Psicologia
(XXVIII, p. 457; App. III, ii, p. 628; IV, iii, p. 101; V, iv, p. 332)
Il panorama della p. contemporanea è mutato radicalmente nell'arco del 20° secolo. Dal progetto ottocentesco di una scienza unitaria, fondata su principi teorici e metodologici rigorosi, secondo il modello delle scienze fisiche e naturali, si è passati, nei primi decenni del Novecento, alla coesistenza di scuole (la psicoanalisi, la teoria della forma e il comportamentismo) diverse sia sul piano teorico che su quello applicativo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta le principali 'grandi scuole' del primo Novecento si erano articolate internamente in orientamenti e progetti di ricerca relativi ai settori più diversi della ricerca psicologica, tanto da far perdere loro il passato carattere di monotematicità (su questioni come l'inconscio per la psicoanalisi, la percezione per la teoria della forma, l'apprendimento per il comportamentismo) e consentire così lo sviluppo di linee di indagine interdisciplinari (come è avvenuto nell'interazione tra psicoanalisi, etologia e p. dello sviluppo). Attualmente la fecondità e la ricchezza della ricerca psicologica si riconoscono proprio nella varietà degli indirizzi teorici e metodologici. La p. degli ultimi anni ha, comunque, conservato alcuni nuclei teorici centrali che rinviano ai fondamenti teorici delle grandi scuole. Infatti, nelle numerose indagini sperimentali, cliniche e applicative degli ultimi decenni del Novecento si può rilevare l'adesione a concetti, paradigmi o procedure che riflettono ancora una specifica tradizione di ricerca (Mecacci 1992).
La psicoanalisi costituisce il caso più importante di una prospettiva di indagine teorica e applicativa che, al di là della sua progressiva ramificazione in sotto-orientamenti teorici, ha conservato alcuni caratteri distintivi. In primo luogo, la relazione tra analista e paziente rimane come momento essenziale non solo del trattamento terapeutico, ma anche della stessa conoscenza psicologica. In altre teorie (per es. il comportamentismo o il cognitivismo) lo psicologo continua a considerare il soggetto umano come un 'oggetto' di studio, in senso naturalistico. Il soggetto riceve istruzioni da eseguire e svolge i compiti affidatigli, mentre il ricercatore osserva e rileva i dati in modo distaccato e oggettivo. Nell'impostazione psicoanalitica e, in genere, nell'approccio psicodinamico, il rapporto analista-paziente è invece circolare: la costruzione della conoscenza psicologica procede attraverso un continuo interscambio, con forti risonanze affettive (psicodinamiche), tra la psiche dell'analista e la psiche del paziente.
In questa circolarità interpsichica si realizza il processo del transfert che per la psicoanalisi rappresenta tuttora un elemento essenziale del percorso terapeutico. Per quanto concerne, invece, il concetto 'tradizionale' di pulsione, si tende oggi a una sua qualificazione più spiccatamente psicologica, che rinvia alla sfera più ampia delle rappresentazioni mentali e dei contenuti od oggetti interni della psiche. Il concetto di oggetto interno, su cui sono state elaborate varie teorie (Greenberg, Mitchell 1983), indica d'altra parte un fantasma o un'esperienza inconscia relativi a persone o eventi della prima infanzia. La psiche vive come 'oggettivi' questi fantasmi e con essi interagisce (in base alla teoria delle relazioni oggettuali) nel corso della vita. La dinamica delle relazioni oggettuali è oggi considerata da alcuni psicoanalisti più importante della dinamica delle pulsioni non solo per comprendere lo sviluppo psichico, ma anche per impostare il trattamento terapeutico. Secondo il quadro della psicoanalisi contemporanea tracciato da M.N. Eagle (1984), le varie teorie si differenziano a seconda del ruolo assegnato alternativamente alle pulsioni o alle relazioni oggettuali. In un primo gruppo di teorie (elaborate da M. Mahler, O. Kernberg e E. Jacobson) è considerata ancora fondamentale la dinamica delle pulsioni, sebbene non venga misconosciuto il ruolo delle relazioni oggettuali. Una posizione intermedia o bifattoriale, secondo l'espressione di Eagle (1984), è quella assunta nelle prime opere di H. Kohut e A.H. Modell: pulsioni e relazioni oggettuali hanno pari peso nello sviluppo psicodinamico. Infine, in un terzo gruppo di teorie (sviluppate da W.R.D. Fairbairn e H. Guntrip e dall'ultimo Kohut), le pulsioni perdono il valore che avevano nella psicoanalisi classica, mentre le relazioni oggettuali (e lo sviluppo del Sé) assumono un ruolo centrale.
Anche il concetto di Sé è stato al centro del dibattito psicoanalitico contemporaneo, in particolare dopo la trattazione fattane da Kohut (1971). Già proposto dal pragmatismo americano (W. James, G.H. Mead) come luogo di riflessione sulla propria persona, nelle sue relazioni interpersonali e sociali, il Sé è divenuto per molti psicoanalisti una componente fondamentale della psiche. Secondo Kohut il Sé è il perno dello sviluppo psichico, è costruito nei rapporti primari e si arricchisce nelle successive relazioni; si può aprire al mondo esterno o chiudersi nella soluzione narcisistica. In conclusione, la prospettiva psicoanalitica ha gradualmente abbandonato le posizioni classiche freudiane che concepivano lo sviluppo psicodinamico del bambino come canalizzazione e trasformazione delle pulsioni, secondo un modello influenzato dalle concezioni energetistiche ottocentesche, e ha messo in risalto la dinamica intrapsichica (le relazioni oggettuali) e interpsichica (le relazioni interpersonali) attraverso la quale un individuo costruisce il proprio Sé. La psicoanalisi, che è tuttora oggetto di un acceso dibattito riguardo al suo impianto epistemologico, o alla cosiddetta verifica empirica delle sue affermazioni teoriche (discussione rinnovata dalla critica di A. Grünbaum, 1984), ha teso recentemente a identificarsi più con una ricerca di tipo ermeneutico (interpretativo) che con un'indagine di tipo esplicativo-sperimentale (Jervis 1989; per gli sviluppi più recenti di questo dibattito v. psicoanalisi, in questa Appendice). La riflessione epistemologica sui concetti fondamentali che appartengono alla tradizione psicodinamica (inconscio, complesso, simbolo ecc.) è stata approfondita particolarmente nella prospettiva della p. analitica, ispirata alle teorie di C.G. Jung (Fondamenti di psicologia analitica, 1995).
Tutt'altra tradizione o prospettiva di ricerca è stata quella per cui si è passati dal comportamentismo al cognitivismo nella seconda metà del Novecento. Sebbene questo passaggio sia stato spesso considerato come una frattura netta tra due opposte concezioni dei processi mentali, molti storici della p. ritengono che si possano individuare continuità teoriche e metodologiche tra le due correnti (Leahey 1992). Anzitutto, in entrambe l'impostazione è sperimentale: un ricercatore manipola le variabili indipendenti e ne misura gli effetti sulla prestazione comportamentale di un soggetto, animale o umano. Le misurazioni sono 'oggettive', basate su indici comportamentali (tempo di esecuzione di un compito, numero di risposte corrette ecc.) o fisiologici (attività elettrica cerebrale, risposte neurovegetative ecc.).
Il comportamentismo studiava la relazione tra condizioni e stimoli esterni (prodotti in laboratorio dal ricercatore) e risposte dell'organismo animale o umano, escludendo un riferimento diretto ai processi interni alla mente (considerata una 'scatola nera') perché l'indagine su questi ultimi avrebbe comportato il ricorso ai dati introspettivi, ritenuti non oggettivi. Il cognitivismo ha conservato lo stesso impianto sperimentale, sebbene abbia spostato la ricerca sui processi interni (attenzione, memoria, linguaggio, pensiero) avvalendosi sia di procedure di indagine più sofisticate, sia di resoconti verbali dei soggetti. La 'scatola nera' si è così riempita di sottostrutture dedicate a operazioni cognitive distinte, anche se tra loro collegate nell'elaborazione dell'informazione, dalla stimolazione all'emissione della risposta; esse consistono nell'analisi dell'informazione in entrata (input), nella memorizzazione e nella decisione ed esecuzione della risposta (output). Ciascuna di queste strutture è a sua volta articolata in nuove sottostrutture (per es., la memoria viene articolata, nelle varie teorie, secondo caratteri e tipologie diversi: memoria a breve o a lungo termine, memoria dichiarativa o procedurale ecc.). Oltre a ricostruire l'architettura della mente in stadi e livelli di elaborazione, gli psicologi cognitivisti hanno discusso il problema dell'esistenza di codici fondamentali di elaborazione (per es., il doppio codice visivo o verbale impiegato dalle operazioni mentali secondo A. Paivio, 1971) o il problema se la mente contenga le sue rappresentazioni sotto forma di proposizioni oppure di immagini visive (Pylyshyn 1973; Kosslyn 1975).
Il cognitivismo, come orientamento distinto, entrò in crisi nei primi anni Settanta a seguito delle critiche avanzate da vari psicologi, anche dallo stesso U. Neisser (1976) che ne era stato uno dei principali sostenitori. La prima critica riguardava la non attendibilità della ricerca cognitivistica: gli esperimenti erano condotti in laboratorio, fuori dal contesto naturale in cui si realizza l'interazione tra la mente e l'ambiente. L'approccio 'ecologico', proposto da J.J. Gibson (1979), riteneva al contrario che la mente dovesse essere studiata nel contesto ambientale in cui essa opera effettivamente. Un'altra critica riguardava la proliferazione dei modelli cognitivistici (con la relativa proposta di microstrutture e microsistemi incastrati gli uni negli altri), che aveva condotto a concepire l'architettura mentale come un sistema troppo complesso e di conseguenza non adeguato alla verifica empirica.
La 'scienza cognitiva' (Gardner 1985) ha sviluppato ulteriormente l'impostazione cognitivistica indagando le operazioni cognitive di un sistema di elaborazione (la mente umana naturale o la mente artificiale, il calcolatore) indipendentemente dal riferimento a fattori naturali, evolutivi e culturali. Questi fattori sono invece considerati rilevanti per lo studio della mente umana da parte dell'attuale 'psicologia cognitiva'. Uno dei temi più interessanti della p. cognitiva contemporanea riguarda la metacognizione, vale a dire la conoscenza-consapevolezza che un individuo ha dei propri processi mentali (Cornoldi 1995). Per es., oltre alla memoria, misurata in termini di prestazione in prove oggettive, vi è la metamemoria, e cioè la consapevolezza che ciascun individuo ha della propria memoria. È una consapevolezza che evolve nel tempo, per tutto l'arco della vita, controllando e regolando i processi cognitivi individuali. Il concetto di metacognizione è alla base dell'insieme di nozioni e credenze e cioè della 'teoria' che un individuo ha della mente propria e altrui. Come hanno dimostrato studi recenti sullo sviluppo psichico del bambino (La teoria della mente, 1995), la "teoria della mente" maturata da ciascuno permette a individui diversi di interagire sulla base dell'assunzione di condividere gli stessi processi mentali. La teoria della mente è 'implicita', nel senso che è usata inconsapevolmente dalle persone nella loro interazione (se una persona parla con un'altra, assume implicitamente che quest'ultima stia comprendendo, memorizzando ecc. e che possa, quindi, rispondere in modo altrettanto comprensibile; in altri termini, il presupposto di partenza dell'interazione è che l'interlocutore stia usando i processi cognitivi propri di una mente umana). Uno sviluppo inadeguato della metacognizione e della teoria della mente nella prima infanzia sarebbe alla base dei disturbi relazionali che risaltano in sindromi come l'autismo (Frith 1989).
Il cognitivismo, e poi la scienza cognitiva, hanno avuto i rapporti interdisciplinari più fecondi con le neuroscienze e, in particolare, con le neuroscienze cognitive (Cognitive neuroscience, 1997) interessate all'architettura cerebrale dei processi cognitivi. I risultati più importanti sono stati conseguiti grazie al notevole sviluppo tecnologico degli strumenti di registrazione e analisi delle attività cerebrali (dalle tecniche computerizzate per lo studio dell'attività elettrica cerebrale alle tecniche di neuroimmagine, come la PET, Positron Emission Tomography, o la risonanza magnetica funzionale). Inoltre, lo studio sistematico e approfondito di pazienti cerebrolesi, e cioè il settore noto come neuropsicologia, ha dimostrato la complessità dell'organizzazione cerebrale che sta alla base dell'integrità funzionale dei processi psichici (Manuale di neuropsicologia, 1990, 1996²). La neuropsicologia, dopo aver proposto modelli di funzionamento cerebrale sulla base di vasti campioni di pazienti cerebrolesi, ha rivalutato lo studio del singolo caso per la specificità e varietà di disturbi psicologici che può presentare.
Tra i modelli che hanno influenzato le neuroscienze cognitive, quello della mente modulare proposto da J.A. Fodor (1983) ha suscitato il dibattito più ampio. Secondo Fodor (v. in questa Appendice), che si è basato sui risultati della neurofisiologia relativi all'architettura funzionale della corteccia cerebrale, la mente è composta da sottosistemi (o moduli), ciascuno dei quali sarebbe specializzato per specifiche operazioni cognitive (il riconoscimento di facce, l'elaborazione dell'informazione verbale o musicale ecc.). Il connessionismo ha invece proposto la concezione di un'organizzazione diffusa dell'elaborazione condotta in parallelo da reti neurali (Churchland, Sejnowski 1992). L'argomento su cui da ultimo si sono concentrate le neuroscienze cognitive è la coscienza, e cioè la dimensione soggettiva e privata della psiche che i ricercatori del passato avevano deliberatamente evitato di considerare per problemi metodologici. Il problema della coscienza è affrontato attualmente studiando la relazione tra elaborazione inconscia ed elaborazione consapevole dell'informazione. Numerosi dati neuropsicologici dimostrano la dissociazione tra i due tipi di elaborazione, per cui un paziente cerebroleso può continuare a elaborare inconsapevolmente l'informazione esterna, ma non sa farlo in modo cosciente. Molte ricerche, condotte con tecniche di neuroimmagine, cercano di individuare le basi cerebrali di queste due modalità di elaborazione dell'informazione (Crick, Koch 1995; Conscious and unconscious information processing, 1994).
Nell'ambito della p. dello sviluppo, le linee di ricerca più rilevanti sono rappresentate, da una parte, dall'interazione tra psicoanalisi, etologia e p. sperimentale intorno al tema dell'evoluzione dei legami affettivi e, dall'altra, dalla diffusione del pensiero di L.S. Vygotskij (1896-1934).
Dopo gli studi sull'attaccamento di J. Bowlby (1969), la relazione tra madre e bambino è divenuta un tema privilegiato di indagine. Se nelle concezioni passate tale relazione era concepita come finalizzata alla soddisfazione dei bisogni primari del bambino (fame, sete, sonno ecc.), la nuova prospettiva ha assegnato all'attaccamento una funzione distinta sulla quale si costruirebbero i rapporti interpersonali e affettivi del futuro adulto (Stern 1985; Affetti, 1990). Dopo la grande influenza esercitata dall'opera di J. Piaget sulla p. dello sviluppo e la psicopedagogia negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, le ricerche sui processi cognitivi del bambino e sui rapporti tra apprendimento e istruzione sono attualmente in larga parte ispirate al pensiero di Vygotskij, le cui opere, scritte negli anni Venti e Trenta, erano rimaste inedite o poco conosciute per motivi storici e politici. Rispetto alla teoria piagetiana che delineava gli stadi dello sviluppo cognitivo di un bambino 'universale', le ricerche dello studioso russo hanno messo in evidenza la differenziazione dei processi psichici in relazione ai contesti sociali e culturali. Per questo motivo sono risultate più adeguate per interventi educativi in ambienti socialmente e culturalmente deprivati quelle ricerche psicopedagogiche di indirizzo vygotskijano nelle quali è posto l'accento sulla socializzazione e il lavoro di gruppo tra pari (Bruner 1996; Tryphon, Vonèche 1996).
La personalità è stata considerata tradizionalmente il nucleo fondamentale della ricerca psicologica, sia perché nel concetto di personalità si compongono e si integrano i processi cognitivi e i processi psicodinamici, sia per il problema del peso che hanno sul suo sviluppo le variabili genetiche e biologiche, da una parte, e quelle sociali e culturali, dall'altra. A seconda delle varie scuole di riferimento, gli studiosi della personalità hanno messo in risalto le componenti psicodinamiche o quelle cognitive, i fattori biologici o quelli ambientali (Caprara, Gennaro 1994). Il tentativo più interessante di integrazione tra le varie impostazioni teoriche, e attualmente il più influente, è stato quello di A. Bandura (1986), che ha concepito lo sviluppo della personalità come assimilazione di modelli (patterning) proposti dall'ambiente socioculturale di riferimento per l'individuo.
Secondo Bandura, una delle caratteristiche più rilevanti della personalità è la capacità che ciascuno ha di percepire le proprie attitudini, capacità definita come autoefficacia percepita. Una persona con un'adeguata autoefficacia è in grado di pianificare e organizzare il proprio comportamento in funzione delle situazioni ambientali in modo flessibile e adattativo. Nella teorizzazione che Bandura ha svolto del concetto di piano e di correzione del comportamento è evidente l'influenza del cognitivismo: il comportamento è guidato da schemi e strategie; è, cioè, un sistema cognitivo che si autocorregge continuamente.
Anche la p. sociale ha assimilato molti concetti del cognitivismo, come appare evidente dall'utilizzazione del concetto di cognizione sociale. Allo stesso modo in cui acquisisce informazioni sul mondo esterno, le elabora, le seleziona e le immagazzina, pianificando conseguentemente le opportune risposte comportamentali, così la mente elabora informazioni di natura sociale, sviluppa strategie e pianifica risposte. Gli stereotipi e i pregiudizi, argomento classico della p. sociale, sono considerati distorsioni del sistema cognitivo-sociale delle persone. La cognizione sociale riguarda soprattutto la dimensione individuale delle relazioni sociali, e cioè come una singola persona costruisca un proprio sistema di controllo e regolazione dell'informazione sociale. Al livello di gruppo, è stato invece approfondito il concetto di rappresentazione sociale che indica l'insieme di conoscenze e pratiche di comportamento che un gruppo sociale o una comunità si formano rispetto a temi di natura sociale e culturale (come l'immigrazione degli extracomunitari, le cause dell'AIDS o il fondamentalismo islamico). Queste rappresentazioni sono all'inizio poco definite, ma in seguito si precisano e si cristallizzano in credenze che entrano a far parte del 'senso comune', orientando implicitamente il comportamento degli individui (Social representations, 1984).
La p. sociale di orientamento cognitivistico è stata criticata per aver trascurato la dimensione ecologica, quotidiana, delle relazioni interpersonali, ovvero per essere stata una p. da laboratorio (critica già ricordata per quanto concerne le ricerche sperimentali dei cognitivisti sui processi cognitivi). Molti psicologi contemporanei ritengono invece che l'indagine debba essere svolta sul modo effettivo in cui le persone, nella loro quotidianità, percepiscono i fatti e gli eventi del mondo sociale, su come ne parlano e ne discutono. Infatti, le singole persone rielaborano le proprie idee, rivedono le proprie visioni del mondo, argomentano e dialogano (di qui l'importanza dell'analisi della conversazione tra individui reali), sviluppando 'discorsi' o costruendo 'narrazioni' che variano individualmente.
La p. retorica o p. del discorso (Billig 1991; Harré, Gillet 1994), che si dedica a queste nuove tematiche, rappresenta uno degli orientamenti principali di quella che viene definita come psicologia postmoderna (Psychology and postmodernism, 1992). La contrapposizione tra p. moderna e p. postmoderna si basa su alcuni aspetti essenziali: la p. moderna è la p. scientifica sviluppatasi nella seconda metà dell'Ottocento, avendo come modello le scienze naturali e fisiche; è una p. di laboratorio che ha indagato le funzioni psichiche universali di un soggetto umano 'trascendentale', con interessi prevalentemente conoscitivi (sarebbe quindi, secondo la terminologia tradizionale, una scienza nomotetica che studia le leggi universali alla base dell'attività psichica); al contrario, la p. postmoderna, sviluppatasi nella seconda metà del Novecento, ha come modello le scienze umane e sociali, studia le differenze sociali e culturali nei processi psichici dei vari soggetti 'empirici', è una ricerca sul campo, con forti interessi applicativi (sarebbe quindi una scienza idiografica che descrive comportamenti individuali, socialmente e culturalmente contestualizzati; Mecacci 1999). Sebbene i fautori della p. postmoderna ritengano che la loro prospettiva sia un superamento della p. moderna, destinata a scomparire gradualmente, altri psicologi sostengono la possibilità che le due prospettive possano coesistere nel comune progetto di conoscenza della mente umana.
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