Psicologia
Nell'affrontare le problematiche del corpo, la psicologia generale ha fatto riferimento ad alcune prospettive fondamentali, dalla relazione Io-corpo, posta in evidenza dall'approccio fenomenologico-sperimentale, alla costruzione del cosiddetto schema corporeo e dell'immagine corporea mediata dal concetto di personalità, alla messa a punto degli stili cognitivi che ampliano il concetto di schema corporeo sino a comprendere componenti psicoaffettive. Negli ultimi decenni del 20° secolo l'interesse sembra essersi spostato dal problema dell'immagine del corpo a quello della sua rappresentazione, privilegiando lo sviluppo di tecniche in grado di mettere in rilievo le alterazioni del giudizio dell'immagine corporea.
l. Psicologia e corpo
I rapporti tra psicologia generale e problematiche relative al corpo sono sempre stati difficili, e negli ultimi anni del 20° secolo si sono fatti particolarmente problematici. Mentre a un estremo lo psicologo clinico affronta le tematiche della corporeità con grande facilità, sino a sostanziare molte delle sue pratiche applicative su fondamenti appunto corporei (si pensi, solo per fare l'esempio più semplice, a tutta la tematica della somatizzazione), e all'estremo opposto il filosofo della mente vede nel tentativo di soluzione dell'antico problema della dualità mente/corpo la fucina da cui far partire le sue teorizzazioni, il rapporto che tra psicologo generale e corpo si è venuto instaurando è come minimo contrassegnato da grande imbarazzo. Tutti riconoscono il fatto che il corpo è psicologicamente un elemento essenziale, che parlare di sé senza parlare di corpo è sostanzialmente insensato, che il corpo è (secondo le opzioni teoriche preferite) o il principale oggetto fenomenico del nostro vissuto, o la principale fonte di informazioni da processare. Di fatto, però, sono ben pochi gli psicologi che hanno messo al centro della loro riflessione i problemi corporei, i più hanno preferito ignorarli. E ciò è testimoniato largamente dall'assoluta scarsità di riferimenti alle problematiche del corpo nei manuali di psicologia generale in uso nelle università, in Italia come altrove, nei grandi testi di riferimento, nelle monografie classiche che hanno fatto nel corso della storia il punto teorico della disciplina. Tuttavia gli psicologi generali si sono occupati anche di corpo, seppure minoritariamente; quando lo hanno fatto, hanno utilizzato una grande finezza di analisi. In particolare, va segnalata la prospettiva fenomenologico-sperimentale, nel solco della tradizione che a partire da E. Mach giunge alla psicologia della Gestalt, sino a J.J. Gibson, e che ha dato un ruolo spesso centrale al corpo come oggetto fenomenico, il quale del campo fenomenico occupa una posizione centrale. L'altro grande filone di indagini è quello che, partito dalla neurologia, con le concezioni prima di cenestesia, quindi di schema corporeo, ha trovato poi in P. Schilder un formidabile sintetizzatore di apporti provenienti anche dalla personologia, dalla clinica, dalla sociologia, con la creazione del costrutto integrato di immagine corporea, tutt'oggi irrinunciabile per chi si occupa di questi problemi. Di qui hanno preso necessariamente le mosse gli studiosi di 'stili cognitivi', i quali hanno immesso le problematiche corporee come elementi fondanti della teoria della personalità. E di qui soprattutto ha preso avvio il grande filone di ricerca sulla misurazione delle immagini corporee. Purtroppo va detto che quest'ultimo oggi appare l'unico vitale all'interno della considerazione che ancora la psicologia fa delle problematiche corporee.
In un suo fortunato saggio sul corpo U. Galimberti (1989) scrive: "l'esperienza della nostra corporeità non è l'esperienza di un oggetto, ma del nostro modo di abitare il mondo" (p. 11), esprimendo con grande efficacia l'ambiguità di cosa è l'esperienza del corpo e di quelle che sono le difficoltà di affrontarla secondo le prospettive dello psicologo generale. Le pagine che hanno dedicato al corpo i grandi autori classici della psicologia della Gestalt, come W. Metzger (1941) o W. Köhler (1938), si riferiscono infatti con chiarezza a un oggetto fenomenico di cui si ha un'esperienza in quanto tale, ma con una sua duplicità fenomenica relativa anche al suo 'essere al mondo' (Merleau-Ponty 1945). Se il corpo come oggetto fenomenico può essere affrontato alla stessa stregua di ogni altro oggetto del nostro mondo fenomenico, di ogni percetto, sia pure con una sua relativa maggiore complessità propria del fatto di essere la risultanza di un'integrazione di molteplici afferenze sensoriali, l'essere al mondo, ovvero l'abitare il mondo, rimanda a universi di discorso talmente diversi e lontani da disarmare le possibilità di costruzione di strumenti anche concettuali di indagine, in una psicologia rimasta fondamentalmente sul versante metodologico ancora di tipo profondamente comportamentista.
Ma ciò non vale, si è detto, per la psicologia che come metodo privilegia la fenomenologia sperimentale, e in primo luogo per la psicologia della Gestalt e per chi ancora si richiama a questa impostazione teorica: in Italia, in particolare, G. Galli (1997) e, da un punto di vista più prossimo alla psichiatria fenomenologica, D. Cargnello (1968). Secondo Galli - che molto opportunamente premette alla sua trattazione un'approfondita analisi delle problematiche metodologiche che si incontrano quando si voglia affrontare scientificamente, in questa prospettiva, il problema del vissuto corporeo - va fatta preliminare chiarezza su una serie di problemi che in ogni caso vengono presupposti in ogni analisi psicologica, senza che vi si rifletta specificamente sopra. Se questo, di norma, comporta inconvenienti limitati, per alcuni oggetti di indagine, e in primo luogo il corpo, una mancata chiarificazione preliminare a vari livelli può portare a una confusione inestricabile di linguaggi, causa non ultima delle difficoltà che la psicologia incontra nell'affrontare questo affascinante ed elusivo oggetto di studio. Prima di ogni altra cosa, allora, occorre partire dalla definizione del 'livello di realtà' (Metzger 1941). Ogni oggetto infatti può essere definito a diversi livelli di realtà: un corpo è contemporaneamente un oggetto fisico, biologico, morale, estetico e così via. È frequente, nell'analisi del corpo come oggetto psicologico, il passaggio da un livello di oggetto organico a oggetto comportamentale, con arbitrarie implicazioni che, valide a un livello, non lo sono necessariamente all'altro. Una volta che si sia chiarito a quale livello di realtà ci si muove, occorre passare alla definizione dei 'confini' dell'oggetto. Anche qui la cosa parrebbe banale. Ma si pensi all'importanza fondamentale del limite posto dalla scansione temporale dei concetti che applichiamo al nostro oggetto di indagine, degli stati transitori contrapposti a quelli durevoli; o alla rilevanza locale di determinati aspetti dell'osservazione, contrapposti a quelli globali.
Legata alla definizione dei confini, vi è una tappa ulteriore che va logicamente distinta, quella della definizione del contesto spaziale e temporale in cui l'oggetto i cui confini sono stati definiti si colloca. Un esempio clamoroso di questa necessità, connesso a quella che è stata definita la 'validità ecologica' della ricerca psicologica, è dato dal contesto del laboratorio rispetto a quello della vita quotidiana dell'individuo (Brunswik 1956; Gibson 1979; Luccio 1996). L'applicazione di queste definizioni preliminari al problema dell'oggetto fenomenico 'corpo' porta immediatamente a vedere che si tratta di una realtà assai meno semplice di quanto non possa apparire ingenuamente. Così, diventa immediatamente chiara la necessità di operare una prima distinzione tra corpo inteso come organismo e corpo inteso come somma delle percezioni dall'organismo al soggetto senziente, che danno a questo un ben preciso vissuto. Come nota ancora Galli (1997) "quando diciamo 'mi sento debole, invecchiato, ringiovanito ecc.' si tratta di descrizioni dei modi di sentire, percepire il proprio corpo, di come il mio corpo appare a me" (p. 18). In questa seconda accezione, possiamo parlare di 'corpo-proprio', come distinto da 'corpo-organismo'. C'è da chiedersi però quali siano i confini del corpo-proprio, e quali rapporti esistano tra questo e il mio Io fenomenico. È curioso che tale problema, indubbiamente affascinante, abbia poi di fatto suscitato un'attenzione relativamente scarsa nell'ambito della ricerca psicologica. In un sorprendente lavoro del 1925 É. Claparède, uno psicologo di orientamento semmai funzionalista, e comunque lontano dalla fenomenologia sperimentale, faceva delle illuminanti riflessioni sulla localizzazione spaziale dell'Io fenomenico, che non avrebbe più ripreso personalmente e che si sarebbero poste al centro della discussione sulla fenomenologia del corpo di Metzger. La domanda che si poneva Claparède era: "È sensato parlare di localizzazione spaziale dell'Io? Dove, in senso propriamente topografico, noi collochiamo noi stessi?". La domanda appare bizzarra, ma posto che si rifletta meglio, ci si rende conto che noi viviamo fenomenicamente noi stessi all'interno del nostro corpo, sentiamo ineludibilmente di abitarlo. Se spingiamo un po' oltre l'analisi, capiamo di poter anche specificare meglio, all'interno del nostro corpo, dove 'ci viviamo'. Non certo ci sentiamo in un ginocchio, e neppure nel ventre. Siamo nella testa, certamente, e in una posizione abbastanza centrale. Per la maggior parte delle persone, di più, l'Io fenomenico è localizzato proprio dietro agli occhi, attraverso cui vede il mondo. Il rapporto tra corpo e Io si specifica allora fenomenicamente in termini di contenitore/contenuto, ma il contenitore non appare indifferentemente isotropico, e il contenuto ne occupa una parte privilegiata. È il problema dell'esistenza, per usare l'espressione di Metzger (1941), dell''Io vero e proprio', in cui hanno sede 'i nostri sentimenti', in cui troviamo rappresentazioni (Vorstellungen), che ci sono semmai davanti (Vor) e non dietro o accanto a noi; "e i nostri atti e sentimenti spesso partono dal nostro più ristretto Io per svolgersi chiaramente nella direzione di una meta definita in modo chiaramente spaziale" (trad. it., p. 357). Si potrebbe continuare a lungo sulla linea di questa sottilissima analisi delle relazioni fenomeniche tra Io e corpo, ma è qui sufficiente mostrarne la direzione. Si dirà che tali analisi, nella stessa psicologia della Gestalt, sono rimaste a livello largamente speculativo e non si sono fatte motore di ricerca empirica. È vero, ed è questo uno dei motivi forse per cui oggi tendono a essere dimenticate. Ma c'è da domandarsi di quanti tesori di ricerca empirica saremmo stati privati se queste analisi non fossero state fatte. È opportuno, in chiusura del paragrafo, ricordare che già sul finire dell'Ottocento quello straordinario fenomenologo che era Mach (1885) aveva condotto analisi sottilissime sulle relazioni tra Io e corpo, e aveva elaborato un concetto di 'Io visivo' che più o meno un secolo più tardi Gibson (1979) avrebbe posto a fondamento dell'analisi ecologica della percezione.
L'altra prospettiva fondamentale cui fa riferimento la psicologia generale nell'affrontare le problematiche del corpo è quella della costruzione del cosiddetto schema corporeo. Anche in tale contesto il corpo, come già nella prospettiva fenomenologica, è un oggetto nello spazio, non è un 'modo di abitarlo'. Ma in questo caso, il corpo, per usare un'espressione di P. Bonnier (1905), che fu probabilmente il primo a usare l'espressione schema corporeo e a individuare una sindrome neurologica relativa a deficit in tale schema, l'aschematia, è dato come sens d'éspace, come consapevolezza di ordine specificamente sensoriale, anche se non connessa univocamente a una modalità, di occupare un certo spazio. Lo schema corporeo così definito, in termini che potremmo dire topologici, supera il vecchio concetto di cenestesia, secondo cui esisterebbe un senso generale del proprio corpo, costruito sulla base delle afferenze muscolari, viscerali e articolari, come si voleva nella neuropsicologia ottocentesca. Lo schema corporeo è qualcosa di più: tutte le modalità, integrandosi, contribuiscono a crearlo e a mantenerlo, ma anche l'elaborazione cognitiva, propria di questa come di ogni altra consapevolezza, fa dell'esperienza corporea quell'unicum molto più ricco del semplice sommarsi degli apporti dei sensi legati alla dislocazione reciproca dei segmenti corporei. Ciò significa anche che lo schema corporeo non può essere disgiunto dallo schema spaziale, e cioè dalla consapevolezza della struttura dello spazio all'interno del quale il nostro corpo si trova e dei rapporti topologici esistenti tra il nostro corpo e tale spazio. Un contributo fondamentale alla costruzione di questo nuovo concetto, realmente rivoluzionario rispetto al modo precedente di considerare le cose, venne dato negli anni attorno alla Prima guerra mondiale da due grandi neurologi, l'inglese H. Head e il praghese A. Pick. Pick (1908, 1915) assunse con entusiasmo la proposta topologica di Bonnier, tanto che l'aschematia diventa nella sua sistematizzazione l'autotopoagnosia, il disturbo, cioè, della conoscenza (agnosia) della propria posizione nello spazio (autotopologia). Come diceva Head (1920), bisogna assumere che nel cervello ci sia una sorta di dispositivo che integra tra di loro i differenti schemi (cinetico, tattile, posturale, visivo, uditivo ecc.) provenienti dalle afferenze periferiche in uno schema generale sovraordinato, una sorta di somatogramma che si rinnova continuamente al modificarsi delle afferenze che gli provengono. Al concetto di schema corporeo, allora, Head, sottolineando l'importanza della conoscenza della posizione del corpo, preferisce sostituire l'espressione 'modello posturale del corpo'. L'autore che ha portato però nei fatti la psicologia a compiere questa autentica rivoluzione nella considerazione del corpo, con l'affermazione definitiva del passaggio dal concetto di cenestesia a quello di schema corporeo è stato, nel 1935, P. Schilder. In un suo saggio molto fortunato, Schilder ha compiuto una straordinaria operazione di sintesi di dati provenienti da due settori della ricerca, quello psicologico clinico e quello neuropsicologico, rimasti sino a quel momento rigidamente separati e incomunicanti. Il grande merito di Schilder è stato quello di dare un senso 'materiale' alle problematiche emozionali connesse al corpo, con il saldarle al funzionamento dell'organismo, particolarmente del sistema nervoso, e di dare un senso 'mentale' al dato neurologico, legandolo al fatto che il funzionamento del sistema nervoso ha psicologicamente senso se fondato sulla considerazione dei processi propriamente psicologici che vi si correlano. In effetti, l'opera di Schilder è stata il frutto di un'evoluzione che si è protratta dal 1923, anno in cui pubblicava in tedesco una monografia specificamente neurologica nei limiti dello schema corporeo, come definito da Pick a Head, al 1935, anno di comparsa del suo saggio. Probabilmente, però è stata l'edizione postuma del 1950, dieci anni dopo la sua scomparsa, che avrebbe consacrato la sua opera come il vero nuovo vangelo della scienza psicologica del corpo. L'evoluzione chiave è quella che si compie dal 1923 al 1935, dall'analisi psicobiologica all'ingresso di Schilder sul palcoscenico di quello che è il grande movimento che sta scuotendo la psicologia, specie americana, dell'epoca: la teoria della personalità. Con questa espressione non si intende l'affacciarsi di una certa teoria della personalità, anzi.
Gli autori che si sono imposti in questo periodo avevano opzioni teoriche anche molto differenti, ma erano unificati probabilmente da due esigenze: studiare l'uomo in quello che lo rende unico e non tanto per le leggi generali che valgono per ogni uomo, e che fanno perdere di vista la specificità del singolo; e cercare di integrare per quanto possibile gli apporti delle più diverse provenienze, dopo decenni di divisioni e polemiche anche aspre tra le diverse scuole. Il punto di partenza di Schilder è squisitamente personologico. Come egli nota, quando percepiamo o immaginiamo un oggetto o ne costruiamo la percezione, non agiamo semplicemente come un apparato percettivo, ma vi è sempre una personalità che sente la percezione, e questa rappresenta il nostro modo particolare di percepire. Noi riceviamo delle sensazioni, vediamo parti della superficie del nostro corpo, abbiamo impressioni tattili, termiche, dolorose, siamo consapevoli dello stato di tensione dei nostri muscoli. Ma al di là di tutto ciò vi è l'esperienza immediata dell'esistenza di un'unità corporea, che se è vero che viene percepita, è d'altra parte qualcosa di più di una percezione. È lo schema corporeo, che peraltro è l'immagine tridimensionale che ciascuno ha di sé stesso, e che Schilder preferisce allora definire come 'immagine corporea', coniando l'espressione che in questi ultimi anni soppianterà la precedente. L'espressione indica che non si tratta semplicemente di una sensazione o di un'immagine mentale, ma che il corpo assume un certo aspetto anche rispetto a sé stesso. E implica inoltre che l'immagine non è semplicemente percezione sebbene ci giunga dai sensi; l'immagine comprende "schemi e rappresentazioni mentali, pur non essendo semplicemente una rappresentazione" (Schilder 1935, trad. it., p. 35). L'immagine, così, non è esclusivamente legata all'organizzazione fisiologica degli stimoli percepiti, ma piuttosto alla possibilità che ha l'essere umano di percepirsi come unità che comprende anche aspetti cognitivi e affettivi; diventa un'immagine vissuta, non più statica ma dinamica. L'immagine corporea cresce e si trasforma attraverso la vita di una persona. A partire dalle prime fasi nelle quali non è ancora delineata la distinzione tra sé e l'ambiente, si sviluppa progressivamente il senso della distinzione tra realtà interna e realtà esterna. L'esperienza del proprio corpo diventa il referente privilegiato per la possibilità del bambino di organizzarsi nello spazio. A questo punto il corpo viene percepito in tutto il suo potere di sé senziente e operante in mezzo agli altri. Al di là della sua rilevanza, quanto meno storica, l'opera di Schilder non ha mancato di suscitare anche critiche, a volte abbastanza aspre, particolarmente da parte di autori legati alla psicologia della Gestalt o di neuropsicologi. In generale, l'accusa è stata di aver peccato, nel voler mettere troppi apporti insieme, di eccesso di eclettismo.
La teoria di Schilder presenta oggettivamente delle difficoltà reali. Non sempre egli riesce a definire con la necessaria precisione concettuale i termini che usa. Come nota Cargnello (1973), lo stesso termine fondante schema viene utilizzato per indicare uno 'schema di orientamento', ma anche uno 'schema di orientamento tra ciò che ci circonda', e ancora uno 'schema di azione', o uno 'schema motorio', e così via. E difficoltà analoghe presentano il termine immagine e lo stesso termine corpo. A volte Schilder difficilmente definisce il 'livello di realtà' dei concetti che impiega; quasi mai si preoccupa di delimitarli con precisione; quasi mai ne individua in modo inequivoco il contesto. In ogni caso, e al di là delle più che ragionevoli critiche rivoltegli, resta a Schilder l'enorme merito di aver portato la problematica corporea dal dominio della cenestesia al terreno propriamente psicologico. Come spesso accade ai pionieri, in questa ciclopica opera di sintesi da lui affrontata non sempre è riuscito a procedere con il giusto rigore. Tuttavia, a differenza di tanti altri, almeno ha visto che una strada vi era.
L'opera di Schilder suscitò un notevolissimo interesse, che tuttora è lontanissimo dall'essersi placato, e le sue influenze sono andate in più direzioni. Indubbiamente, una delle più interessanti è stata lo stimolo che ha esercitato sulle ricerche sperimentali in cui si è cercato di analizzare il rapporto tra problemi corporei, personalità, intesa in termini di stili cognitivi, e percezione. È qui indispensabile una rapida premessa. Come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, a metà degli anni Trenta del 20° secolo si ha lo sviluppo impetuoso del movimento personologico, di cui certamente Schilder è uno dei più autorevoli rappresentanti, e in particolare è esemplificativo di una delle anime di questo movimento, quella sincretica: il tentativo, cioè, di integrare differenti apporti teorici (Gestalt, psicoanalisi, funzionalismo, comportamentismo), ma anche diversi ambiti di ricerca (psicologia dei processi cognitivi, delle emozioni, dell'affettività, psicopatologia, neurologia, sociologia) in un'unica visione integrata dell'uomo. Questa tendenza, nell'immediato dopoguerra, si viene a incontrare con una profonda crisi della ricerca teorica e sperimentale sulla percezione. La scuola che maggiormente si è occupata di questo tema, la psicologia della Gestalt, non ha ben retto al trapianto dalla Germania agli Stati Uniti, dove il clima scientifico e culturale non le è affatto propizio, e vive i suoi ultimi momenti tra fraintendimenti, crisi, polemiche (Henle 1977). Appare quindi naturale, quasi inevitabile, un incontro tra percezione, finora studiata astraendola da tutti gli altri aspetti della vita psichica del soggetto, in termini di puri fattori 'autoctoni', e personalità, l'insieme di fattori più propriamente funzionali, stabili o transitori, saldati alla storia complessiva dell'individuo (Bruner 1957). È questo il cosiddetto New look, la 'nuova visione' della psicologia della percezione, nella quale assumono un rilievo particolare studiosi come G.S. Klein o H.A. Witkin, che cercano di precisare dei tipi di personalità ('accentuatori' e 'livellatori' di Klein, 'campo-indipendenti' e 'campo-dipendenti' di Witkin) a cui corrispondono delle modalità differenziate di elaborare cognitivamente i dati ambientali: modalità che vengono dette 'stili cognitivi' (Canestrari-Marzi 1958).
In quest'ottica si colloca il contributo teorico e sperimentale di H. Werner e S. Wapner (1949), che si pone in diretta contiguità con le ricerche di Schilder, ma che introduce nell'ambito delle problematiche connesse al rapporto percezione/personalità degli aspetti decisamente corporei. Già Witkin e S.E. Asch (1948) avevano dimostrato che un soggetto il cui corpo venga tenuto inclinato non apprezza correttamente la verticale visiva, e che l'entità e la direzione dell'errore dipendono dalla sua 'campo-indipendenza' o 'campo-dipendenza'. Di qui partono Werner e Wapner per costruire una teoria in cui le variabili organismiche corporee hanno un preminente rilievo. Questi due autori, come tutti gli autori più o meno direttamente legati al New look, criticano la psicologia tradizionale per aver sempre considerato la percezione in termini di dualità di fattori, persona percipiente da un lato, oggetto percepito dall'altro. Vengono così isolate alcune variabili irriducibili, quasi che potesse darsi una percezione senza percipiente o senza percepito, mentre le variabili in gioco sorgono e si specificano come tali nella loro attualità solo dalla loro reciproca interazione. Di più, la dualità non può che essere descrittiva, ma le variabili interagenti in quanto tali devono avere sostanzialmente la stessa natura. Come è possibile però affermare l'omogeneità sostanziale dei due fattori? Il fatto è che gli stimoli che provengono dall'oggetto non interessano solo l'apparato visivo e il processo percettivo non è di natura esclusivamente sensoriale monomodale. In parallelo si ha infatti una modificazione del tono muscolare. Se quindi il fattore sensoriale, cioè gli stimoli provenienti dall'oggetto, e il fattore organismico, cioè quelli di origine somatica o viscerale, sono mediati da una stessa modalità energetica, il problema dell'individuazione della natura e del manifestarsi dell'interazione percettiva può considerarsi risolto. È questo il famoso 3° postulato di Werner e Wapner, che suscitò all'epoca polemiche e discussioni a non finire (tutta la teoria è costruita in forma ipotetico-deduttiva, sulla base di una serie di postulati, secondo uno stile di stesura allora molto in voga negli Stati Uniti). La problematica degli stili cognitivi ha avuto il massimo fulgore negli anni Cinquanta-Sessanta del 20° secolo, ed è poi andata progressivamente declinando. Oggi, nella psicologia contemporanea occupa un suo spazio limitato, ma senz'altro vitale, soprattutto per quel che riguarda il tema delle differenze individuali e i rapporti tra neuropsicologia e psicologia generale. Il corpo, la sua rappresentazione, la sua influenza, anche in termini di equilibri di tensioni muscolari, detiene un posto centrale in questa riflessione. Siamo però certamente lontani dagli entusiasmi, e anche dalle polemiche, che avevano accompagnato il sorgere di teorie come quelle di Werner e Wapner.
Abbiamo visto come, a partire da Head, ma soprattutto con la prospettiva personologica integrata di Schilder e con gli stili cognitivi del New look, il concetto di schema corporeo, che vede il processo percettivo come unicamente collegato allo sviluppo delle strutture cognitive, si amplia sino a comprendere componenti psicoaffettive. Si delineano così dei costrutti psicodinamici che, come quello dell'Io corporeo, vengono a comprendere come integrate tra loro sia la nozione di schema sia quella di immagine corporea (Del Miglio 1989). E il problema dell'immagine trascina con sé quello della rappresentazione dell'immagine. Tra l'altro, anche in questo caso, come già avvenne per la personologia negli anni Trenta, vi è una discussione vivace presente in altri settori della psicologia, quella relativa alle immagini mentali (Le immagini mentali 1992). Compaiono sempre più numerosi gli studi sperimentali tesi a dimostrare che l'uomo ha delle reali difficoltà nel valutare le dimensioni del proprio corpo, e anche se i risultati delle ricerche non sono sempre confrontabili per la varietà dei metodi usati, ciononostante si evidenzia in tutti questi casi una certa predisposizione dei soggetti a commettere errori sistematici. Emergono dei risultati che appaiono di indubbio interesse e che sono confermati nel corso delle ricerche. Pare così che sia più facile stimare la forma e le dimensioni degli oggetti inanimati rispetto a quelli del proprio volto (Schneidermann 1956), o che se la parte corporea da stimare è in movimento ciò comporti una maggiore facilità di valutarla con esattezza rispetto a quando è immobile (Fuhrer-Cowan 1967). Un ruolo di particolare rilievo, tra i fattori che influiscono sulla precisione della valutazione dell'immagine corporea, ha il sesso, come ha messo in rilievo F. Shontz (1963). Sono in particolare i fattori di desiderabilità sociale che agirebbero in misura considerevole nel determinare, in interazione con il sesso, la percezione del proprio corpo (Fallon-Rozin 1985): così, le ragazze tenderebbero a percepirsi sovrappeso, i ragazzi sottopeso (Gray 1977). Ovviamente non parliamo qui delle numerosissime ricerche cliniche che hanno messo in relazione la percezione dell'immagine corporea con le più diverse deformazioni risultanti, con svariate condizioni picopatologiche, dalla schizofrenia all'alcolismo (Wylie 1974). L'interesse è semmai rivolto al fatto che queste ricerche hanno stimolato lo sviluppo delle più diverse tecniche e come pure dei più diversi strumenti. In questa situazione, con il fiorire di numerosissime ricerche rivolte ai settori più disparati, il rischio è di trovarsi davanti a un panorama talmente frammentato da rendere impossibile una sintesi. È stato Shontz (1969) che ha tentato di mettere ordine nel campo, sviluppando la sua teoria PBP (Personal body perception), che, più che una teoria della costruzione cognitivo-affettiva dell'immagine corporea, è un riuscito tentativo di costruzione di una tassonomia delle variabili che entrano in gioco. Per capire bene il quadro che Shontz presenta, si faccia mente locale a una situazione sperimentale di questo tipo. Il soggetto viene posto di fronte a uno specchio deformante, che gli rimanda la sua immagine per es. allungata e assottigliata, o viceversa. Lo stesso effetto potrebbe prodursi facendo guardare il soggetto allo specchio e ponendogli davanti agli occhi delle lenti anisoconiche, che ne deformano analogamente l'immagine percepita; o lo stimolo potrebbe essere rappresentato da fotografie deformate ecc. Shontz individua così quattro tipi di variabili: 1) le variabili dello stimolo, che sono elementi presenti nel setting sperimentale e che provocano la risposta del soggetto (lo stesso stimolo indirizzato a parti del corpo differenti provoca risposte diverse); 2) le variabili costanti del soggetto, che ne rappresentano le caratteristiche psichiche relativamente stabili della personalità; 3) a fianco alle precedenti, le variabili transitorie del soggetto, che sono temporanee e che sono manipolabili nella situazione sperimentale; 4) le variabili della riposta, che misurano la corrispondenza tra questa e lo stimolo. Un importante concetto elaborato da Shontz è quello di adeguatezza, inteso come corrispondenza tra la risposta del gruppo sperimentale rispetto a quello di controllo. Il processo che la procedura sperimentale di valutazione dell'immagine corporea mette in gioco implica anch'esso, secondo Shontz, diverse fasi: nella prima si ha il momento di input, che comporta la valutazione della struttura fisica che viene inserita nella presentazione al soggetto in un contesto spaziale. Nel secondo momento la ricezione è selettiva, in quanto è legata alle caratteristiche individuali del soggetto e alla situazione sperimentale. Segue poi un terzo momento di elaborazione cognitiva, e un quarto di amplificazione, prodotto dell'incontro tra valutazione soggettiva e risposta. Solo a questo punto si ha l'ultimo momento, quello della risposta emessa dal soggetto. Come si vede, il contributo di Shontz non è tanto teorico, quanto metodologico. Di fatto, però, vi è un aspetto anche teoricamente originale nella sua elaborazione. Lo schema corporeo, secondo Shontz, è di fatto una struttura cognitiva stabile, che spiega perché la percezione delle proprietà spaziogeometriche del corpo, che ne costituiscono l'immagine, differisce dalla percezione delle proprietà spaziogeometriche degli oggetti neutri che ci circondano. Di fatto, almeno in questa fase storica, la psicologia generale non sembra in grado di produrre nuovi concetti teorici e nuovi sistemi. L'interesse è rivolto allo sviluppo di tecniche che mettano in rilievo le alterazioni di giudizio dell'immagine corporea. E in questa fase, un contributo come quello di Shontz è prezioso.
Il discorso, purtroppo, sostanzialmente qui si chiude. C'è da domandarsi dove siano finite le profonde analisi fenomenologiche dei Metzger e dei Claparède; dove, le sintesi degli Schilder; oppure le teorie personologico-percettive del tipo del campo sensorio-tonico. Le ricerche sui problemi del corpo, per quel che attiene alla psicologia generale, sono diventate i problemi della rappresentazione dell'immagine del corpo, con una straordinaria povertà teoretica. Il cognitivismo, che a partire soprattutto dagli anni Sessanta del 20° secolo ha così sostanzialmente rinnovato la psicologia, ottenendo risultati anche spettacolari sul piano della ricerca empirica e della riflessione teorica, ha completamente accantonato le problematiche del corpo (v. cognizione). C'è per quest'ultimo fatto, comunque, un motivo abbastanza preciso. Che cosa di fatto è stato, è il cognitivismo rispetto alla psicologia che lo ha preceduto? Sostanzialmente, lo studio non più del comportamento, meno che meno dell'organismo, ma soprattutto quello della mente, concepita come meccanismo altamente astratto di manipolazione di simboli. Non solo il corpo non esiste più, ma ogni riferimento a quanto vi è di organico rischia di diventare fuorviante, e sostanzialmente minacciante per gli eleganti modellini che devono mostrare come l'informazione viene processata all'interno del sistema mente. Evidentemente, non tutta la psicologia attuale è questo, o lo è in termini così stretti. L'opposizione a tale tentativo, guidata in Italia da D. Parisi (1999), è certamente ancora debole e minoritaria, ma ha trovato un forte alleato proveniente da un settore relativamente lontano dalla psicologia: le teorie dei sistemi dinamici non lineari (Luccio 1998). In particolare, un notevole sviluppo ha avuto tutta la ricerca relativa alla scienza del movimento, che ha dovuto fare i conti con problemi muscolari, e quindi corporei. Molto spesso, ed è il caso soprattutto delle abilità percettivo motorie (Annett 1966; Welford 1967), da un punto di vista teorico di fondo, le cose non sono cambiate rispetto all'analisi in termini di mente, perché il sistema motorio è stato a sua volta concepito secondo schemi al meglio metaforici, ma di massima come sistema altamente astratto. Ma, proprio a partire dall'analisi del movimento, è cominciato a entrare anche in psicologia un modo di concepire le cose in riferimento a sistemi complessi, di dinamica non lineare della complessità, che a questo punto non si rivolge più ai sistemi astratti, ma vede in un'unità di corpo e mente un sistema che evolve nel tempo verso situazioni di maggiore o minore equilibrio (Kelso 1995; Luccio 2000).
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