psicosi
Vantaggi e svantaggi dell’early intervention nelle psicosi
L’early intervention («intervento precoce») nella psicosi (EIP) è un approccio integrato, assertivo, specializzato, effettuato alla prima opportunità, che mira a un riconoscimento precoce del disturbo psicotico e a un trattamento efficace che aumenti la probabilità di interrompere il decorso patologico o almeno di migliorarlo. Spesso il primo incontro con il paziente avviene in occasione di un ricovero, quasi sempre obbligatorio; il paziente viene sottoposto a forti dosi di antipsicotici tipici, va incontro a drop-out nel trattamento territoriale con ricadute e nuovi ricoveri. L’obiettivo dell’EIP, pertanto, è ritardare l’esordio, ridurre la sintomatologia, migliorare l’esito delle psicosi. L’EIP si focalizza su due fasi. La prima consiste nel riconoscimento della fase prodromica definita «stato mentale a rischio», periodo che precede la fase attiva della psicosi e nel quale vi è un chiaro deterioramento del livello precedente di comportamento mentale o la presenza di una sintomatologia psicotica attenuata; lo scopo dell’intervento in questa fase è tentare di ridurre il tasso di transizione alla psicosi conclamata. La seconda fase è costituita da un intervento mirato al riconoscimento e al trattamento precoce del primo episodio di franca psicosi.
L’EIP è rivolto principalmente al disturbo schizofrenico, il cui decorso nella gran parte dei casi è verso la cronicizzazione e la disabilità, con grande sofferenza e diminuzione della qualità della vita sia per il paziente che per i familiari. Spesso il contatto tra un paziente affetto da psicosi e i servizi con l’inizio di un trattamento adeguato avviene molto tempo dopo l’esordio psicotico, con un ritardo medio di circa 1÷2 anni. Tale periodo è definito come durata di psicosi non trattata (Duration of Untreated Psychosis, DUP). In questo periodo possono verificarsi fatti clinicamente significativi (abuso di sostanze, tentativi di suicidio, perdita di opportunità scolastiche o lavorative, disgregazione del nucleo familiare). La riduzione del DUP sembra essere un fattore correlato con una maggiore efficacia del trattamento e quindi, con un miglior esito. La schizofrenia, infatti, non è più concepita come un disturbo a evoluzione inesorabile verso un deterioramento, ma come risultato della combinazione di fattori genetici ambientali che interagiscono tra loro e che nel loro insieme rappresentano fattori di rischio e fattori protettivi in parte modificabili. Il crescente interesse per l’EIP è legato al cattivo esito a lungo termine dei disturbi schizofrenici (cronicizzazione e disabilità), all’interruzione frequente del trattamento, agli eventi clinicamente significativi sopracitati che possono verificarsi durante il DUP, alla crescente consapevolezza che i disturbi schizofrenici costituiscono un’emergenza di salute pubblica con enormi costi diretti e indiretti e perdita di capitale sociale e umano.
Sono stati individuati alcuni indicatori per valutare l’efficacia pratica (effectiveness) degli interventi precoci: capacità di identificare gli individui a rischio; capacità di ridurre tasso di transizione a psicosi, DUP, recidive e nuovi ricoveri, tasso di suicidio, costi diretti e indiretti associati alla psicosi. Da questi studi emerge che le scale di valutazione dello stato mentale a rischio possono includere un numero elevato di falsi positivi. Interventi mirati a ridurre il tasso di transizione a psicosi, basati per es., su trattamenti farmacologici associati a terapia cognitivo-comportamentale in fase prodromica, hanno mostrato efficacia solo nel breve periodo.L’EIP mostra una certa efficacia nel ridurre il DUP, tramite l’attuazione di campagne anti-stigmatizzanti ed educative sui segni e sintomi precoci delle psicosi, indirizzate a curanti, educatori, famiglie e pubblico. Le strategie per ridurre ricadute e nuovi ricoveri, quali creare una buona alleanza terapeutica, trattare precocemente le comorbilità e l’abuso di sostanze, fornire trattamenti psicoeducativi ai pazienti e alle famiglie, stanno portando a risultati incoraggianti, ma sono necessari ulteriori studi per confrontare questi specifici esiti nell’EIP e nelle cure standard. Esistono dati che mostrano una più bassa prevalenza del tasso di tentativi di suicidio in pazienti che hanno ricevuto un trattamento integrato al primo episodio psicotico. Infine, altri dati dimostrano una riduzione dei ricoveri nei primi anni con conseguente riduzione dei costi.
All’EIP sono rivolte numerose critiche che pongono molti dubbi di natura metodologica ed etica. Interventi terapeutici da svolgere in fase prodromica inducono un rischio di forte stigmatizzazione anche per il paziente, che si sente definito a rischio di sviluppare un disturbo psicotico; ciò induce ansia, demoralizzazione, persino depressione. Se si considera che un numero non definito di questi individui non svilupperà mai un disturbo psicotico (falsi positivi), allora le implicazioni etiche emergenti diventano maggiori, non solo per un trattamento farmacologico e relativi effetti collaterali cui potrebbero essere sottoposti i soggetti, ma anche perché le scelte di vita ne sarebbero influenzate: ad es., il consiglio di evitare situazioni che potrebbero causare stress, costringe a rivedere in funzione di ciò anche gli obiettivi personali. In una prima fase, pertanto, le ricerche dovrebbero avere l’obiettivo di individuare i test per definire la fase prodromica a maggiore sensibilità e specificità. Al momento, una strategia efficace sembra essere quella mirata alla riduzione del DUP, anche se i risultati sono ambigui e potrebbero essere dovuti ad altri fattori, quali l’inclusione di episodi schizofreniformi che sarebbero comunque andati incontro a remissione spontanea senza evolvere in schizofrenia.