Ovidio Nasone, Publio
Il poeta latino (Sulmona 43 a.C. - Tomi sul Mar Nero 17 d.C.) è in If IV 90 collocato nel Limbo accanto a Omero, Orazio, Lucano.
Il primo accenno a O. che troviamo in D. sembra confermare che anche nell'Alighieri il contatto col Sulmonese doveva essere avvenuto nel quadro dell'eccezionale fortuna dei Carmina amatoria. In Vn XXV, nel luogo in cui singolarmente si parla degli stessi cinque poeti classici raggruppati nel canto IV dell'Inferno, riguardo a O. si citano i Remedia amoris: Per Ovidio parla Amore, sì come se fosse persona umana, ne lo principio de lo libro c'ha nome Libro di Remedio d'Amore, quivi: Bella michi, video, bella parantur, ait (§ 9; si cita cioè il secondo verso, il primo pentametro del componimento). Mentre, a tacer di Omero, di Virgilio e Orazio e Lucano si ricordano le opere che rimarranno fondamentali nello sviluppo della personalità di D., l'Eneide, i Sermones (nella specifica predilezione per l'Ars poetica) e la Farsaglia, per O., invece delle Metamorfosi e dei Fasti, resta in primo piano uno dei Carmina amatoria, e sia pure quello che, almeno in apparenza, voleva suonare condanna e rimedio dei trascorsi amorosi celebrati nei componimenti coevi. E che il richiamo all'O. amatorio sia il più consono alla sostanza stessa della poesia dantesca di allora lo dimostra il fatto che, mentre gli esempi degli altri poeti sono citati solo come testimonianza di discorso tra cose animate e inanimate o personificazioni di entità astratte, quello di O. è l'unico in cui parla Amore, sì come se fosse persona umana, né più né meno di quanto avviene nel sonetto precedente della Vita Nuova, di cui il capitolo XXV è il commento: e poi vidi venir da lungi Amore / allegro sì, che appena il conoscia, / dicendo (XXIV 7 3-5). Ai Remedia amoris si riferisce anche Dante da Maiano nel sonetto a D. che si legge nelle Rime (XLVI 5-6): " D'Ovidio ciò mi son miso a provare / che disse per lo mal d'Amor guarire ". Appartenendo questo sonetto al tempo della Vita Nuova, più significativa, sotto il profilo storico-culturale, è la conferma che esso offre riguardo al modo con cui per ora si profila l'influsso ovidiano sulla cultura dantesca.
Ma quando in VE II VI 7 si formula il canone dei ‛ regulati poetae ' nei quali anche i dicitori per rima debbono affisarsi, proprio e solo per O. si proclama la necessità di concentrarsi sulle Metamorfosi, si menziona specificamente il capolavoro, il poema di lungo respiro considerato alla pari con l'Eneide, con la Farsaglia e con la Tebaide: Et fortassis utilissimum foret ad illam [constructionem] habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum. Questo luogo registra uno dei mutamenti più significativi che la personalità di D. ha operato riguardo agl'indirizzi culturali della sua età: sul suo valore cfr. E. Paratore, p. 40. Non è più il " tenerorum lusor amorum " ad assidersi come modello, ma l'autore di un poema che segue il cammino dell'umanità dalle origini alla provvidenziale costituzione dell'Impero di Roma e obbedisce quindi, sia pure in forma complementare, alla funzione esercitata anche dalla Farsaglia e dalla Tebaide in confronto con l'Eneide, tanto più che, adombrando e dipingendo le infinite vicende di singolari, taumaturgiche trasformazioni, e adottando persino il rincalzo delle dottrine pitagoriche, si addentra nel complesso più geloso con cui si manifesta l'amministrazione provvidenziale dell'universo, palesa, nelle forme allegoriche cui era circoscritta in suo periclo la fantasia pagana, l'azione miracolosa del supremo potere moderatore e arbitro della vita del cosmo. Perciò non si riesce ad associarsi all'affermazione del Mattalia (commento a If IV 90) che " Le opere di Ovidio a cui Dante attinse in prevalenza sono le Metamorfosi, le Eroidi, gli Amori, l'Arte amatoria ". Proprio il bisogno che D. sentì di specificare Ovidium Metamorfoseos indica un preciso proposito di differenziazione.
In realtà degli Amores si potrebbe trovare un'eco solo nel celebre Ell'è Semiramìs di If V 58, che sembrerebbe echeggiare Am. I V 11-12 " qualiter in thalamos formonsa Semiramis [F. Munari, nella sua edizione, Firenze 1951, 11, ha adottato l'emendamento Sameramis del Knoche, suggerito da Corpus Inscriptionum Latinarum XIV 1541] isse / dicitur ", tanto più che la forma del nome sembrerebbe suggerita proprio dal luogo del poeta latino. Ma, a parte il fatto che Semiramis ritorna anche in Met. IV 58, nel pieno dell'episodio di Piramo e Tisbe notissimo a D., l'accostamento che nel luogo dell'Inferno dantesco si fa di Semiramide a Nino obbliga a riconoscere l'unica fonte in Orosio Hist. I 4, come ha ben visto il Sapegno (commento a If V 58), dato che ivi si legge che a Nino " mortuo Semiramis uxor successit... libidine ardens... quum omnes quos regiae arcessitos, meretricis habitu, concubitu oblectasset... praecepit... quod cuique libitum esset, licitum fieret ". Del resto lo stesso Mattalia adduce anche il luogo di Orosio e ricorda che esso è citato anche in Mn II VIII 3. Ma proprio in quel luogo della Monarchia è ricordato anche il passo di Met. IV che abbiamo già citato: Horum amborum Ovidius memoriam fecit in quarto, ubi dicit in Piramo: ‛ Coctilibus muris cinxisse Semiramis urbem ' et infra: ‛ Conveniant ad busta Nini lateantque sub umbra ', che è il v. 88 dell'episodio. Dal che si deduce che, se O. va affiancato a Orosio come fonte del ricordo di Semiramide e Nino in If V, lo deve essere per il luogo di Met. IV. E giacché siamo in If V, si tenga presente che nel fatto che Francesca narra di sé si è voluto trovare un'eco della struttura delle Heroides. Nel medesimo canto, per i vv. 65-66 e vedi 'l grande Achille, / che con amore al fine combatteo, si è voluto vedere anche l'eco di Ars am. II 711-712 " Fecit et in capta Lyrneside magnus Achilles, / cum premeret mollem lassus ab hoste torum ". Ma è evidente anche qui l'influsso di due celebri luoghi delle Metamorfosi, quello di XIII 441 ss., in cui si narra proprio il mito dell'ombra di Achille che richiede il sacrificio di Polissena, e quello di XII 597 ss. in cui si legge nuovamente (v. 615) " de tam magno ... Achille " e si narra il mito dell'uccisione di Achille a opera di Paride, e con espressioni (" victus es a timido Graiae raptore maritae ! / At si femineo fuerat tibi Marte cadendum ", vv. 609-610) che sembrano non rimanere estranee al congegno della frase dantesca che con amore al fine combatteo: sì che questo luogo potrebbe incoraggiare la tesi di quelli che nel Parìs del successivo v. 67 scorgono proprio Paride e non il cavaliere Paris, amico di Vienna, cioè un personaggio della medesima categoria del successivo Tristano.
Per le Heroides si è voluto vedere un influsso di XIV 132, l'ultimo verso della lettera di Ipermestra, " vires subtrahit ipse timor ", in If XXI 27 cui paura sùbita sgagliarda; e in If XXVI 7 Ma se presso al mattin del ver si sogna un influsso non solo di Orazio Sat. I X 33 " post mediam noctem visus, cum somnia vera ", ma anche di Her. XIX (lettera di Ero a Leandro) 195-196 " Namque sub aurora... / somnia quo cerni tempore vera solent ": e il riferimento a O. sembra più probabile, sia perché le Heroides dovevano essere sicuramente più familiari a D. che non le Satire di Orazio, sia perché l'espressione ovidiana " sub aurora " appare più vicina alla dantesca presso al mattin che non l'oraziana " post mediam noctem ". L'epistola di Leandro a Ero (XVIII) è fonte del ricordo del mito in Pg XXVIII 73-74. Per l'Ars amatoria si è voluto trovare un altro riscontro nel famoso passo di If V 131 e scolorocci il viso, che deriverebbe da Ars am. I 729 " Palleat omnis amans ! hic est color aptus amanti ". Ma il Contini ha suggerito una fonte molto più vicina a D. e molto autorevole nella regola XV del De Amore di Andrea Cappellano, " Omnis consuevit amans in coamantis aspectu pallescere ". E il Mattalia, nel commento a If V 131, citando i due riscontri, fa anche osservare che già in Vn XVI questa casistica topica compare rivelando un'elaborazione divenuta già personale in D.: quando questa battaglia d'Amore mi pugnava così, io mi movea quasi discolorito tutto; e così smorto, d'onne valor voto (§§ 4 e 9 10). Inoltre in If XXVII 7-12 (ricordo del toro di Falaride), si è voluto vedere, oltre che il ricordo di Orosio (I 20 1-4) e di O. Trist. III XI 39-54, anche quello di Ars am. I 653-656. Anche in questo caso, come per quello di If V 58, si potrebbe pensare alla prevalenza dell'influsso di Orosio, cui al massimo (come lì quello delle Metamorfosi, anziché degli Amores) quello ovidiano potrebbe affiancarsi solo in derivazione dal luogo dei Tristia, che è più esteso. Ma il luogo dell'Ars am. (" Et Phalaris tauro violenti membra Perilli / torruit: infelix imbuit auctor opus. / Iustus uterque [Busiris et Phalaris] fuit: neque enim lex aequior ulla est, / quam necis artifices arte perire sua ") sembra effettivamente riecheggiato nel luogo dantesco (Come 'l bue cicilian che mugghiò prima / col pianto di colui, e ciò fu dritto, / che l'avea temperato con sua lima, / mugghiava con la voce de l'afflitto), specie per l'affermazione della legge del contrapasso (" iustus uterque fuit "; e ciò fu dritto), che è così cara a Dante. Finalmente in If XXXI 4-6 (così od'io che solea far la lancia / d'Achille e del suo padre esser cagione / prima di trista e poi di buona mancia) si è voluto veder l'eco non solo di Trist. V II 15-16, ma anche di Rem. am. 47-48 (i riscontri con Met. XIII 171-172, addotto dal Sapegno e dal Mattalia, e con Met. XII 111, addotto dal Mattalia, sono assolutamente illusori) " Vulnus in Herculeo quae quondam fecerat hoste, / vulneris auxilium Pelias hasta tulit "; ed è ipotesi accettabile, tanto più perché l'espressione " Pelias hasta " giustifica quella di D. che la lancia era d'Achille e del suo padre. Questo è tutto quanto è ravvisabile in D. dei Carmina amatoria di Ovidio. E anche delle elegie dell'esilio, oltre che nel passo di If XXVII 7 ss., l'unico cenno plausibile di riscontro è in If II 61 l'amico mio, e non de la ventura, ove son giustificabili gli echi non solo del Commento di Abelardo (" fortunae potius... amici quam hominis ") ma anche di Pont. I IX 15-16 e Trist. I V 33-34 " Vix duo tresve mihi de tot superestis amici: / cetera Fortunae, non mea, turba fuit ".
Facile rilievo, anche se non meritevole di eccessiva considerazione, e che gli scarsi spunti derivabili dai Carmina amatoria sono riscontrabili solo nell'Inferno (salvo il caso di Pg XXVIII 73-74), quasi a provare il graduale distacco di D. da quell'aspetto dell'opera ovidiana su cui si era fermata la sua giovinezza e che tanto peso aveva avuto e aveva nella cultura dell'età precedente e contemporanea. Ozioso sarebbe invece voler soffermarsi sulle interpretazioni delle Metamorfosi da parte di Giovanni del Virgilio (su cui cfr. F. Ghisalberti, Mitografi e Giovanni del Virgilio, cit. in bibl.), per favoleggiare di un influsso che D. avrebbe ricevuto, nel suo volgersi alle Metamorfosi, da parte dell'ambiente padovano di cui Giovanni del Virgilio sarebbe stato il tramite, né più né meno di com'è stato supposto per una sua tardiva conoscenza di Seneca tragico (v. SENECA). La sua considerazione preminente, anzi esclusiva delle Metamorfosi risale, come abbiamo visto, già ai tempi del De vulg. Eloq., anzi del Convivio, dove in Il I 3 incontriamo, con la specifica citazione di O. (e quindi di Met. X 86 ss.), il mito di Orfeo, proprio come esempio del senso allegorico. Basta questo luogo per farci intendere in che senso D. ritenesse sommamente significativo il poema ovidiano come opera racchiudente un insegnamento provvidenziale in grado non molto inferiore a quello dell'Eneide e pari a quello della Farsaglia e della Tebaide. E quanto all'espressione, si noti come la successione fiere-alberi-pietre (Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere) non s'ispiri soltanto, con una leggera inversione, a quella alberi-fiere-pietre di Met. XI 1-2 (" Carmine dum tali silvas animosque ferarum / Threicius vates et saxa sequentia ducit "), come annotano tutti i commentatori, ma riassuma anche il grande pezzo di bravura del già citato luogo di Met. X, dove ci si diffonde a lungo sui vari alberi che accorrono al suono e al canto di Orfeo, e poi (vv. 143-144) si registra anche l'affollarsi delle fiere e degli uccelli. Va da sé che su questa base il ricordo di Orfeo in If IV 140 ci dovrà apparire ispirato da O. non meno che da Virg. Buc. III 46, IV 55-57 (anche se nel luogo dell'Inferno Orfeo è affiancato a Lino come in questo delle Bucoliche), VI 30 (dove pure al v. 67 è nominato Lino), VIII 56, ed Aen. VI 645-647. Non diversamente il brano del libro II di Lucano relativo a Catone e Marzia, prima di essere ricordato nel canto I del Purgatorio, ha ricevuto ampia interpretazione allegorica in Cv IV XXVIII, e personaggi staziani ricordati in Pg XXII hanno già ricevuto un'interpretazione anagogica in Cv IV XXV.
In Cv II V 14 abbiamo un interessante documento di come D. cominciasse a ispirarsi alle Metamorfosi anche per la topica erotica che prima e anche in seguito lo aveva e lo avrebbe richiamato ai Carmina amatoria: Ovidio, nel quinto di Metamorphoseos ... dice che Venere disse ad Amore: " Figlio, armi mie, potenzia mia " (v. 365); e si noti anche qui come D. inverta parzialmente l'ordine degli elementi menzionati da O.: all'ordine ovidiano armi-figlio-potenza si sostituisce l'ordine figlio-armi-potenza (e il termine manus è omesso). In Cv III III 7 abbiamo la significativa consacrazione formale della preminenza riconosciuta alle Metamorfosi, in quanto, a proposito del mito di Ercole e Anteo, si ricorda che lo si legge ne le storie d'Ercule, e ne l'Ovidio Maggiore e in Lucano e in altri poeti: e cfr. Mn II VII 10 in illo duello Herculis et Anthaei, cuius Lucanus meminit in quarto Farsaliae et Ovidius in nono De rerum transmutatione. Ciò conserva la sua importanza, anche se stavolta la tenuità del cenno ovidiano (Met. IX 183 -184 " saevoque alimenta parentis / Antaeo eripui ") ha fatto sì che D., al momento di raffigurare Anteo in If XXXI, s'ispirasse, tra le fonti classiche, prevalentemente a Lucano (v. LUCANO) che già, nel luogo della Monarchia, è significativamente preposto a O. fra quelli che hanno parlato del mito.
Che nel Convivio ricorrano altri luoghi in cui si tratta di passi ovidiani poi ricordati anche nella Commedia ce lo testimonia anche IV XV 8 in cui si discute l'origine dell'umanità da un solo progenitore (sempre, quindi, un'interpretazione delle Metamorfosi come opera adombrante le supreme verità) e in cui sono evidentemente trascritti i vv. 78-83 del libro I delle Metamorfosi, dove poi, al v. 82, D. segue la lezione " fluvialibus " dei codici, adottata da molti editori, mentre ora alcuni le sostituiscono " pluvialibus " del fragmentum Bernense del sec. IX, delle Narrationes fabularum Ovidianarum di Lattanzio Placido e di Ugo Magno, che è in effetti lezione più attendibile. Nel medesimo libro IV del Convivio altre due citazioni delle Metamorfosi: in XXIII 14, a proposito dei nomi dei cavalli del Sole, si fa ricorso al mito ovidiano di Fetonte, e sono infatti citati i vv. 153-155 del libro I.
Ciò che stupisce è che tutta la tradizione manoscritta di O. è concorde nel porre Pyrois prima di Eous, mentre D. inverte l'ordine, rispettandolo invece per gli altri due cavalli (v. FILOGEO). Abbiamo qui il secondo anticipo del ricordo dell'episodio ovidiano, che ricorre frequentemente nella Commedia. Il primo è in Cv II XIV 5-7, a proposito della Galassia; si vedano quindi If XVII 106-108 Maggior paura non credo che fosse / quando Fetonte abbandonò li freni, / per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse, dove come pare ancor fa proprio riferimento a ciò che è detto della Galassia in Cv II XIV, mentre l'espressione riecheggia, riassumendo, il felicissimo brano di Met. II 178-213 (e il trovarsi " Phaëthon " nel luogo ovidiano fa pensare che si possa ancora difendere in If XVII 107 la variante Fetòn, che il Petrocchi ha abbandonata per la lezione Fetonte); Pg IV 71-72 onde la strada / che mal non seppe carreggiar Fetòn; XXIX 118-120 (quel [il carro] del Sol che, svïando, fu combusto / per l'orazion de la Terra devota, / quando fu Giove arcanamente giusto), che allude ai vv. 272 ss. di Met. II, dove l'" alma... Tellus... sacra... voce locuta est " a Giove, e il " pater omnipotens ", colpendo il carro con la folgore, fa sì che " illic frena iacent, illic temone revulsus / axis, in hac radii fractarum parte rotarum, / sparsaque sunt late laceri vestigia currus " (onde in arcanamente alcuni han voluto scorgere l'incomprensibilità del giudizio divino, altri l'occulta allegoria della giustizia del vero Dio raffigurata nell'azione del dio falso e bugiardo, altri addirittura l'allusione al carro della Chiesa mal condotto, secondo quanto si dice in Ep XI 5, menzionando di nuovo il mito di Fetonte); Pd XVII 1-2 Qual venne a Climenè, per accertarsi / di ciò ch'avëa incontro a sé udito, in cui si risale alla prima parte dell'episodio ovidiano, quella di Met. I 755-756 " Erubuit Phaëthon... / et tulit ad Clymenen Epaphi convicia matrem "; Pd XXXI 124-125 quivi ove s'aspetta il temo / che mal guidò Fetonte, ove si riecheggia ancora una volta " temone revulsus / axis " di Met. II 316-317. Come già abbiamo accennato, il ricordo del mito ritorna nell'epistola ai cardinali italiani (XI 4): Vos equidem, Ecclesiae militantis veluti primi praepositi pili, per manifestam orbitam Crucifixi currum Sponsae regere negligentes, non aliter quam falsus auriga Phaeton exorbitastis. È un caso, questo di Fetonte, fra i più significativi del modo in cui D. intendeva e si appropriava della poesia ovidiana, scorgendovi un'altissima raffigurazione allegorica di principi cosmologici e morali.
L'altra citazione delle Metamorfosi ravvisabile nel libro IV del Convivio è in XXVII 17 ss.: è questo forse il caso di più minuto riferimento a un testo classico che si possa riscontrare nell'opera dantesca. Vi è contenuto tutto il brano di Met. VII 453 ss., naturalmente interpretato anch'esso in tono di exemplum di natura epica. Sembra quasi, perciò, che D. perpetui quello che è stato ritenuto uno dei caratteri fondamentali dell'epica e della storiografia romana sin dalle origini, quello cioè che a fondamento e a educazione della comunità si dovessero organizzare le patrie memorie come un tessuto di exempla atti a corroborare la virtus del cittadino. S'intende che con D. l'eticità degli exempla è trasportata sul piano della provvidenzialità cristiana. Può sorprendere che D. nella citazione taccia il nome, Egina, dell'isola di cui Eaco è re e dove Cefalo si reca. In compenso egli vuol porre in rilievo la discendenza di Eaco, tanto più che O. ne parla in due distinti luoghi dell'episodio, ai vv., 475-479 (e si noti come D. nomini nel medesimo ordine i tre figli di Eaco), e ai vv. 668-671.
È da osservare anche che, riassumendo l'episodio, D. antepone il lungo racconto di Eaco ai vv. 518-660 sulla peste che aveva colpito Egina, la sua preghiera a Giove e il miracoloso ricostituirsi di un nuovo grande popolo col particolare (vv. 652-653) " populisque recentibus urbem / partior et vacuos priscis cultoribus agros ", reso con esso fu partitore a nuovo popolo e distributore de la terra diserta sua, e poi trascrive le parole di Eaco a Cefalo, che in O. precedono ai vv. 507-511 " ‛ Ne petite auxilium, sed sumite ', dixit, ‛ Athenae! / Nec dubie vires, quas haec habet insula, vestras / dicite et omnia, quae rerum status iste mearum: / robora non desunt, superat mihi miles et hostis. / Gratia dis, felix et inexcusabile tempus ' ".
La fedelissima versione di D., che omette solo " gratia dis " (come in Cv IV XV omette " mundi melioris origo " di Met. I 79), è interessante anche per quello che ci rivela sul testo ovidiano posseduto dal poeta. Il passo infatti è gravato da parecchie incertezze testuali. Al v. 509 D. legge " dicite " con la totalità dei manoscritti pervenutici, mentre i codici ignoti adoperati dal Heinsius leggevano " ducite ", adottato da molti editori. Per giunta il verso, per la successiva espressione " et omnia ... " è segnato di crux o atetizzato o variamente emendato da molti editori; al successivo v. 510 " et hostis " è lezione solo di alcuni codici principali, accettata dal Magnus, mentre molti altri codici, tutte le prime edizioni e quasi tutti gli editori più recenti leggono " et hosti ", come dativo in dipendenza da " superat ": e del resto anche chi adotta la lezione " hostis " l'intende come accusativo in dipendenza da " superat ", mentre D., traducendo forze... sono a noi di soperchio, e lo avversario è grande, ha inteso " hostis " come nominativo facendone un soggetto di " superat " al pari di " miles " e quindi rendendo il verbo in due forme diverse per adattarlo a entrambi i soggetti. Si noti poi come il riscontro con la descrizione ovidiana della peste di Egina (e qui con il nome dell'isola) ritorni in If XXIX 58 ss., ove l'allusione a O. è nascosta in forma generica (secondo che i poeti hanno per fermo, v. 63), proprio mentre si ricorda il caratteristico passo ovidiano (Met. VII 624 ss.) che i nuovi uomini si ristorar di seme di formiche.
In VE I II 7 troviamo il primo accenno (de eo quod Ovidius dicit in quinto Metamorfoseos de picis loquentibus) al mito delle Piche ricordato in Pg I 10-12. Qui esso è addotto solo per specificare quod hoc figurate dicit, aliud intelligens, perché le piche, in quanto uccelli, non potevano parlare. Ma, come allora si sarebbe potuto obiettare a D. che O. aveva posto le parole in bocca alle Pieridi prima della metamorfosi, così più chiaramente il mito è ricordato in Pg I. Ma il riscontro di VE I II serve anche a mostrare che le due invocazioni all'inizio del Purgatorio (I 7-12) e del Paradiso (I 13 ss.), comportanti il richiamo a due miti ovidiani, non sono da considerare due connessioni a un incipiente uso umanistico, ma la solita fedeltà a un valore altamente allegorico ravvisato nei due miti ovidiani, su cui già da tempo il poeta aveva cominciato a meditare, anche se fra Guido Vernani (cfr. B. Nardi, Saggi e note di critica dantesca, Milano 1966, 382) trovò modo di rimproverargli di aver invocato quelle che Boezio aveva chiamate sgualdrinelle. Il Paratore (p. 79 n. 24) ha discusso l'analisi che il Brugnoli ha condotta del luogo del Purgatorio in confronto con Met. V 338 ss., notando " la possibilità che al v. 12 di Purg. I anziché lo colpo sia da leggere la colpa (lezione del codice di Cortona), perché in Met. V 666 Ovidio adopera per le Piche il termine culpae " e affermando " che in ogni caso, se dobbiamo conservare la lezione lo colpo, questa è allusiva al tocco delle corde ad opera di Calliope, espresso da Ovidio al v. 339 (Calliope querulas praetemptat pollice chordas) ". Egli per giunta ha posto in rilievo che il dantesco disperar del v. 12 " è forse un'eco antifrastica dello spernunt... minacia verba delle Piche al v. 669 di Ovidio ". E ciò ha la sua importanza, perché, come ricorda il Sapegno, in O. " l'atteggiamento delle Pieridi è rappresentato protervo e sprezzante anche dopo la fine della gara (e il Buti proponeva di leggere " dispettar perdono ", " ebbeno in dispetto che fusse loro perdonato ").
In VE I VI 3 leggiamo il primo accenno a un motivo la cui origine ovidiana è ancor più chiara in Ep III ed è palese in Pd XVII 46-48. Ivi infatti si legge: Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus aequor, quanquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste. Evidente è la coincidenza con l'inscriptio di Ep III Exulanti Pistoriensi Florentinus exul inmeritus. Questo è un richiamo indiscutibile a Met. XV 504, in cui Ippolito, divenuto la divinità latina Virbio e il fondatore di Aricia, lamenta di essere stato cacciato immeritamente in esilio dal padre per la calunnia di Fedra. Ma tutti i codici a noi pervenuti recano di quel verso la lezione " damnavit, meritumque nihil pater eicit urbe ", mentre la lezione evidentemente seguita da D., " arguit immeritumque pater proiecit ab urbe ", è solo nei codici perduti che sono stati seguiti dal Heinsius, in due delle prime edizioni, fra cui l'Aldina, ed è quella seguita nella versione greca di Massimo Planude; la segue anche la maggioranza degli editori. Dobbiamo quindi supporre che D. seguisse un codice di questa da noi smarrita tradizione; e ciò rende irrealizzabile il sogno di scovare una traccia della mano di D. in uno dei nostri codici ovidiani di età preumanistica. Che l'epistola a Cino da Pistoia s'ispiri a O. è poi confermato dal fatto che al § 7 troviamo il ricordo esplicito di un altro mito delle Metamorfosi, quello di Leucotoe (IV 190 ss.): Auctoritatem vero Nasonis, quarto De Rerum Transformatione (e si noti come, in obbedienza al più retorico stile epistolare, si abbandonino le consuete denominazioni Ovidius e Metamorfoseos in favore delle più marcatamente letterarie Naso e De rerum transformatione: ma già in Mn II VII 10 abbiamo trovato De Rerum Transmutatione); dove ancora una volta troviamo il riassunto di un lungo episodio ovidiano, con la messa in evidenza di un brano, in questo caso il secondo emistichio del v. 192 (" Quid nunc, Hyperione nate "), all'inizio dell'episodio (sull'insostenibilità della tesi di P. Renucci, che giudica apocrifa l'epistola e ravviserebbe una prova della non autenticità in alcune volute ma in realtà inesistenti reminiscenze dei Tristia, cfr. Paratore, p. 79 n. 24). La conferma definitiva ce la dà il già citato luogo di Pd XVII 46-48 Qual si partìo Ipolito d'Atene / per la spietata e perfida noverca, / tal di Fiorenza partir ti convene. " Il secondo verso riecheggia, anche col suo latinismo noverca, il v. 498 dell'episodio ovidiano, sceleratae fraude novercae " (Paratore, p. 80, da consultare su tutta la questione). Con la sua tendenza a valorizzare, sulle orme dell'Eneide, tutti i luoghi della poesia latina classica, specie epica, che ravvisassero la presenza di un volere provvidenziale nelle vicende dell'antico Lazio, D. doveva essersi soffermato con particolare attenzione sull'episodio ovidiano di Ippolito-Virbio.
L'ultimo luogo di opere diverse dalla Commedia in cui si rinviene un'eco di O. è VE I XVII 2 et hoc modo viros appellamus illustres, vel quia potestate illuminati alios et iustitia et caritate illuminant, vel quia excellenter magistrati excellenter magistrant, ut Seneca et Numa Pompilius. " Numa Pompilio è ricordato proprio nello spirito dell'ultimo libro delle Metamorfosi (vv. 479-490), più che in quello di Livio e di Floro addotti in nota dal Marigo, come esempio di magistrati (cioè ‛ irrorati di sapienza '), che illuminati alios et iustitia et caritate illuminant " (Paratore, p. 81). Si guardi infatti in O. " talibus atque aliis instructo pectore dictis [corrispondente allo illuminati e magistrati di D.] /in patriam remeasse ferunt ultroque petitum / accepisse Numam populi Latialis habenas / ... Sacrificos docuit ritus gentemque feroci / adsuetam bello pacis traduxit ad artes " (iustitia et caritate illuminant ed excellenter magistrant in Dante). L'ultimo libro delle Metamorfosi, che tanto ha attirato D. con la sua virgiliana organizzazione delle leggende del Lazio, ci fa meglio intendere con quale spirito il poeta fiorentino abbia interpretato il poema ovidiano.
Se già così spesso O. si affaccia nelle altre opere del corpus dantesco, si può ben immaginare (e abbiamo già cominciato a constatarlo) quanto i ricordi delle Metamorfosi costellino la Commedia. Talvolta si tratta di cenni che si affiancano a spunti tratti da altre opere classiche. Così in If I 98 la famosa frase esprimente l'insaziabilità della lupa che mai non empie la bramosa voglia discende sì, principalmente, da Cicerone Par. 1, come nota il Sapegno, dato che il luogo ciceroniano è già ricordato in Cv IV XII 6 E però dice Tullio in quello De Paradoxo... in nullo tempo si compie né si sazia la sete de la cupiditate, ma risente anche di un episodio ovidiano ripetutamente echeggiato nella Commedia, quello delle età in Met. I, dove, a proposito dell'età del ferro, ai vv. 130-131 si legge: " in quorum [veri fideique] subiere locum fraudesque dolique / insidiaeque et vis et amor sceleratus habendi ". E tale riscontro è più plausibile di quello, addotto da altri, di Virg. Aen. III 56-57 " Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames ", dato che in Pg XXII 40-41 c'è la famosa interpretazione a rovescio dei versi virgiliani, che alcuni hanno giudicato un fraintendimento, altri una voluta esegesi estensiva (e su ciò cfr. A. Ronconi, L'incontro, ecc., citato in bibl.). Così la descrizione di Cerbero in If VI 13-18, se deriva principalmente da Aen. VI 417 ss., non trascura neanche la raffigurazione ovidiana in Met. IV 450-451 " tria Cerberus extulit ora / et tres latratus semel edidit ". Sappiamo che D. eredita principalmente da Virgilio i custodi dei cerchi infernali; ma vedremo che anche in If XXV la raffigurazione di uno di questi personaggi, Caco, oltre che da Virgilio discende da un passo dei Fasti ovidiani. Corda non pinse mai da sé saetta / che sì corresse via per l'aere snella di If VIII 13-14 secondo tutti i commentatori non discende solo da Aen. X 247-248 " fugit illa per undas / ocior et iaculo et ventos aequante sagitta " e XII 856 " non secus ac nervo per nubem impulsa sagitta ", ma anche da Met. VII 776-777 " non ocior illo / hasta nec excussae contorto verbere glandes ". Non altrimenti in If IX 38 ss., nella descrizione delle Furie, D. ha contaminato Virgilio Aen. VI 570-572, VII 324-329, XII 845-848, Stazio Theb. I 103-115, e O. Met. IV 451-454, dove esse appunto sono scorte sulla soglia dell'Inferno, " carceris ante fores... / deque suis atros pectebant crinibus angues ", come quelle dantesche serpentelli e ceraste avien per crine, a parte il fatto che di " cerastae " si parla più specificamente al v. 103 del passo staziano; e si tenga presente che il passo di O. è il medesimo che D. ha riecheggiato per la raffigurazione di Cerbero. In If XII 12, la definizione infamia di Creti data del Minotauro è stata intesa come proveniente non solo da " Veneris monumenta nefandae " di Aen. VI 26, ma anche da O., per non parlare di Orosio Hist. I 13. Si è avvertita la derivazione da Ars am. I 295 ss., dov'è raffigurata l'insana passione di Pasifae nei modi assurdi della sua estrinsecazione (e anche per questo l'avvio è dato da un luogo virgiliano, Buc. VI 45-60). Ed effettivamente nel luogo dell'Ars amatoria, ai vv. 297-298, c'è l'unica espressione che può avvicinarsi alla definizione dantesca del Minotauro: " non hoc, centum quae sustinet urbes, / quamvis sit mendax, Creta negare potest ". Ma chi finora ci ha seguiti avrà notato che alle suggestioni dell'Eneide D. ha sempre preferito affiancare quelle delle Metamorfosi; e lì, nell'episodio di Scilla, Niso e Minosse, vi è un'espressione dell'eroina (VIII 131-133) che basta a giustificare anch'essa la frase di D.: " Te vero coniuge digna est, / quae torvum ligno decepit adultera taurum / discordemque utero fetum tulit ! ". E si ricordi che il mito di Scilla è intrecciato a quello di Pasifae anche nel luogo dell'Ars amatoria e in Buc. VI 74 ss. In If XIII 31 ss., accanto al prevalente e dichiarato (v. 48) influsso dell'episodio virgiliano di Polidoro in Aen. III 19 ss., si è voluta vedere anche un'eco dell'episodio di Driope in Met. IX 326 ss., tanto più che cose che torrien fede al mio sermone del v. 21 è stato visto discendere da Fast. II 113 (" fide maius ") e il lamento dello sterpo in cui Pier della Vigna è trasformato e l'essenza stessa dell'episodio sono state viste discendere anche dall'episodio delle Eliadi in Met. II 358 ss. (episodio notissimo a D. perché conclusivo di quello di Fetonte). Sui rapporti con l'episodio di Driope, cfr. Paratore, pp. 187 e 194-195. E quanto al brano sopra indicato di Met. II, si noti che al v. 360 il Laurenziano XXXVI 12 del sec. XI reca " manant tamquam de cortice guttae ", invece di " de vulnere guttae ". D. che al v. 34 scrive che il tronco fatto fu poi di sangue bruno, e ai vv. 43-44 che de la scheggia rotta usciva insieme / parole e sangue, leggeva forse in O. questa lezione? una lezione che si accordava con quella del v. 33 di Virgilio (" ater et alterius sequitur de cortice sanguis "), e poteva suggerire l'espressione a D. con " cortex in verba novissima venit " del v. 363?
Parimenti l'episodio di If XX 55 ss. in cui campeggia Manto, se trova il suo primo spunto in Aen. X 199 e si riferisce ai due luoghi di Stazio Theb. IV 463-466 e VII 758-759, non può sottrarsi al riscontro con Met. VI 157-159, perché là di Manto si dice che girò il mondo, si specifica cioè proprio la caratteristica su cui per lei si sofferma D. (Manto fu, che cercò per terre molte / ... questa gran tempo per lo mondo gio): " Nam sata Tiresia [e cfr. Pg XXII 113 la figlia di Tiresia] venturi praescia Manto / per medias fuerat, divino concita motu, / vaticinata vias ". L'episodio di Anteo in If XXXI è tramato principalmente su Lucano IV 590 ss. (v. LUCANO); ma quando nel v. 124 si legge Non ci fare ire a Tizio né a Tifo, al preponderante ricordo lucaneo s'intrecciano quelli di Met. IV 457 (" Viscera praebebat Tityos lanianda "), III 303 (" Nec quo centimanum deiecerat igne Typhoea ") e molti del libro V, in cui s'insiste a nominare Tifeo ai vv. 321-322, 325,353 (e si ricordi che questo luogo sarà echeggiato da D. anche in Pd VIII 67 ss. a proposito della Sicilia). Naturalmente a questi spunti s'intrecciano anche quelli virgiliani, da Aen. VI 595 ss. per Tizio e da VIII 298 e IX 716 per Tifeo. Così in Pg XII 50-51 come Almeon a sua madre fé caro / parer lo sventurato addornamento, si è voluta vedere l'eco non solo di Stazio Theb. IV 187 ss. (certo più specificamente relativo al mito che non II 265 ss., su cui si soffermano i commentatori, dato che lì si parla solo del monile di Argia divenuto infausto " donante marito " e si preannuncia la luttuosa storia) e di Aen. VI 445-446 (e gli scoliasti di Virgilio e Stazio avranno suggerito a D. il nome di Alcmeone che manca in tutti i luoghi qui ricordati dei poeti latini), ma anche di Met. IX 407-408. E questo riscontro è tanto più legittimo in quanto in Pd IV 103-105 D., tornando sul mito, ne parla in un modo (come Almeone, che, di ciò pregato / dal padre suo, la propria madre spense, / per non perder pietà si fé spietato) che presuppone specificamente il luogo ovidiano: " ultusque parente parentem / natus erit facto pius et sceleratus eodem ".
Questo sfruttamento parallelo di O. e di altri poeti avviene anche per episodi di notevole importanza. Così è nel celebre luogo della Fortuna in If VII 61 ss. L'interpretazione provvidenziale di questo personaggio simbolico può apparire l'esatta inversione del concetto ellenistico-romano della Τύχη presente nella poesia latina pagana. Ma se c'immedesimiamo solo per un po' nel concetto dantesco che i poeti latini classici erano stati condotti da Dio a intravvedere e adombrare l'essenza delle eterne verità, anche la concezione della Fortuna capricciosa e mutevole che appare in If VII come evidente eredità della poesia pagana si colora proprio dell'intima convinzione del poeta che gli autori classici l'hanno raffigurata così proprio per far intendere che il vertiginoso trasmutare dei beni mondani obbedisce all'occulto volere che regge il mondo. Partendo da questo presupposto ben si può intendere come D. dovesse sentire gli spunti di Met. VI 195 ss. in cui Niobe, esponendosi al castigo degli dei, osa affermare " Maior sum, quam cui possit Fortuna nocere; / multaque ut eripiat, multo mihi plura relinquet ", cui fa significativamente eco la supplica disperata dei vv. 299-300 (" Unam minimamque relinque ! / De multis minimam posco... et unam "), quando Apollo e Diana per punirla le sterminano i figli; di Met. VIII 73, in cui un'altra donna colpevole, Scilla, osa addirittura invocare la Fortuna come complice del suo delitto (" ignavis precibus Fortuna repugnat "); di Fast. VI 569, 617, 737-775, in cui la Fortuna, come divinità venerata dai Romani, appare proprio nume provvidenziale, specie per la protezione accordata a Servio Tullio. S'intende che l'influsso di O. per questo topico concetto s'intreccia a quello di altri poeti latini ben noti a D.: è stato già notato che il v. 84 che è occulto [il giudicio] come in erba l'angue deriva da Buc. III 93 " latet anguis in herba ". E più che ai molti luoghi virgiliani (Aen. V 22-23, 709-710, VIII 333-335, X 48-49) penserei al poema di Lucano, ove la Fortuna ha una funzione capitale. Ma è indubbio che i luoghi ovidiani già ricordati hanno avuto il loro peso nel persuadere D. che la sua concezione della Fortuna trovava un precedente in quella espressa dai poeti latini. (Sul problema cfr. R. Ortiz, Fortuna labilis. Storia di un motivo poetico da Ovidio a Leopardi, Bucarest 1927; S. Battaglia, La tradizione, citato in bibl., VI [1959] 221-222; A. Vallone, Dante, Milano 1971, 370; e la voce FORTUNA).
Una precisa coscienza della concordanza di O. con altri autori su argomenti capitali è espressa da D. in Pg XXVIII 139-141, dove è evidente l'eco dell'egloga quarta di Virgilio (cfr. per es. v. 30 " et durae quercus sudabunt roscida mella "), tant'è vero che ai vv. 146-147 Virgilio è descritto ridente per aver ascoltato l'ultimo verso pronunciato da Matelda. Ma più evidente ancora è l'eco di Met. I 89 ss. (" sine lege fidem rectumque colebat.../ ver erat aeternum... / iam flumina nectaris ibant "), l'episodio in cui l'età dell'oro era cantata non, come in Virgilio, quale ideale riconquistabile, ma come effettivo, remoto, originario periodo dell'esistenza umana, l'episodio di cui abbiamo riscontrato già altri riecheggiamenti, e che poco prima era stato già parafrasato in Pg XXII 148-150. Lo secol primo, quant'oro fu bello, / fe' savorose con fame le ghiande, / e nettare con sete ogne ruscello (cfr. " et quae deciderant patula Iovis arbore glandes /... iam flumina nectaris ibant "). Di esso poi una speciale rielaborazione, intrecciata col libro biblico di Daniele (2, 31-40) e con Giovenale XIII 28-30, è fatta in If XIV 94 ss., per la raffigurazione del veglio di Creta con le sue membra d'oro, d'argento, di rame e di ferro come le età del luogo ovidiano; e va avvertita nel brano anche l'eco di Fast. IV 197-211 e V 115-116: cfr. Paratore, pp. 241 ss.; e la voce GIOVENALE.
Altro brano ovidiano più frequentemente riecheggiato da D. (e del resto tra i più fortunati nel Medioevo) è quello di Piramo e Tisbe di Met. IV. In Pg XXVII 37-39 la tragica scena conclusiva dell'episodio è rievocata (Come al nome di Tisbe aperse il ciglio / Piramo in su la morte, e riguardolla, / allor che 'l gelso diventò vermiglio) coi termini di Met. IV 125 ss. " Arborei fetus aspergine caedis in atram / vertuntur faciem, madefactaque sanguine radix / purpureo tingit pendentia mora colore / ... Ad nomen Thisbes oculos iam morte gravatos / Pyramus erexit visaque recondidit illa / ... Nam color in pomo est, ubi permaturuit, ater ". E forse al v. 145 D. leggeva " in morte " come i numeri 223 e 225 della biblioteca Laurenziana di Firenze (provenienti dall'ex convento di S. Marco), il Laurenziano XXXVI 12, con cui abbiamo scoperto un'altra connessione per If XIII 43-44, e il n. 1415 della biblioteca di Graz. In Pg XXXIII 69 le reprimende di Beatrice contengono un più conciso accenno alla medesima scena: e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa. Per giunta S. Battaglia (op. cit., p. 54 n. 1) ha notato che " già nel v. 36 di Purg. XXVII... cioè subito prima di uno dei due accenni evidenti, c'è l'espressione ‛ tra Beatrice e te è questo muro ', che riprende una di s. Agostino (De ordine, I, 6), con allusione, comune ai due passi, alla parete che in Ovidio divide i due amanti, e che sia nel vescovo di Ippona sia nell'Alighieri è intesa come simbolo di una barriera che si erge fra l'individuo e il mondo superiore dei valori religiosi ".
Possiamo cominciare a scorgere nelle Metamorfosi il deposito da cui D. ha desunto quasi tutti i cenni mitologici che gremiscono la Commedia; ciò era comportato proprio dal senso allegorico-morale che egli scorgeva nei miti e riteneva avesse ispirato anche il poeta classico. I versi di If XII 67-69, dedicati al mito di Nesso e Deianira, riassumono l'episodio cantato in Met. IX 98 ss.: si guardi soprattutto e fé di sé la vendetta elli stesso, che riecheggia " Neque enim moriemur inulti " del v. 131 di Ovidio. Subito dopo il v. 72, col ricordo di Folo, affianca, all'influsso dell'Achilleide di Stazio, visibile anche nel precedente ricordo di Chirone, quello di Met. XII 306, in cui è nominato con altri il centauro al momento della zuffa con i Lapiti. Cominciamo a notare la specifica tecnica di D., che riecheggia spesso episodi di poeti classici in poche battute isolanti il carattere essenziale di ciascuno di essi. Ciò egli compie quasi sistematicamente con Lucano; ma anche con l'altrettanto diffuso O. dà numerosi esempi di questo comportamento. In If XVII 18 c'è il ricordo del mito di Aracne, occupante i vv. 5-145 di Met. VI, che ritorna in Pg XII 43-45, ove si riecheggia più da vicino la chiusa dell'episodio ovidiano, riassumendo in già mezza ragna la descrizione della metamorfosi tracciata da Ovidio. Ancora in If XVII i vv. 109-111 richiamano il mito di Dedalo e Icaro che O. cantò in Ars am. II 21 ss. e in Met. VIII 183 ss. È risaputo che i due episodi si corrispondono quasi alla lettera, specie nei due luoghi seguiti da vicino dall'Alighieri (Ars am. II 89 ss. e Met. VIII 225 ss.). Un riflesso particolare dell'Ars amatoria si potrebbe postulare nel grido del Dedalo dantesco, che sembra avvicinarsi di più a " quoque sub axe volas? " di Ars am. II 94 che non a " qua te regione requiram? " di Met. VIII 232. Ma non ci sembra ragione sufficiente per farci negare che anche stavolta D. abbia echeggiato un luogo delle Metamorfosi, tanto più che Mala via tieni è in fondo una citazione delle istruzioni che Dedalo dà a Icaro prima del volo, e che O. ha ripetute quasi alla lettera in Ars am. II 55-64 e in Met. VIII 203-209.
If XXIII 83-96, nel ricordo delle imprese di Giasone a Lemno con Issipile e Medea, è un altro luogo in cui s'intrecciamo influssi diversi: per il ricordo delle ardite femmine spietate (v. 89) di Lemno, c'è da rifarsi a Stazio Theb. V 445 ss., ma insieme a O. Her. VI 50 ss., che è proprio l'epistola di Issipile a Giasone, e specifica il particolare che la giovinetta / ... prima avea tutte l'altre ingannate. Il richiamo a Met. VII 1-158, fatto da alcuni commentatori, si giustifica, oltre che per il ricordo di Medea, prevalente in quel luogo, anche per quell'aspetto reale che Giasone conserva anche nell'Inferno e che nel luogo delle Metamorfosi è presentato come il motivo principale del fascino che il giovane esercita sulla fanciulla della Colchide. Si deve quindi ammettere in questo caso l'influsso anche di uno dei Carmina amatoria di O.; e bene il Sapegno richiama E.R. Curtius, Das Schiff der Argonauten (in Kritische Essays für europäische Literatur, Berna 1950, 398-428), sull'importanza del luogo quale documento di un'ammirazione in senso preumanistico per l'impresa mitica (e così in Pd XXXIII 96), proprio nello spirito con cui l'aetas Ovidiana assimilava gli spunti del poeta di Sulmona. Strano invece è che egli adduca a proposito di D. il secondo libro degli Argonautica di Valerio Flacco; riferimento che nel Mattalia (op. cit., I, p. 362) si trasforma nell'affermazione che Valerio Flacco è tra le fonti di D.: palese svista, dato che Valerio Flacco era ignoto al Medioevo e fu riscoperto da Poggio Bracciolini nel sec. XV. In Pd II 16-18 è più palese la presenza dell'episodio delle Metamorfosi, perché dire che i glorïosi che passaro al Colco si meravigliarono quando Iasón vider fatto bifolco è un preciso riferimento a Met. VII 118-121. Un passo in cui analogamente bisogna scorgere l'eco intrecciata delle Heroides e delle Metamorfosi è Pd IX 100-102, in cui si allude all'amore di Fillide per Demofoonte e a quello di Ercole per Deianira; per il primo mito è evidente il collegamento con l'epistola ovidiana di Fillide a Demofoonte, la seconda delle Heroides, tanto più che il primo verso di essa, " tua te Rhodopeia Phyllis ", riecheggia nel dantesco quella Rodopea, che fa sospettare che il poeta avesse inteso l'appellativo " Rhodopeia " di O. come nome proprio; ma per il secondo mito, più che pensare alla nona delle Heroides, all'epistola di Deianira a Ercole, come la maggior parte dei commentatori, pare sia il caso di pensare a Met. IX 137-140, sul cui ultimo verso sembra modellato il v. 102 di D., quando Iole nel core ebbe rinchiusa.
Riprendendo l'esame dei luoghi della Commedia che traggono lo spunto da episodi delle Metamorfosi, osserviamo che le due terzine di If XXIV 106-111 relative alla fenice riprendono in pieno Met. XV 392 ss. In questo incontro, che è fra i più letterali che si ravvisino nella Commedia rispetto a testi classici (vicino infatti, come vedremo, è il luogo in cui O. sarà direttamente nominato), colpisce che " Assyrii " sia reso con li gran savi, a farci avvertiti che D. dava credito al rispetto che già il mondo classico manifestava per gli astrologi caldei. If XXVI 91-92 Circe, che sottrasse / me più d'un anno là presso a Gaeta, riproduce Met. XIV 308 " annua nos illic tenuit mora ", mentre il successivo v. 93 prima che sì Enëa la nomasse, intreccia agli spunti virgiliani quello di Met. XIV 157 [Enea] " litora adit nondum nutricis habentia nomen ".
If XXX presenta numerosi spunti ovidiani: i vv. 1-12 riassumono la narrazione del mito di Atamante in Met. IV 464 ss., e le si avvicinano in molti luoghi, come ai vv. 7-8 che trascrivono Met. IV 513-514; ai vv. 10-11 che trascrivono IV 516-519, e al v. 12 che trascrive IV 529-530. Si va palesando nei riguardi di O. una tecnica di più minuto e attento riecheggiamento (anche là dove la descrizione del modello è riassunta), che non si ravvisa nei riscontri con altri poeti. A scoraggiare poi le nostre ipotesi tendenti a identificare il codice delle Metamorfosi consultato da D. o la sua famiglia, a Met. IV 513 proprio il Laurenziano XXXVI 12, che ci è parso concordare col testo seguito da D. per altri passi, reca " pandite " invece di " tendite " della maggior parte della tradizione, che D. qui mostra di seguire. Ai vv. 15 ss. di If XXX, oltre al fatto che sì che 'nsieme col regno il re fu casso è stato giudicato un'eco di Met. XIII 404 " Troia simul Priamusque cadunt ", tutto il passo riecheggia un altro luogo del medesimo libro delle Metamorfosi, i vv. 399-575, cogliendone al volo felicemente i punti principali, il sacrificio di Polissena (su cui O. indugia ai vv. 441-527), la scoperta del cadavere di Polidoro sulla riva del mare e la finale trasformazione della sciagurata regina in cagna, che O. già anticipa, forse poco opportunamente, ai vv. 405-406, prima dell'episodio di Polissena, e poi riprende più minutamente alla fine, ai vv. 567-569; sì che è da lodare D., che, nel rievocare l'episodio, ha tenuto fermo alla necessità di dare funzione di chiusura all'orrenda visione. È evidente che la ricchezza dei riscontri che vanno istituiti fra il luogo dantesco e l'episodio ovidiano porta a dar ragione al Brugnoli (in " L'Alighieri " VII 1 [1966] 98-99) che sostiene appunto contro il Parodi (Le tragedie di Seneca e la D.C., in " Bull. " XXI [1914] 241 ss.) che nel luogo dantesco va ravvisato l'influsso di O. e non quello di Seneca (Agamennone 708-709) e in genere delle Troades (sulla questione cfr. Paratore, pp. 108-109). Bisogna inoltre notare che D., scrivendo sì come cane, doveva leggere, al v. 569 di O., non " locus extat ", ma " canis extat ", come i nostri codici minori; e cade perciò l'ingegnosa osservazione del Mattalia che " Dante lascia nell'ombra il tema della trasformazione, presentandoci vagamente, in margine al racconto ovidiano... un'Ecuba rimasta donna che, improvvisamente, uscita di senno, si mette a latrare ".
Finalmente in If XXX 37-41 il personaggio di Mirra desunto da Met. X 298 ss., in uno scorcio che mostra la solita mirabile arte dantesca di condensare i punti essenziali dei testi riecheggiati: ché Mirra scellerata evidentemente è ripreso da Met. X 314-315 " Scelus est odisse parentem: / hic amor est odio maius scelus ", e da X 342 " dum scelus effugiam "; che divenne / al padre, fuor del dritto amore, amica è un sunto del noto monologo di Mirra in X 320-355, così affine a quello di Biblide in IX 474-516. Maggiore attenzione suscitano i vv. 40-41 Questa a peccar con esso così venne, / falsificando sè in altrui forma, perché in Met. X 437-470 l'incestuoso congiungimento di Mirra col padre non è rappresentato come raggiunto mediante un travestimento della fanciulla, ma solo grazie alla tenebra notturna, che consente alla fanciulla d'introdursi nel talamo del padre, dopo che a lui la nutrice ha promesso l'arrivo di una giovane che prenda il posto della moglie occupata nelle feste di Cerere: tant'è vero che, in una successiva notte d'amore, Cinira incuriosito scopre " illato lumine " di giacere con la figlia. A stento il Sapegno cerca di fondare l'espressione dantesca su Met. X 439 " nomine mentito "; ma in D. sembra di dover cogliere l'inganno sull'identità della fanciulla non in base a scambio di nome, ma a scambio di aspetto. Per giunta il luogo ci costringe a un'altra incursione in opere dantesche estranee alla Commedia, perché il ricordo del mito ovidiano ritorna, accanto a quello del mito virgiliano di Amata, nell'epistola a Enrico VII (VII 7), ove si legge haec Myrrha scelestis [" Mirra scellerata "] et impia [cfr. " impia virgo " in Met. X 345] in Cinyrae patris amplexus exaestuans.
A confermare però che D. riteneva e sfruttava anche singoli particolari significativi delle descrizioni ovidiane, ecco, in If XXXII 36 mettendo i denti in nota di cicogna, echeggiata l'espressione di Met. VI 97 " ipsa sibi plaudat crepitante ciconia rostro ", a parte il fatto che il paragone precedente con le rane sembra ispirato anche all'episodio del medesimo libro delle Metamorfosi (vv. 331-381) in cui è descritta la metamorfosi in rane inflitta da Latona ai contadini della Libia che volevano impedirle di bere a uno stagno. Cfr. soprattutto v. 31 come a gracidar si sta la rana con Met. VI 375-378, e v. 32 col muso fuor de l'acqua con VI 372 " nunc proferre caput summo modo gurgite nare ". Nel racconto del conte Ugolino affiora (If XXXIII 72-74) il ricordo del celebre episodio ovidiano di Niobe (Met. VI 277-278): ché ond'io mi diedi, / già cieco, a brancolar sovra ciascuno, / e due dì li chiamai, poi che fur morti richiama sensibilmente " corporibus gelidis incumbit et ordine nullo / oscula dispensat natos suprema per omnes ". Più che mai si avverte come D. consideri le tante metamorfosi ovidiane presentate come castigo inflitto dagli dei in funzione di adombramento dei castighi inflitti alle anime dalla giustizia divina.
Passando al Purgatorio, notiamo che in IX 22-24 ed esser mi parea là dove fuoro / abbandonati i suoi da Ganimede, / quando fu ratto al sommo consistoro, è evidente l'eco di Met. X 155-161, in cui si parla di Giove che " Ganymedis amore / arsit " e " abripit Iliaden ", e di XI 756 " raptusque Iovi Ganymedes ", che è seguito dal v. 762 ove per la stirpe regale di Troia si parla dell'Ida. In Pg XV 13-14 (ond'io levai le mani inver' la cima / de le mie ciglia) risuona l'eco di corrispondenti frasi ovidiane come " opposuitque manum fronti " di Met. II 276, e " ante oculos opposuitque manum " di Fast. IV 178, anche se il movimento della mano in entrambi i luoghi ovidiani obbedisce a un diverso intento. In Pg XX 130-132 D. torna a ispirarsi al mito di Niobe nel punto ove si parla della nascita di Apollo e Diana da Latona (Met. VI 189 ss.). Ora può cominciare a prender corpo l'osservazione che la fantasia di D. ha amato tornare più volte sopra un episodio ovidiano che l'aveva particolarmente colpita e ricavarne varie modulazioni espressive. In Pg XXI 50 l'espressione figlia di Taumante per indicare Iride può derivare senz'altro da Aen. IX 5 " Thaumantias "; ma allo spunto virgiliano si affianca indubbiamente Met. XIV 845 " cum virgine Thaumantea ", a non parlare di Met. I 269-271 ove si legge " et densi funduntur ab aethere nimbi. / Nuntia Iunonis varios induta colores / concipit Iris aquas alimentaque nubibus adfert ", che sembrano immagini riecheggiate in nuvole spesse non paion né rade, / né coruscar del luogo dantesto, e di Met. XI 585 ss.; l'episodio di Iride inviata alla casa del Sonno, in cui " vise... velociter.../ tecta petit.../ effugit et remeat " spiega il dantesco che... cangia sovente contrade, mentre " vestis fulgore reluxit " sembra all'origine del dantesco coruscar, e " sub nube latentia " richiama di nuovo nuvole spesse.
Un altro mito ovidiano, quello di Erisitone (Met. VIII), risuona in Pg XXIII 22-27, sia nella menzione del personaggio sia nella descrizione dell'aspetto dei golosi esemplato su quello della Fame che perseguita l'eroe di O.: Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, / palida ne la faccia, e tanto scema, / che da l'ossa la pelle s'informava. / Non credo che così a buccia strema / Eresitone [Petrocchi Erisittone, proprio in forza del riscontro ovidiano] fosse fatto secco, / per digiunar evidentemente sono versi esemplati su " hirtus erat crinis, cava lumina, pallor in ore, / labra incana situ, scabrae rubigine fauces, / dura cutis, per quam spectari viscera possent; / ossa sub incurvis extabant arida lumbis " di Met. VIII 801-804. Un poeta immaginifico come O. doveva per forza stimolare D. a raffigurazioni amorevolmente accurate di particolari solleticanti, anche se il poeta fiorentino concepiva come testo eticamente esemplare quello del poeta sulmonese. Qui l'essenziale natura del modello finiva per agire irresistibilmente secondo i suoi modi. L'episodio della lotta fra centauri e Lapiti in Met. XII 210 ss., che abbiamo visto già sfiorato in If XIV a proposito di Folo, è più direttamente riassunto in Pg XXIV 121-123 con tocchi che si riferiscono piuttosto al principio del lunghissimo brano, quasi a costituire una citazione chiara appunto perché allusiva agli spunti iniziali: infatti i maladetti / nei nuvoli formati riproduce " nubigenasque feros " del v. 211 di O., e Tesëo combatter co' doppi petti allude al fatto che Teseo è subito nominato al v. 227 e che contro di lui si scagliano (v. 240) " germani... bimembres ". Il ricordo del mito di Meleagro in Pg XXV 22-23 si richiama a Met. VIII 260-546; lo dimostra fra l'altro si consumò al consumar d'un stizzo, che riassume i vv. 522-525 di Ovidio. Nel medesimo canto vi è, ai vv. 130-132, il ricordo del mito di Calisto scacciata da Diana perché violata da Giove (Met. II 401 ss.). Lo strano è che D. chiama la ninfa Elice invece di Calisto, mentre nell'episodio ovidiano non compare né l'uno né l'altro nome, parlandosi solo (v. 409) di " virgine Nonacrina ". L'elemento significativo è al solito che D. ricorda il mito ovidiano addirittura dopo il canto dell'inno pseudoambrosiano Summae Deus clementiae e del ricordo dell'evangelico Virum non cognosco. Pg XXVIII presenta più di un richiamo alle Metamorfosi, come If XXX: i vv. 49-51 ricordano il mito di Proserpina sviluppato in Met. V 385 ss.: lo conferma ed ella [perdette] primavera, che riecheggia il sonoro " perpetuum ver est " da cui prende le mosse il racconto ovidiano al v. 391, e che è più caratteristico del ricordo della madre, che pure è naturalmente in primo piano in Ovidio. Ai vv. 64-66, e proprio per parlare degli occhi di Matelda (il che conferma con quale spirito D. guardasse il mondo ovidiano), si ricorda il mito di Venere innamorata di Adone per una freccia scagliatale da Amore, come lo sviluppa O. in Met. X 519 ss. E trascuriamo di ricordare la già notata allusione dei vv. 73-74 a Her. XVIII. Il mito di Argo cantato in Met. I 625 ss. è ricordato in Pg XXIX 95-96, e al solito con una mossa che riecheggia il cenno iniziale dell'episodio ovidiano (le penne piene d'occhi = " Centum luminibus cinctum caput Argus habebat "). Il riferimento al passo ovidiano ritorna in Pg XXXII 64-65 come assonnaro / li occhi spietati udendo di Siringa, che riecheggia Met. I 684 ss., ove si parla di Mercurio che di Argo " servantia lumina temptat ", sì che il custode " pugnat mollis evincere somnos ", mentre il dio intona il canto del mito di Siringa e poi si accorge " succubuisse oculos adopertaque lumina somno ". Per Pg XXXI 121-122 Come in lo specchio sol, non altrimenti / la doppia fiera dentro vi raggiava, il Mattalia ha avuto il merito di notare il riscontro con Met. IV 347-349.
Il segno dell'attenzione con cui D. seguiva tutti gli spunti desumibili dalle Metamorfosi è in Pg XXXIII 46-51, ove Temi è affiancata alla Sfinge come risolutrice di enigmi (cfr. F. Ghisalberti, L'enigma delle Naiadi, in " Studi d. " XVI [1932] 105-125), secondo una tendenza visibile anche nella scoliastica medievale di Ovidio. Già l'Ottimo e Benvenuto hanno notato la derivazione da O. insieme con quella da Stazio Theb. I 66-67, accanto ai quali si possono mettere Phars. V 8, Claudiano De Raptu Pros. I 116 e Servio ad Aen. III 104 e IV 246. I luoghi ovidiani da addurre a confronto sono numerosi: Met. I 379 ss., dove Deucalione e Pirra si rivolgono a Temi (e già al v. 321 compare il nome di Temi) per sapere come ricostituire la razza umana, e ne ricevono il misterioso responso di gettare dietro le spalle " ossa parentis ". Da un esame di tutto il passo risulta evidente che l'esegeticamente tormentatissimo attuia nel v. 48 di D. è da interpretare con la maggioranza dei commentatori, a cominciare dal Torraca, come sinonimo di ‛ attura ' e non, come voleva il Parodi, come " viene a tu per tu ", in analogia con Pd IX 81 s'io m'intuassi (" Bull. " XXIII [1916] 49, opinione poi da lui stesso abbandonata per ‛ ottura ': cfr. Lingua 379-380). Gli altri luoghi ovidiani da addurre a confronto sono Met. VII 762 e IX 418-419, ove pure si parla di un responso che suscita incertezze. Quest'ultimo luogo ovidiano dà occasione a un'ardua questione testuale, perché lo hapax " faticano ", attestato dalla migliore tradizione, è letto " faticino " dal codice della biblioteca Governativa di Lucca (Lucensis), del sec. XI, e " vaticino " o " fatidico " dai codici del Heinsius (e son tutte forme che più naturalmente ci attenderemmo). D'altro canto in XV 436 i medesimi codici che leggono " faticano " in IX 418 leggono " faticinasque ferunt sortes ", sì che quasi tutti gli editori, con singolare incongruenza, leggono " faticano " nel primo caso e " faticinas " nel secondo, dove il n. 2008 (Hauniensis) della biblioteca Reale di Copenaghen del sec. XIII, parte dei codici del Heinsius e dei codici minori leggono " vaticinesque ", un'altra parte degli uni e degli altri codici leggono " faticanasque ", rinnovando la forma di IX 418, e le manus recentiores del codice IV F 3 della bibl. Nazionale di Napoli, del sec. XI, leggono " fatidicas ". Per giunta, come abbiamo visto, in I 321 si definisce " fatidicam " Temi. Sembrerebbe che D. fosse stato spinto dalle singolarità qui manifestate dal linguaggio ovidiano a escogitare l'arduo hapax attuia. A ciò bisogna aggiungere che una falsa lezione di un passo ovidiano ha determinato il testo dei successivi vv. 49-50 di D., ove si legge ma tosto fier li fatti le Naiade, / che solveranno questo enigma forte, e s'incontra quindi un'altra espressione di singolare difficoltà, su cui non sembra che i commentatori si siano soffermati con sufficiente attenzione: ché le Naiade come complemento predicativo del soggetto li fatti è movenza piuttosto faticosa, e fier è voce verbale particolarmente ricercata e rara. Ma l'importante è che D. ha letto Met. VII 759-760 (cioè un passo immediatamente precedente a uno di quelli da cui egli ha desunto la concezione di Temi come indovina, e proprio quello che meglio poteva autorizzarlo a parlare della Sfinge, qui affiancata a Temi), cioè un luogo che suona " Carmina Laiades non intellecta priorum / solverat ingeniis " (l'allusione cioè al fatto che il figlio di Laio, Edipo, aveva risolto l'enigma della Sfinge), nella forma " Carmina Naiades non intellecta priorum / solvunt ingeniis ", in cui " Naiades " è lezione di tutti i codici principali, ma " solvunt " è lezione solo di pochi codici, fra cui il già ricordato Laurenziano XXXVI 12: sì che il fatto che entrambe le lezioni, che hanno autorizzato il fraintendimento di D. e la sua costruzione della terzina, si trovino in questo codice ci obbliga a riconoscere che, se non esso direttamente (date alcune già notate diversità che esso palesa rispetto a D. nella lezione di O.), almeno un suo stretto parente dovette essere il codice ovidiano di Dante. V. anche NAIADI.
Abbiamo già visto che, per il mito delle Piche contenuto nell'invocazione alle Muse all'inizio del Purgatorio, D. si è ispirato alle Metamorfosi; altrettanto avviene all'inizio del Paradiso per l'analoga invocazione ad Apollo, in cui si trovano nuovamente conglobati gli echi dei poeti latini prediletti dall'Alighieri: Virgilio, di cui a l'ultimo lavoro riecheggia il primo verso dell'ultima delle Bucoliche, " Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem "; Lucano, di cui la terzina successiva (Infino a qui l'un giogo di Parnaso, ecc.) riecheggia " Parnasos gemino petit aethera colle " di V 72; O., di cui già i vv. 16 ss. riecheggiano, accanto al passo lucaneo, Met. I 316-317 " Mons ibi verticibus petit arduus astra duobus, / nomine Parnasus ", e inoltre sono ricordati due episodi delle Metamorfosi, quello di Apollo e Dafne (I 452 ss.) al v. 15, e quello di Apollo e Marsia (VI 382 ss.) ai vv. 20-21. Per giunta nel primo caso l'espressione dantesca riassume le parole (vv. 557-565) con cui Apollo, dopo la metamorfosi di Dafne, proclama che essa, grazie al suo amore, sarà consacrata a fornire le sue fronde ai poeti; quanto al secondo caso, si noti come il Paratore (Lettura del c. I del Paradiso, Lectura Dantis Romana) obietti a G. Mazzoni (Lectura Dantis, Firenze 1903) e al Mattalia che D. non si è limitato a riassumere vigorosamente la lunga descrizione ovidiana, ma ha effettivamente tradotto il grido di Marsïa " Quid me mihi detrahis? " (v. 385), con Sì come quando Marsïa traesti / de la vagina de le membra sue. Nel medesimo canto i vv. 67-69, col loro accenno al mito di Glauco, si rifanno a Met. XIII 898 ss., di cui i vv. 942-944 risuonano in qual si fé Glauco nel gustar de l'erba, e il v. 949 (" Di maris exceptum socio dignantur honore ": la cosa è immutabile anche se D. avesse letto, nel Marciano Fiorentino 225 del sec. XI " solii dignantur honore ") risuona in che 'l fé consorto in mar de li altri dèi.
In Pd III 18 si allude al mito di Narciso cantato da O. in Met. III 407 ss.; e al solito la frase dantesca riecheggia le espressioni più significative dell'episodio ovidiano: ché dire a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte significa riassumere " visae correptus imagine formae, / spem sine corpore amat: corpus putat esse quod unda est " dei vv. 416-417 (e qui la ‛ secunda manus ' del Laurenziano XXXVI 12, legge " umbra " invece di " unda ", in contrasto quindi con la lettura di D.), e " pariterque accendit et ardet. / Irrita fallaci quotiens dedit oscula fonti! " dei vv. 426-427 di Ovidio. E non è da trascurare il fatto che già in If XXX 128 (in un canto, cioè, che abbiamo già visto pieno di reminiscenze ovidiane) si legge per leccar lo specchio di Narcisso, con esplicita formulazione del nome del personaggio, che manca invece in Pd III. In Pd VIII 67 ss. la determinazione della bella Trinacria affianca di nuovo, alla descrizione di Aen. III 570 ss., quella da Met. V 346-356. D. ha corretto O. sulla base del testo virgiliano, ma in fondo ha preso da lui tutti i dati geografici e leggendari.
Un altro accenno a Iride in Pd XII 12, con riferimento ai suoi rapporti con Giunone (quando Iunone a sua ancella iube) in un linguaggio latineggiante che, pur con altre parole, avvalora il riecheggiamento di Met. I 270 " Nuntia Iunonis ". A questo si ricollega subito un altro spunto ovidiano, il ricordo del mito di Eco (Pd XII 14-15) che si consunse d'amore per Narciso (Met. III 356 ss.). La finezza alessandrina dell'arte allusiva di D. consiste nel fatto che l'immagine da lui adoperata per ricordare la dissoluzione del corpo di Eco macerata dall'amore (ch'amor consunse come sol vapori) riecheggia non una frase del corrispondente episodio ovidiano, ma una frase dell'altro episodio incastrato in questo, la morte per consunzione d'amore di Narciso (vv. 487-490 " sed, ut intabescere flavae / igne levi cerae matutinaeque pruinae / sole tepente solent, sic attenuatus amore / liquitur et tecto paulatim carpitur igni "). In Pd XV 13 ss. (Quale per li seren tranquilli e puri / discorre ad ora ad or sùbito foco / ... e pare stella che tramuti loco / se non che da la parte ond'e' s'accende / nulla sen perde, ed esso dura poco) D. è tornato fra l'altro a riecheggiare il prediletto episodio di Fetonte, ma per un particolare a sé stante, facilmente isolabile (Met. Il 320-322 " longoque per aëra tractu / fertur, ut interdum de caelo stella sereno, / etsi non cecidit, potuit cecidisse videri "). L'accenno al mito di Semele in Pd XXI 5-6 (tu ti faresti quale / fu Semelè quando di cener fessi) è stato riportato per l'espressione soprattutto a Stazio Theb. III 183-185 " veteris cum regia Cadmi / fulmineum in cinerem monitis Iunonis iniquae / consedit "; ma il riferimento più preciso è a Met. III 308-309 " Corpus mortale tumultus / non tulit aetherios, donisque iugalibus arsit ". E proprio nell'episodio ovidiano il nome di Semele compare ai vv. 261, 274, 278 e 293. In Pd XXII 142 L'aspetto del tuo nato, Iperïone, echeggia Met. IV 192 " Quid nunc, Hyperione nate ", che è più esplicitamente ricordato nell'epistola a Cino (III 4): lo abbiamo già notato. Finalmente in Pd XXIII 55-57 (Se mo sonasser tutte quelle lingue / che Polimnïa con le suore fero / del latte lor dolcissimo più pingue), essendoci l'eco dell'iperbole retorica iniziata in poesia da Ennio e Ostio ma recata da Virgilio al livello delle cento lingue, si è voluta vedere non solo l'eco di Aen. VI 625-626 " Non, mihi si linguae centum sint oraque centum, / ferrea vox ", ma anche di Met. VIII 533-534 " Non mihi si centum deus ora sonantia linguis / ingeniumque capax totumque Helicona dedisset ", che certo, per la sua allusione alle Muse, suona più vicino al passo dantesco.
Abbiamo esaminato un lungo elenco di casi; ora dobbiamo fare una considerazione di ordine generale: perché D. - salvo i due casi in cui intitola De Rerum transformatione o transmutatione il poema ovidiano - usa il genitivo singolare per denominarlo, ci parla di Metamorphoseos? Un'altra opera della letteratura latina, il romanzo apuleiano, ha il medesimo titolo, e la tradizione manoscritta ce lo reca sempre nella forma del genitivo plurale, Metamorphoseon. Evidentemente D. doveva avere un codice in cui, per arbitrio o per scarsa conoscenza del greco o per un caso singolare, il titolo del poema doveva essere espresso al singolare, che del resto ritorna nell'altra forma De Rerum transformatione o transmutatione.
Ci rimane ora da soffermarci sul canto della Commedia in cui è fatto esplicitamente il nome di O. e che contiene uno degl'imprestiti di più ampio sviluppo dall'arte ovidiana e in cui per giunta si pone ampiamente a frutto, accanto alle Metamorfosi, un luogo dei Fasti: If XXV. Esso servirà per chiarire definitivamente lo spirito con cui D. ha concepito e orecchiato Ovidio. Sia qui concesso trascrivere quanto ha scritto al riguardo il Paratore (p. 256 ss.): " La libertà presasi da Dante riguardo al racconto virgiliano [Aen. VIII 294 ss. per Caco], cioè di aver fatto morire Caco ‛ sotto la mazza d'Ercule ', mentre in Virgilio (VIII, 260-61) Ercole lo strozza... è stata ricondotta all'influsso del racconto ovidiano del mito nel L. I dei Fasti ove è detto (vv. 575-76) che la clava trinodis di Ercole ter quater adverso sedit in ore viri: luogo che del resto può essere stato composto dietro la suggestione del particolare virgiliano ai vv. 220-21, ove si dice che Ercole, nel muovere contro Caco, rapit... nodis... gravatum robur... ". Questo richiamarsi a O. è " tanto più notevole in quanto il ricordo dell'episodio è posto proprio in bocca a Virgilio... Ma l'intreccio di spunti virgiliani e ovidiani va molto più in là del particolare già notato... Di Caco e della sua ferocia Dante dice: che sotto 'l sasso di monte Aventino / di sangue fece spesse volte laco. ... l'espressione è stata ricondotta ai vv. 195-97 di Virgilio: semperque recenti / caede tepebat humus foribusque adfixa superbis / ora virum tristi pendebant pallida tabo.... Inoltre per l'espressione ‛ sotto 'l sasso di monte Aventino ' dobbiamo trasferirci ai vv. 230-32 di Virgilio... Ter totum fervidus ira / lustrat Aventini montem, ter saxea temptat / limina. I vari tocchi si trovano invece raccolti insieme nel corrispondente luogo ovidiano... cfr. vv. 551-58: Cacus, Aventinae timor atque infamia silvae, / non leve finitimis hospitibusque malum / ... ora super postes affixaque bracchia pendent, / squalidaque humanis ossibus albet humus. E anche nel momento in cui Caco soccombe ai colpi di Ercole la descrizione ovidiana, nell'immagine del sangue, si avvicina di più al cenno dantesco; cfr. vv. 577-78: Ille cadit mixtosque vomit cum sanguine fumos, / et lato moriens pectore plangit humum. Alla figurazione dantesca di Caco, posto a guardia dei ladri ‛ per lo furto che frodolente fece ' " (Aen. VIII 205-211; Fast. I 549-550) " nel portar via per la coda l'armento di Gerione... , ha potentemente contribuito la figurazione che sia Virgilio sia Ovidio ne danno di mostro spirante fiamme dalla bocca: Virgilio (vv. 198-99 a 251-60) illius (Volcani patris) atros / ore vomens ignis, etc.; Ovidio (vv. 569-74 e 577), patrias male fortis ad artes / confugit, et flammas ore sonante vomit; / qua quotiens proflat, spirare Typhoëa credas / et rapidum Aetnaeo fulgur ab igne iaci. E nota come il paragone ovidiano con un motivo paesaggistico (l'Etna in eruzione) abbia stimolato la fantasia di Dante a introdurre un altro paragone del genere (le bisce della Maremma) a proposito dell'altra caratteristica da lui regalata alla figura di Caco. Ille cadit mixtosque vomit cum sanguine fumos. E dall'uno e dall'altro dei due autori il poeta ha tratto il particolare di quel fumo ossessivo, asfissiante che diventa l'atmosfera tipica della bolgia ". Da ciò il Paratore ha tratto motivo per insistere sull'imponenza dell'influsso di O. nel canto, fino al celebre passo in cui D. sembra voler proclamare la sua poetica gara con lui e con Lucano (vv. 94-102).
È questo un rapporto di particolare importanza, anche se F. Schneider (Dante. Sein Leben und sein Werk, Weimar 19605, 154) afferma che " è indubbio che la grande arte del XXV canto... si fa gioco della rappresentazione delle Metamorfosi ovidiane ".
In polemica con quelli che hanno trovato prevalente nel passo un motivo retorico, dal vecchio commento del Gelli, a N. Scarano (Le trasformazioni dei ladri, in Saggi danteschi, Livorno 1905, 205), al Momigliano (Il significato, ecc.), il Paratore, rifacendosi anche a V. Russo, ha sostenuto che " la ragione più profonda per cui Dante non s'è potuto tenere dal palesare i debiti ch'egli aveva nei riguardi di Ovidio e di Lucano e la sua gioia d'aver saputo andare più in là di loro nella penetrazione poetica dei misteri della Provvidenza è la persuasione... che quei poeti avevano già fissato, con una potenza e una chiarezza non indegne del testo biblico, gli occulti modi con cui la volontà di Dio è testimoniata nelle umane vicende ". Indi ha notato (pp. 268-272):
" Ciò che di Ovidio è ricordato da Dante giustifica in parte il riscontro: nell'episodio di Cadmo (Met., IV, 571-603)... commissa... in unum / paulatim tereti tenuantur acumine crura (vv. 579-580), come in Dante (vv. 106-108) ‛ le gambe con le cosce seco stesse / s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura / non facea segno alcun che si paresse '; Cadmo compie un ultimo disperato tentativo per tendere le braccia e le mani, dum non totum occupat anguis (vv. 581-85), come in Dante è detto (v. 112) ‛ io vidi intrar le braccia per l'ascelle '; Cadmo duratae... cuti squamas increscere sentit (v. 577), come in Dante (vv. 110-111) ‛ la ... pelle ' del dannato che si metamorfosa in serpente ‛ si facea ... dura '; Cadmo (v. 579) in pectus... cadit pronus, come in Dante (v. 121) ‛ l'altro cadde giuso '; a Cadmo lingua repente / in partes est fissa duas (vv. 586-87), come in Dante (vv. 133-34) a Buoso ‛ la lingua, ch'avëa unita e presta / prima a parlar, si fende '; e finalmente Cadmo, compiuta la metamorfosi, sibilat (v. 589), come in Dante (vv. 136-37) ‛ l'anima ch'era fiera divenuta, / suffolando si fugge per la valle '... L'episodio di Cadmo aveva dunque tutti i numeri per essere menzionato da Dante; ma quello di Aretusa (Met. V, 275-641) non presenta proprio alcun riscontro col canto dantesco... Piuttosto Dante avrebbe potuto ricordare un altro episodio delle Metamorfosi che ha stretta affinità col c. XXV, come hanno notato tutti i commentatori, quello di Salmace che, compenetrandosi col giovinetto amato, occasiona la nascita di Ermafrodito (IV, 356-379), tanto che viene il sospetto che Dante abbia scambiato Salmace con Aretusa, perché entrambe ninfe acquatiche... Si badi che si tratta di due episodi, quello di Salmace e quello di Cadmo, appartenenti al medesimo libro delle Metamorfosi...: ai vv. 50-57 di Dante (‛ e un serpente con sei piè si lancia / dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia. / Co' piè di mezzo li avvinse la pancia / e con li anterïor le braccia prese; / poi li addentò e l'una e l'altra guancia; / li diretani a le cosce distese, / e miseli la coda tra 'mbedue / e dietro per le ren sù la ritese ') corrispondono i vv. 357-64 di Ovidio (mediis immittitur undis / pugnantemque tenet, luctantiaque oscula carpit, / subiectatque manus, invitaque pectora tangit, / et nunc hac iuveni, nunc circumfunditur illac. / Denique nitentem contra elabique volentem / implicat, ut serpens, quam regia sustinet ales / sublimemque rapit: pendens caput illa pedesque / adligat, et cauda spatiantes implicat alas), dove ciò che più deve ritenere la nostra attenzione è il paragone col serpens, di cui possiamo finalmente misurare l'importanza nell'aver suggerito a Dante lo sfruttamento del luogo ovidiano a questo punto... Lo stretto legame fra il c. XXV e l'episodio ovidiano di Salmace è ribadito dal fatto che, come subito dopo... Dante introduce (vv. 58-60) il paragone con l'edera... così Ovidio al medesimo punto... introduce il medesimo paragone (v. 365): utve solent hederae longos intexere truncos... Dante... (vv. 61-63) ‛ Poi s'appiccar, come di calda cera / fossero stati, e mischiar lor colore, / né l'un né l'altro già parea quel ch'era '; così in Ovidio (vv. 373-75) nam mixta duorum / corpora iunguntur, faciesque inducitur illis / una. E di nuovo sia l'uno sia l'altro poeta trascorre a una seconda similitutudine, Dante (vv. 64-66) a quella col ‛ papiro '... Ovidio (vv. 375-76) a quella coi rami che s'intrecciano... Indi in entrambi i testi la constatazione culminante del mostruoso connubio in cui le due nature sono commiste e confuse: Dante, ‛ Vedi che già non se' né due né uno ' (v. 69); ‛ due figure miste / in una faccia, ov'eran due perduti ' (vv. 71-72); ‛ le cosce, ecc. divenner membra che non fuor mai viste. / Ogne primaio aspetto ivi era casso: / due e nessun l'imagine perversa / parea ' (vv. 74-78); Ovidio (vv. 377-79), Sic ubi complexu coierunt membra tenaci, / nec duo sunt sed forma duplex, nec femina dici / nec puer ut possit: neutrumque et utrumque videntur... Dante proclama la sua superiorità su Lucano e particolarmente su Ovidio (infatti i vv. 98-101 ‛ ché se quello in serpente e quella in fonte / converte poetando, io non lo 'nvidio; ché due nature mai a fronte a fronte / non trasmutò ' alludono esclusivamente agli episodi delle Metamorfosi; e ciò ch'è detto di Aretusa - ‛ quella in fonte / converse ' - smentisce la nostra ipotesi di una confusione tra il mito di Aretusa e il mito di Salmace "; e si noti che l'episodio derivato da quello di Salmace precede la menzione di Ovidio) " non per compiacimento d'artista sicuro d'aver saputo fare meglio dei modelli, ma per la religiosa coscienza d'aver potuto penetrare più addentro nei modi occulti della giustizia divina e nei suoi riflessi sulle umane vicende e sul destino dei corpi ".
Quest'ultimo incontro su cui ci siamo soffermati più a lungo è anch'esso uno dei tanti in cui l'influsso di O. contende con quello di altri poeti latini. Ma che egli finisca qui, come spesso altrove, per esercitare la suggestione più profonda è innegabile. E meglio ancora se ne rivela il valore di testo eticamente esemplare, provvidenzialmente precorritore delle supreme verità che D. scorgeva nelle Metamorfosi e nei Fasti.
Bibl.-O., e specie l'O. prevalentemente erotico degli Amores, delle Heroides e dell'Ars amatoria, è stato l'autore prediletto della cosiddetta Rinascenza medievale, a partire dal sec. XI, che dal Traube è stata appunto definita l'aetas Ovidiana: cfr. W. Schroetter, Ovid und die Troubadours, Halle 1908; E. Faral, Recherches sur les sources latines des contes et romans courtois du moyen âge, Parigi 1913; C. Marchesi, I volgarizzamenti dell'Ars amatoria nei secc. XIII e XIV, in " Mem. Ist. Lombardo " (1917) 313 ss.; F. Ghisalberti, Arnolfo d'Orléans, un cultore di O. nel sec. XII, ibid. (1932) 157 ss.; ID., L'" Ovidius moralizatus " di Pierre Bressuire, in " Studi Romanzi " XXIII (1933) I ss.; ID., Giovanni di Garlandia, Integumenta Ovidii, Messina 1933; ID., Mediaeval Biographies of Ovid, in " Journal of the Warburg and Courtauld Institutes " IX (1946) 10 ss.; D. Scheludko, Ovid und die Troubadours, in " Zeit. Romanische Philol. " LIV (1934) 129 ss.; A. Monteverdi, O. nel Medio Evo, in " Rendic. Accad. Lincei " s. 8, XIII (1958) 697 ss.; F. Munari, Ovid im Mittelalter, Zurigo 1960; S. Battaglia, La tradizione di O. nel Medioevo, in " Filologia Romanza " VI (1965) 221 ss. (rist. in La coscienza letteraria del Medioevo, Napoli 1965, 23 ss.); S. Viarre, La survie d'Ovide dans la littérature scientifique des XIIe et XIIIe siècles, Poitiers 1966; C. Besana, La tradizione greca medievale dei Carmina amatoria di O., in " Aevum " XLI (1967) 91 ss.; K. Stackmann, Ovid im deutschen Mittelalter, in " Arcadia " 1966, 231 ss. Specificamente per il rapporto tra O. e D. cfr. G. Szombathely, D. e O., in " Programma Ginnasio Comunale Trieste " XXV (1887-88); L. Sudre, P. Ovidii Nasonis Metamorphoseon libros quomodo nostrates medii aevi poetae imitati interpretatique sint, Parigi 1893; E. Moore, D. and Ovid, in Studies on D., Oxford 1896, 206 ss.; N. Scarano, Le trasformazioni dei ladri, in Saggi danteschi, Livorno 1905; A. Momigliano, Il significato e le fonti del c. XXV dell'Inferno, in " Giorn. stor. " LXVII (1916), rist. in Lett. Dant. 480 ss.; F. Ghisalberti, Mitografi latini e retori medioevali in un codice cremonese del sec. XIV, in " Archivum Romanicum " VII (1923) 131 ss.; ID., Giovanni del Virgilio, in " Giorn. d. " XXXVI (1933) 1 ss.; F.A. Ugolini, I cantari di Piramo e Tisbe, in " Studi Romanzi " XXIV (1934) 19 ss.; W. Brewer, Ovid's Metamorphoses in European Culture, Boston 1935; J. Oeschger, Antikes und Mittelalterliches bei D., in " Zeit. Romanische Philol. " LXIV (1944) 21 ss.; A. Renaudet, Apollon dans la Divine Comédie, in " Cahiers du Sud " XXXVIII (1951) 3 ss.; ID., D. humaniste, Parigi 1952; V. Sirago, D. e gli autori latini, in " Lettere Italiane " III (1951) 99 ss.; T. Hudson-Williams, D. and the Classics, in " Greece and Rome " XX (1951) 38-42.; H. Gmelin, D. und die römischen Dichter, in " Deutsches Dante- Jahrbuch " XXXI-XXXII (1953) 42 ss.; ID., Der IV Gesang des Inferno, ibid., 66 ss.; A. Sacchetto, Il canto delle allucinanti transmutazioni, in Due letture dantesche, Roma.,1953; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi, 1954, 107 e 182; G. Funaioli, D. e il mondo antico, in Medioevo e Rinascimento. Scritti in onore di B. Nardi, Firenze 1955, I 321 ss.; M. Marti, Aspetti stilistici di D. traduttore, in Realismo dantesco ed altri studi, Milano 1956, 108 ss.; R. Palgen, D. e O., in " Convivium " n.s., XIII (1959) 277 ss.; S.A. Chimenz, Classicità e Medioevo nello spirito e nell'arte di D., in " Nuova Antol. " XCIV (1959) 207 ss.; M. Settineri, Influssi ovidiani nella D.C., in " Siculorum Gymnasium " XII (1959) 31 ss.; F. Schneider, Dante. Sein Leben und sein Werk, Weimar 19605; E. S. Hatzantonis, La Circe della D.C., in " Romance Philology " XIII (1960) 390 ss.; F. Mollia, D. e il mondo classico, in " Ausonia " XV (1960) 7 ss.; A. Tomaselli, Il c. XXV dell'Inferno, in Miscellanea di studi critici in onore di Vincenzo Crescini, Torino 1960, 399 ss.; D. Mattalia, Il canto XXV dell'Inferno, Firenze 1962; J. Wilhelm, Orpheus bei D., in Festschrift für Hans Rheinfelder, Monaco 1963, 397 ss.; A. Ronconi, Per D. interprete dei poeti latini, in " Studi d. " XLI (1964) 5 ss.; G. Martellotti, D. e i classici, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 125 ss. (importante specialmente per un tentativo, pp. 131-132, di ravvisare nel c. XXVI dell'Inferno un'altra eco ovidiana per l'episodio di Ulisse); A. Ronconi, L'incontro di Stazio e Virgilio, ibid., 566-571; V. Rosso, La pena dei ladri, in Sussidi di esegesi dantesca, Napoli 1966, 143; E. Paratore, Tradizione e struttura in D., Firenze 1968; E. Raimondi, Metafora e storia. Studi su D. e Petrarca, Torino 1970, 32, 90 e 131 (per altri lievi spunti ovidiani).