Pubblico dipendente e uso indebito del telefono
Nel corso degli ultimi vent’anni, la questione della qualificazione giuridica della condotta di utilizzo a fini personali del telefono d’ufficio da parte del pubblico dipendente è stata oggetto di pronunce giurisprudenziali contrastanti, che hanno fatto da eco al complesso concerto di posizioni dottrinali in materia. Da ultimo, a dirimere il contrasto tra le sezioni semplici della Suprema Corte sono intervenute le Sezioni Unite, che hanno affermato che la condotta di uso illegittimo del telefono assegnato al pubblico è sussumibile nel delitto di peculato d’uso. Premesse la ricognizione e la valutazione critica delle varie tesi che si sono contese il campo nell’ambito in analisi, in questa sede si porranno in luce i nodi interpretativi ancora irrisolti della disciplina del peculato.
Il diffuso (e certamente deprecabile) fenomeno rappresentato dall’utilizzo, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, del telefono “d’ufficio” per effettuare telefonate personali è stato oggetto, negli ultimi anni, di costante attenzione dottrinale e giurisprudenziale.
La principale questione giuridica posta dall’emergere di tale fenomeno, attorno alla quale si è polarizzato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, ha riguardato la qualificazione giuridica delle condotte di indebito utilizzo del telefono da parte di pubblici dipendenti: peculato ordinario, peculato d’uso, abuso d’ufficio o, addirittura, irrilevanza penale del fatto?
A dirimere la matassa delle numerose opinioni affastellatesi sul punto, sono recentemente intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 19054 del 2.5.2013, hanno ricondotto la condotta di utilizzo a fini personali del telefono d’ufficio nell’alveo del delitto di peculato d’uso; la delicatezza e la complessità della questione impone, tuttavia, la compiuta ricostruzione dei principali snodi del dibattito giurisprudenziale e dottrinale e, per il loro tramite, della sentenza della Suprema Corte.
In particolare, le principali opinioni emerse in dottrina e in giurisprudenza in ordine alla qualificazione giuridica della condotta di indebito utilizzo del telefono di servizio da parte del pubblico dipendente possono essere raggruppate in tre diversi filoni.
2.1 Peculato ordinario?
Secondo una prima tesi, maggioritaria presso la giurisprudenza antecedente alla sentenza delle Sezioni Unite già menzionata, la condotta di utilizzo a fini personale del telefono d’ufficio sarebbe riconducibile nell’ambito del delitto di peculato ordinario, e non già del delitto di peculato d’uso. Tale tesi muove, innanzitutto, dalla premessa secondo cui l’oggetto materiale della condotta di peculato dovrebbe essere considerato non «il telefono nella sua materialità», bensì l’insieme degli «impulsi elettrici che rendono possibile la comunicazione a distanza, contabilizzati a monte dell’apparecchio telefonico da un apparato contatore ... che ne determina il costo convenzionale» e parificati alla cosa mobile giusta la regola di equivalenza posta dall’art. 624, co. 2, c.p. («agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico»). Da tale premessa consegue che la condotta di utilizzo indebito del telefono, anche se momentanea, realizzerebbe «una vera e propria appropriazione, di carattere definitivo», degli impulsi elettrici che consentono la trasmissione della voce, e dovrebbe pertanto essere necessariamente inquadrata nell’ambito del peculato ordinario, non essendo «le energie utilizzate ... immediatamente restituibili dopo l’uso» e non potendo comunque «l’eventuale rimborso delle somme equivalenti» considerarsi equipollente «alla restituzione della cosa mobile consumata»1.
A tale tesi, tuttavia, può muoversi un triplice ordine di convincenti obiezioni. Innanzitutto, come si è notato in dottrina, difficilmente gli impulsi elettrici mediante i quali si trasmette la voce potrebbero considerarsi vere e proprie res agli effetti della legge penale, perché l’equiparazione delle energie alla cosa mobile ai sensi dell’art. 624, co. 2, c.p. opera «solamente se l’energia possa essere utilizzata dal pubblico agente senza il possesso della cosa che la produce», mentre nel caso dell’utilizzo indebito del telefono di servizio «l’appropriazione delle energie rappresentate dagli impulsi elettrici necessari per effettuare conversazioni telefoniche presuppone necessariamente il possesso dell’oggetto che le produce, ossia del telefono»2. In secondo luogo, come messo in luce dalle Sezioni Unite, anche a voler considerare gli impulsi elettronici quali vere e proprie cose mobili agli effetti della legge penale, questi non potrebbero comunque essere oggetto di alcuno dei delitti di cui all’art. 314 c.p., per difetto del presupposto della condotta costituito dal previo possesso o disponibilità della cosa da parte del pubblico agente: gli impulsi elettronici necessari per la trasmissione della voce, infatti, venendo prodotti dall’attivazione dell’apparecchio telefonico e non preesistendo al suo utilizzo, non possono in alcun modo essere «oggetto di previo possesso o disponibilità da parte dell’utente del telefono»3. In terzo luogo, non può non rilevarsi come dall’accoglimento della soluzione interpretativa in esame deriverebbe uno sproporzionato rigore nella sanzione delle condotte di uso indebito del telefono di servizio; una volta superato il vaglio dell’offensività in concreto della condotta, infatti, la pena dovrebbe essere individuata all’interno della cornice edittale prevista per il delitto di peculato ordinario, e cioè all’interno di una forbice che va, oggi, dai quattro ai dieci anni di reclusione.
2.2 Abuso d’ufficio o irrilevanza penale del fatto?
Una seconda tesi, prospettata in dottrina e occasionalmente presa in considerazione dalla giurisprudenza, nega non solo la sussumibilità della condotta di uso indebito del telefono nell’ambito del delitto di cui all’art. 314, co. 1, c.p. – sulla scorta delle medesime obiezioni poc’anzi segnalate –, ma anche la possibilità di ricondurre la condotta de qua nell’ambito del delitto di cui all’art. 314, co. 2, c.p., in ragione del fatto che tale condotta non potrebbe mai comportare la «sottrazione del bene alla disponibilità della pubblica amministrazione»; condizione, quest’ultima, asseritamente necessaria per la realizzazione del delitto di peculato d’uso4. Dalla premessa, comune ed egualmente motivata, dell’inapplicabilità dell’art. 314, co. 2, c.p. ai fatti in esame, vengono peraltro fatte discendere conseguenze divergenti: mentre per un Autore l’uso indebito del telefono fisso o cellulare dovrebbe essere sanzionato quale abuso d’ufficio5, secondo altri non sarebbe comunque possibile individuare nella condotta in analisi una violazione di una norma di legge o di regolamento, necessaria per l’integrazione del delitto di cui all’art. 323 c.p., e, dunque, l’uso indebito del telefono non potrebbe integrare alcuna fattispecie penalmente rilevante6.
Anche la tesi che individua quale requisito per l’applicabilità dell’art. 314, co. 2, c.p. la necessaria sottrazione della cosa indebitamente utilizzata dalla «disponibilità della pubblica amministrazione di appartenenza», tuttavia, non va esente da critiche. In primo luogo, come osservato dalle Sezioni Unite, «l’elemento della fisica sottrazione della res alla sfera di disponibilità e controllo della pubblica amministrazione», appare «estraneo allo specifico scopo perseguito dal legislatore» con l’introduzione dell’art. 314, co. 2, c.p., e cioè quello di reprimere penalmente «il grave fenomeno dell’utilizzo improprio dei beni della pubblica amministrazione» a prescindere dalla materiale collocazione del bene medesimo7. Ma ancora più in radice, è la stessa la condotta di utilizzo indebito della cosa a presupporre necessariamente, a ben vedere, la disponibilità materiale della stessa e, dunque, la fuoriuscita della res dalla sfera di disponibilità materiale del proprietario: tale fuoruscita, infatti e semplicemente, non appare altro che l’aspetto “complementare” della realizzazione del presupposto della condotta – comune ad entrambi i delitti di cui all’art. 314 c.p. – costituito dal previo possesso o disponibilità, da parte del pubblico ufficiale, della cosa altrui. A ciò non fa eccezione il caso dell’uso indebito del telefono di servizio, letteralmente consegnato nelle “mani” o installato nell’ufficio del pubblico funzionario, in cui la fuoriuscita dalla sfera di disponibilità materiale della p.a. è – verrebbe da dire – in re ipsa e avviene al momento della consegna del bene.
2.3 La tesi accolta dalle Sezioni Unite: peculato d’uso
Correttamente, dunque, le Sezioni Unite hanno infine accolto la tesi della sussumibilità della condotta nell’ambito del delitto di peculato d’uso; tale tesi, diffusa soprattutto presso la giurisprudenza di legittimità meno recente, muove dalla considerazione secondo cui la condotta di utilizzo indebito del telefono realizza non un’appropriazione definitiva degli impulsi elettronici utilizzati per la trasmissione della voce, bensì un’interversione momentanea del possesso dell’apparecchio telefonico (inteso nella sua materialità), per farne un uso privato di breve durata. Il pubblico agente, insomma, «distoglie precisamente il bene fisico costituito dall’apparato telefonico ... dalla sua destinazione pubblicistica, piegandolo a fini personali, per il tempo del relativo uso, per restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria»8.
Ne consegue, a fronte della sussunzione della condotta in esame nel delitto di peculato d’uso, l’assorbimento di ogni altra questione volta a ricondurre l’uso indebito del telefono nell’ambito del delitto di abuso d’ufficio; figura, quest’ultima, «di carattere non residuale e non concorrente» rispetto al peculato d’uso, contraddistinto rispetto a quello «dall’elemento specifico dell’appropriazione temporanea di una res»9.
L’intervento delle Sezioni Unite nell’ambito in esame, come anticipato, merita apprezzamento, sia per quanto concerne il risultato qualificatorio al quale i giudici di legittimità sono pervenuti, sia per la pronuncia in sé, che si auspica possa portare, con la sua autorevolezza, un po’ di tranquillità in un mare – quello del “peculato telefonico” – che sembrava ancora piuttosto agitato.
Tuttavia, ad avviso di chi scrive, la sentenza n. 19054/2013 ha anche posto all’attenzione del pubblico dei penalisti nuove questioni interpretative ancora irrisolte, concernenti, da un lato, la qualificazione giuridica dei fatti di uso indebito cd. prolungato, e dall’altro, la valutazione dell’offensività in concreto delle condotte di utilizzo indebito del telefono di servizio.
Su queste questioni ancora aperte vale la pena spendere qualche parola qui di seguito.
3.1 I fatti di uso cd. prolungato
La prima problematica segnalata origina dal fatto che, nel ricostruire «la portata e la natura del peculato d’uso», i giudici di legittimità hanno affermato che «un uso strutturalmente e programmaticamente ... momentaneo, quale quello previsto nel capoverso dell’art. 314 c.p. ... non potrà mai integrare un’appropriazione, nel senso specifico di cui al primo comma» dell’art. 314 c.p., in quanto a tale uso non conseguirebbe «la definitiva soppressione della destinazione originaria della cosa» – o, nel linguaggio della Corte, «l’effetto della perdita della cosa da parte dell’avente diritto» –, requisito necessario, nell’opinione dei giudici di legittimità, perché una condotta possa essere ricondotta nell’alveo del delitto di peculato ordinario10.
Ne consegue il corollario – per vero, non esplicitato dalla Suprema Corte – della negazione della sussistenza di un rapporto di specialità fra il delitto di peculato d’uso e quello di peculato comune. Se, infatti, l’uso momentaneo sanzionato dall’art. 314, co. 2, c.p. costituisce condotta «strutturalmente» diversa da quella punita a titolo di peculato ordinario, e mai in grado di «integrare un’appropriazione», non potrebbe ravvisarsi in alcun modo un rapporto di continenza tra le due norme, e la fattispecie di peculato d’uso dovrebbe quindi considerarsi «del tutto autonoma e distinta» da quella di peculato ordinario11.
Sennonché, una volta dichiarata l’autonomia della fattispecie di peculato d’uso rispetto a quella di peculato ordinario, sorge immediatamente la questione della qualificazione giuridica delle condotte di uso indebito non seguite dalla restituzione immediata della cosa (cd. uso prolungato); di condotte, cioè, che da un lato non realizzano i requisiti richiesti per l’applicazione dell’art. 314, co. 2, c.p. – in quanto prive del requisito dell’immediatezza della restituzione – e, dall’altro, non cagionano la definitiva «perdita della cosa» da parte della pubblica amministrazione – e che per questo motivo non possono, secondo quanto sostiene la Suprema Corte, essere sussunte nel delitto di peculato comune. Si tratta, ad esempio, del caso in cui il pubblico dipendente usi indebitamente la cosa a lui affidata per qualche mese, pur senza l’intenzione di farla definitivamente propria, e, dopo averla utilizzata, la restituisca.
Secondo quella parte della dottrina che sembra aver ispirato l’iter motivazionale seguito dalle Sezioni Unite, le condotte poc’anzi menzionate dovrebbero essere ricondotte nell’ambito della diversa fattispecie di abuso d’ufficio; tuttavia, come rilevato da altri Autori, la qualificazione delle condotte di uso cd. prolungato quali altrettanti delitti di abuso d’ufficio recherebbe con sé la violazione del «principio costituzionale di proporzionalità e ragionevolezza». Se, infatti, l’uso prolungato fosse riportato nell’area applicativa dell’art. 323 c.p., si finirebbe col «pervenire all’iniqua e irragionevole conclusione per cui due condotte caratterizzate da un diverso contenuto e grado di disvalore penale quali, rispettivamente, l’uso momentaneo seguito da immediata restituzione e l’uso prolungato, risulterebbero oggi sanzionate con la medesima pena (da sei mesi a tre anni)»12.
Ci si chiede, pertanto, se non sia possibile una ricostruzione alternativa del rapporto tra i delitti previsti dal primo e dal secondo comma dell’art. 314 c.p., che consenta di evitare la necessaria riconduzione dell’uso prolungato nello scomodo alveo del delitto di abuso d’ufficio. Tale ricostruzione dovrebbe prendere le mosse dal riconoscimento del fatto che, tra il secondo e il primo comma dell’art. 314 c.p., corre un rapporto di specialità e non di autonomia; con la conseguenza che dovranno considerarsi sussumibili all’interno della norma generale di cui all’art. 314, co. 1, c.p. tutte le condotte di uso indebito della cosa (comprese quelle di uso cd. prolungato), con l’eccezione delle sole condotte di uso indebito che, in virtù della presenza degli elementi specializzanti rappresentati dallo “scopo di fare uso momentaneo della cosa” e dalla “restituzione immediata” della cosa medesima, dovranno essere sussunte nel secondo comma dell’art. 31413.
3.2 L’offensività in concreto della condotta
Un ulteriore problema, infine, riguarda la valutazione dell’offensività in concreto della condotta di indebito utilizzo del telefono assegnato per ragioni d’ufficio. Se, infatti, non può che condividersi il monito, lanciato dalle Sezioni Unite, a valutare rigorosamente la reale offensività del fatto tipico che, «nel caso del peculato d’uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della P.A. o di terzi ovvero ... una concreta lesione alla funzionalità dell’ufficio», sembra porre una rilevante problematica il metodo indicato dagli stessi giudici di legittimità per operare la valutazione in discorso, la quale dovrebbe necessariamente «essere riferita alle singole condotte poste in essere, salvo che le stesse, per l’unitario contesto spazio-temporale, non vadano di fatto a costituire una condotta inscindibile».
Ciò in quanto, nell’ambito del peculato cd. telefonico, le «singole condotte», la cui offensività per il patrimonio (e per la funzionalità) della pubblica amministrazione dovrebbe essere verificata, non potrebbero che identificarsi con le singole telefonate, le quali sembrerebbero raramente in grado di raggiungere, se valutate “una per una”, la soglia del penalmente rilevante.
Sia chiaro: nessun problema può porsi qualora le telefonate indebite siano realizzate con un’utenza pubblica regolata da un contratto a tariffazione forfettaria (cd. “tutto incluso”); in questo caso, infatti, salvo si realizzino pregiudizi importanti alla funzionalità dell’ufficio pubblico in questione, il pregiudizio patrimoniale per la pubblica amministrazione di riferimento è certamente assente, indipendentemente dal numero delle telefonate realizzate dal dipendente infedele.
La questione sorge nel diverso caso – tutt’altro che infrequente – in cui le telefonate indebite, singolarmente considerate, possiedano una gradiente di offensività patrimoniale minima – ancorché non assente – , mentre invece, valutate nella loro globalità, siano foriere di un danno patrimoniale rilevante per la pubblica amministrazione. Si pensi, ad esempio, ad un sindaco di un Comune di confine che, con il cellulare di servizio, effettua, nel corso di un anno solare, diverse migliaia di telefonate alla propria amante svizzera, ciascuna delle quali del costo di pochi centesimi di euro, ma che, nell’insieme, gonfiano in maniera notevole la bolletta dell’ente territoriale: in un caso siffatto, il criterio di valutazione dell’offensività “divisibile” indicato dalla Suprema Corte non potrebbe che portare all’assoluzione del pubblico funzionario, nonostante la sussistenza di un evidente (e rilevante) danno al patrimonio pubblico.
Il problema, peraltro, si è già presentato nella prassi: in una recente sentenza di merito, un pubblico funzionario che aveva effettuato numerosissime chiamate dal telefono di servizio «senza alcuna giustificazione di carattere istituzionale», per «costi unitari modestissimi» («la telefonata più costosa» nota il giudice «ha avuto un costo di 8,215 €») è stato assolto in considerazione del fatto che «nessuna delle telefonate fatte» avrebbe raggiunto «la soglia di rilevanza penale», nonostante che l’aggravio di spesa cagionato dalle telefonate personali imputate al pubblico agente avesse superato, nel corso di tre anni, i 3.000 €, così concretizzando un danno patrimoniale per la p.a. certamente non irrilevante14.
A fronte di casi come quello appena descritto, la soluzione indicata dalla Corte per la valutazione del raggiungimento della soglia di offensività in concreto, a parere di chi scrive, non convince. Il tema è ovviamente complesso, e richiederebbe un approfondimento che esula da questa sede; tuttavia, la strada per superare l’impasse potrebbe essere rappresentata dalla rigorosa distinzione tra i casi di radicale inoffensività del fatto concreto – in cui il pubblico ufficiale dovrebbe andare in ogni caso esente da pena – e i casi di limitata lesività del fatto – ove, invece, la sussistenza di un danno effettivo dovrebbe essere valutata con riferimento alla globalità delle condotte imputate al soggetto agente, a meno di voler in definitiva relegare l’art. 314, co. 2, c.p. ad una pratica inapplicabilità, proprio ai casi più insidiosi di peculato telefonico.
1 Così, per prima Cass. pen., 15.12.2000, n. 3390. Da ultimo, v. anche, tra le altre, Cass. pen., 29.2.2012, n. 7919; Cass. pen., 9.2.2012, n. 5010. In dottrina, in senso adesivo, v. ad. es. Panetta, A., Indebito utilizzo dell’utenza telefonica d’ufficio. Note in tema di principio di offensività del reato e delitto di peculato, in Cass. pen., 2010, 3867.
2 Così, con specifico riferimento all’utilizzo indebito del telefono: Ariolli, G.-Gizzi, L., L’utilizzo del telefono d’ufficio da parte del pubblico dipendente per chiamate personali, in Cass. pen., 2004, 2013. In senso più ampio, per tutti v. Benussi, C., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, in Marinucci, G.-Dolcini, E., diretto da, Trattato di diritto penale. Parte speciale, Padova, 2013, 303 ss.
3 Così Cass. pen., S.U., 2.5.2013, n. 19054.
4 Benussi, C., I delitti, cit., 279. Così anche Guidi, D., Il delitto di peculato, Milano, 2007, 225. In giurisprudenza, con riferimento all’utilizzo indebito di strutture e strumentazioni varie, Cass. pen., 18.1.2001.
5 Guidi, D., Il delitto, cit., 226.
6 Per tutti, Benussi, C., I delitti, cit., 277 ss., nonché Id., Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici ha ora natura regolamentare, in www.penalecontemporaneo.it, 18 giugno 2013.
7 Così Cass. pen., S.U., 2.5.2013, n. 19054.
8 Così Cass. pen., S.U., 2.5.2013, n. 19054. Tra le più recenti v. poi Cass. pen., 8.3.2003, n. 10719; Cass. pen., 18.1.2001, n. 353.
9 In questo senso Cass. pen., S.U., 2.5.2013, n. 19054.
10 Così sempre Cass. pen., S.U., 2.5.2013, n. 19054.
11 Così Palazzo, F., Commento agli artt. 314-316 c.p., in Padovani, T., a cura di, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Torino, 1996, 32. In questo senso, tra gli altri Maugeri, A., Peculato per appropriazione e condotte distruttive, in Ind. pen., 1993, 720 ss.; Bartoli, R., La distinzione tra appropriazione e distrazione e le attuali esigenze di tutela patrimoniale, in Dir. pen. proc., 2001, 1142 ss.
12 Guidi, D., Il delitto, cit., 208-209.
13 Così, per tutti, Pagliaro, A.-Parodi Giusino, M., Principi di diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2008, 87-88. Così anche Magnini, V., Le aggressioni di natura patrimoniale, in Palazzo, F., a cura di, Delitti contro la pubblica amministrazione, in Moccia, S., diretto da, Trattato di diritto penale. Parte speciale, Napoli, 2011, 59; Guidi, D., Il delitto, cit., 210.
14 Caso affrontato da Trib. Pordenone, 16.8.2013, n. 452, in corso di pubblicazione su www.penalecontemporaneo.it.