sul contrasto con ciò che di lei è comunicato in Pg XXII), accanto agli spunti virgiliani e ovidiani (cfr. Ovidio) si è addotta Theb. IV 463 ss., VII 758 ss., specie per la denominazione vergine cruda di If XX 82, che trova appoggio in " innuba Manto " di Theb. IV 463 e nei sanguinosi sacrifici che essa compie nei due passi citati. Per If XXVI 37 che nol potea sì con li occhi seguire si è richiamato - accanto a Virg. Aen. VIII 592 - Theb. III 500 " perlegere animis oculisque sequacibus auras ". Nei vv. 52-54 chi è 'n quel foco che vien sì diviso / di sopra, che par surger de la pira / dov'Eteòcle col fratel fu miso? troviamo un altro dei precisi ricordi di uno dei più orrorosi episodi della Tebaide (XII 431-446), in cui il rogo che brucia i cadaveri dei due fratelli nemici Eteocle e Polinice si divide, perpetuando nella morte l'odio che separava e opponeva i due figli dell'incesto (" exundant diviso vertice flammae / alternosque apices abrupta luce coruscant "). E nel medesimo canto, ai vv. 61-62, si riassume il tema di quel che ci rimane dell'Achilleide: Piangevisi entro l'arte per che, morta, / Deïdamìa ancor si duol d'Achille (e si noti come si anticipi quanto sarà detto in Pg XXII 114, cioè che Deidamia è fra le anime d'oltretomba). E per esaurire quest'argomento si noti già come in Pg IX 34-39 Non altrimenti Achille si riscosse, / li occhi svegliati rivolgendo in giro / e non sappiendo là dove si fosse, / quando la madre da Chirón a Schiro / trafuggò lui dormendo in le sue braccia, / là onde poi li Greci il dipartiro si riassume Achill. I 104-250, specie " ipsa dehinc toto resolutum corpore Achillem, / qui pueris sopor... / ad placidas deportat aquas " dei vv. 228-230, e " cum pueri tremefacta quies oculique patentes / infusum sensere diem. Stupet aere primo, / quae loca, qui fluctus, ubi Pelion? omnia versa / atque ignota videt dubitatque agnoscere matrem " dei vv. 247-250.
In If XXXII 130-131 c'è l'altro noto riferimento a un episodio della Tebaide, quello di Tideo e Melanippo (Theb. VIII 751 ss.), ricordato espressamente: non altrimenti Tidëo si rose / le tempie a Menalippo [e si noti la metatesi delle consonanti centrali di Melanippus; ma Menalippus è proprio la lezione dei codici staziani] per disdegno; e ciò a proposito del conte Ugolino che rode il teschio dell'arcivescovo Ruggieri. Se ne ricava sempre meglio come il dolce poeta ispirasse a D. scene d'infernale raccapriccio, com'era naturale conseguenza del tono prevalente nella Tebaide. E si noti qui un tipo di riferimento analogo a quello espresso per Lucano e Ovidio in If XXV 94-99. Nel medesimo canto, del resto, già ai vv. 10-11 (Ma quelle donne aiutino il mio verso / ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe) è da riscontrare, accanto a quella di Hor. Ars. poet. 394-396, l'eco di Theb. X 873-877 " humilesne Amphionis arces? / pro pudor! hi faciles carmenque inbelle secuti, / hi mentita diu Thebarum fabula muri? / et quidnam egregium prosternere moenia molli / structa lyra? ". Un altro episodio staziano ricorre nei riferimenti danteschi, quello a Erifile e Alcmeone. Esso è ricordato in Pg XII 50-51 e poi in Pd IV 103-105. Nella voce Ovidio abbiamo già notato come sia prevalente al riguardo l'influsso di Virg. Aen. VI 445-446 e Ovid. Met. IX 407-408, quest'ultimo specie per il passo del Paradiso; ma non si può negare che siano stati presenti a D. anche i passi di Theb. II 265-268 e VII 788-789. Ed è stato già notato come il nome di Alcmeone, adoperato da D. in entrambi i luoghi, manchi in tutti i luoghi di Virgilio, Ovidio e S. in cui si accenna al luttuoso evento; perciò è da supporre che D. lo abbia attinto da qualche scolio di Virgilio o di Stazio.
Per Pg XVIII 91-93 E quale Ismeno già vide e Asopo / lungo di sé di notte furia e calca, / pur che i Teban di Bacco avesser uopo, la fonte è stata scorta nelle parole di Ismeno in Theb. IX 434-439 (cfr. specialmente " clamatus sacris ululatibus amnis " e " stipatus caedibus "). In Pd XXI 5-6 quale / fu Semelè quando di cener fessi, insieme con If XXX 1-2 Nel tempo che Iunone era crucciata / per Semelè contra 'l sangue tebano, si è vista l'eco - oltre che di Ovid. Met. III 307 ss. - anche di Theb. III 183-185 " veteris cum regia Cadmi / fulmineum in cinerem monitis Iunonis iniquae / consedit ". Per giunta nella Tebaide il nome di Semele ricorre quattro volte, di cui al nostro proposito è particolarmente significativa II 292-293 " improba mox Semele vix dona nocentia collo / induit, et fallax intravit limina Iuno ". È il medesimo caso notato in If IX 41 serpentelli e ceraste avien per crine, dove - anche se la descrizione delle Furie sembra derivare particolarmente dal libro vi dell'Eneide e dal libro IV delle Metamorfosi (v. OVIDIO) - tuttavia rimane valida la segnalazione del Moore ammonente che il terminè cerastae per una Furia, Tisifone, ricorre solo in Theb. I 103 " centum illi stantes umbrabant ora cerastae ". Finalmente per Pd XXV 134-135 sì come, per cessar fatica o rischio, / li remi, pria ne l'acqua ripercossi, / tutti si posano al sonar d'un fischio, si è vista la suggestione di Theb. VI 799-801 " sic ubi longa vagos lassarunt aequora nautas / et signum de puppe datum, posuere parumper / bracchia: vix requies, iam vox citat altera remos ".
Ci resta da sottolineare quello che per l'influsso staziano sui canti XVIII e XX dell'Inferno è dovuto all'acribia e alla fine penetrazione di M. Barchiesi. In Arte del prologo e arte della transizione (in " Studi d. " XLIV [1967] 124-125 e 187) egli ha posto in rilievo come in Theb. II 32 ss. sia descritto (e per i vv. 35-36 abbiamo già scovato una derivazione dantesca) l'ingresso agl'Inferi attraverso il Tenaro, da cui passano Mercurio e l'ombra del vecchio Laio, chiamata a esercitare sulla terra l'opera di una Furia vendicatrice, come Tantalo all'inizio del Thyestes di Seneca e Tieste all'inizio dell'Agamemnon. Ivi, al v. 32, si ripete la cadenza Est locus, già adoperata da Virgilio (Aen. I 530, III 163, VII 563) e da Ovidio (Met. XV 332; Fast. II 491). Ma che su D., per If XVIII 1 Luogo è in inferno detto Malebolge, abbia particolarmente influito la scena staziana è ribadito dal fatto che in S. e in D. si tratta di effigiare il quadro di una cupa entità avernale e che Mercurio nel suo cammino deve forzare le " pigrae / ... nubes " (vv. 2-3), il " turbidus... aër " (v. 3), la " foeda... / aura " (vv. 4-5), e, tornando a riveder le stelle, dopo esser stato " fusca... obsitus umbra / ... inferna... nubila vultu / discutit " (vv. 55-57), nella medesima maniera con cui l'angelo (in If IX 82-84) dal volto rimovea quell'aere grasso / ... e sol di quell'angoscia parea lasso (nuovamente un'eco di S. in If IX!). A ciò il Barchiesi aggiunge che " exilit ad superos... et vivis adflatibus ora serenat " di Mercurio in Theb. II 56-57 " è modo abbastanza ‛ dantesco ' " che ricorda l'ultimo verso dell'Inferno. In un grosso studio, Catarsi classica e " medicina " dantesca (dal canto XX dell'Inferno) (in Letture classensi, Ravenna 1973, 11 ss.), il Barchiesi si è lungamente soffermato sulla scelta di Anfiarao nella bolgia degl'indovini e ne ha additato la principale ispirazione nella Tebaide, sia per la frequenza dei luoghi in cui ivi si allude alla colpa di Erifile che ben conosceva il fato gravante sullo sposo sia per il fatto che nel poema staziano son descritti proprio lo sprofondamento di Anfiarao nel Tartaro e l'ostile accoglienza che gli fanno i giudici infernali. Quell'Anfiarao che S. aveva circonfuso di tanta eroica maestà è anch'esso decisamente svuotato di essa da D., come Capaneo, e proprio sulla base di alcuni tocchi insiti nella descrizione staziana del suo sprofondamento. Già il Ronconi (Per D. interprete dei poeti latini, in " Studi d. " XLI [1964] 14) aveva notato che " qui... per inane ruis? " detto ad Anfiarao da Plutone in Theb. VIII 84-85, diventa in D. (If XX 33-34) irrisione dei Tebani sulla terra, al momento in cui l'eroe sprofonda: Dove rui, / Anfiarao? perché lasci la guerra? Il Barchiesi non manca di sottolineare come Plutone e Minosse che nel libro VIII della Tebaide appaiono aspri con le anime sopravvenienti (ma più il primo del secondo) abbiano contribuito a offrire materia a D. per raffigurare com'egli ha fatto le due demoniache entità in If V e VII, e adduce acutamente la Chiosa di Benvenuto che della trasposizione in D. delle parole di Plutone sulla bocca dei Tebani esultanti e irridenti trova la radice proprio in Theb. VIII 225-227 " nunc funera rident / auguris ignari, contraque in tempore certant / Tiresian laudare suum " (e Tiresia è proprio il personaggio che D..scorge nella bolgia degl'indovini subito dopo Anfiarao); da ultimo ha richiamato l'attenzione sulla necessità di approfondire che cosa l'attenta lettura dell'episodio staziano di Anfiarao abbia ispirato a D. per avvertire l'implicita ‛ cristianità ' di S., che per lui sarebbe stata rivelata dalla " condanna dell'arte profetica messa in contrasto con l'innocenza della natura primigenia che la respinge ". Infatti non solo per lo specifico tema della caduta di Anfiarao, ma per tutto quanto concerne la mantica, S. ha finito per costituire la principale fonte d'ispirazione di D., specie sul piano della coloritura ideologica. La clausola staziana " caligine mundi " (Theb. III 498) ha ispirato il dantesco purgando la caligine del mondo (Pg XI 30). E tutto il libro III della Tebaide col pianto di Anfiarao e Melampo (vv. 546 ss.) per aver violato i segreti celesti costituirebbe la base classica della costruzione del c. XX dell'Inferno, sì da suggerire che anche l'‛ epillio ' di Manto, in cui la natura si profila con la sua innocenza in contrapposto alla tormentosa e tormentata arte magica, tragga la sua più remota ispirazione dal nostalgico, lamento dei due personaggi staziani.
Dal lungo elenco comparativo risulta che D. ha sentito l'opera di S. proprio come il vertice di quella lenta ascesa della spiritualità latina, maturata dalla sua stessa missione d'inverare i voleri della Provvidenza, verso l'intuizione delle verità cristiane. Perciò si giustifica il suo aver fatto di S. un cristiano nascosto, e l'averlo giudicato un secondo Virgilio, un poeta σοφός. E si comprende come i poemi staziani gli siano serviti come prontuario di exempla morali e modello di agghiaccianti colpi di sonda nell'umana perversione alla luce della superiore eticità del messaggio cristiano.
Bibl. - Oltre le molte opere già citate nel contesto, vanno ricordati: G. Albini, Se e come la " Thebais " ispirasse a D. di fare S. cristiano, in " Atene e Roma " V (1902) 561; D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, nuova ediz., Firenze 1937, 122 ss.; F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962; S. Malosti, D. traduttore?, in " Convivium " n.s., XVII (1964) 242 ss.; H. Gmelin, D. und die römischen Dichter, in " Deutsches Dante - Jahrbuch " XXII-XXIII (1953); J. Oeschger, Antikes und Mittelalterliches bei D., in " Zeit. Romanische Philologie " LXIV (1944); C. Jannaco, I canti XXII e XXIII del Purgatorio, in " Lettere Ital. " IX (1957); C. Varese, Il canto XIV dell'Inferno, in Pascoli politico, Tasso e altri saggi, Milano 1961, 7-22 (poi in Lett. dant. 251-266); F. De Sanctis, Saggi critici, II, Milano 1914, 209 ss.; M. Apollonio, Il canto XIV dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 451 ss.; V. Vettori, Il Canto di Capaneo, in Lect. Internazionale, Inferno, 140 ss.; E. Bigi, Un caso concreto del rapporto di struttura e poesia. Il canto XIV dell'Inferno, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 455 ss.; U. Bosco, Il canto XIV dell'Inferno, in Nuove Lett. Il 47 ss.; F. Matarrese, Capaneo, in Interpretazioni dantesche, Bari 1957, 281 ss.; F. Fergusson, Canto XXI: A Ghostly Scene of Recognition, in Dante's Drama of the Mind, Princeton 1953, 115 ss.; ID., The new Life of History, ibid., 125 ss.; C. S. Lewis, Dante's Statius, in " Medium Aevum " XXV (1956) 133 ss.; J.L. Pagano, El encuentro de D. con Estacio en la D.C., in " Ars " XVII (1957) 119 ss.; J.F. Mahoney, The Role of Statius and the Structure of Purgatorio, in " Annual Report of the D. Society " LXXIX (1961) 11 ss.; H. Snijder, Commentary al l. III della Tebaide, Amsterdam 1968; F. Gabrieli, Purgatorio XXI, in Letture e divagazioni dantesche, Bari 1965, 45 ss.; S. Lorenzi, Stace vu par D., in " Bull. Société d'Etudes Dant. " XIII (1964) 53 ss.; M. Bontempelli, Il canto XXI del Purgatorio, in Lett. dant. 1095 ss.; L.A. Mac Kay, Statius in Purgatory, in " Classica et Medioevalia " XXVI (1965) 293 ss.; M. Sansone, Il canto XXI del Purgatorio, in Lect. Scaligera II 791 ss.; M. Martelli, Lettura stilistica del canto XXI del Purgatorio, in " Studi d. " XLVI (1968) 51 ss.; E.H. Wilkins, The Making of the ‛ Canzoniere ' and other Petrarchan Studies, Roma 1951, 15-20, 40-41; G. Brugnoli, Due note dantesche, in " Rivista Cultura Class. e Mediev. " VII (1965) 248 ss. (questo e lo studio del Wilkins indicano come la notizia della coronazione capitolina di S. dev'essere derivata a D., come al Petrarca, da un'erronea interpretazione di Theb. I 32-33 e Achill. I 15-16); A. Galletti, Il canto XXII del Purgatorio, in Lett. dant. 1113 ss.; F. Montanari, Il canto XXII del Purgatorio, Torino 1965; M. Pastore Stocchi, Il cristianesimo di S. (Purg. XXII) e un'ipotesi del Poliziano, in Miscellanea di studi offerta a Armando Balduino, Padova 1962, 41 ss.; B. Maier, Lettura del canto XXV del Purgatorio, in " Annali Triestini " XXIII (1953). 5 ss.; F. Fergusson, Canto XXV: The Perilous Passage, in Dante's Drama, cit., 143 ss.; G. Toffanin, Dal mio taccuino dantesco. Virgilio e S., in Atti I Congresso nazionale di Studi danteschi, Firenze 1962, 117 ss.; P. Nicosia, Come S., per D., abbia potuto apprendere da Virgilio che anche la prodigalità è peccato, in Alla ricerca della coerenza. Saggi d'esegesi dantesca, Messina-Firenze 1967, 241 ss.; V. Russo, A proposito del canto XXV del Purgatorio, in Esperienze e/di letture dantesche, Napoli 1971, 103 ss.; S. Mariotti, Il cristianesimo di S. in D. secondo Poliziano, in Letteratura e critica. Studi in onore di N. Sapegno, Roma 1975.