PSICOLOGIA
. Il termine "psicologia" (dal gr. ψυχή "anima" e λόγος "ragionamento, discorso") significa letteralmente "dottrina dell'anima"; e sembra sia stato coniato da Melantone (nella forma latina psychologia) e specialmente messo in circolazione da Rodolfo Goclenio, che nel 1590 diede il titolo di Ψυχολογία a un suo trattato De hominis perfectione, anima. Affermatosi poi definitivamente nell'uso con il Leibniz e con la scuola wolffiana, divenne termine comune per designare ogni dottrina che circa la natura dell'anima fosse stata professata fin dall'antichità, quando ancora non si parlava di "psicologia" ma solo d'indagini περὶ ψυχῆς o de anima. Più tardi, fra il sec. XVIII e il XIX, lo sviluppo intrinseco tanto della filosofia quanto della scienza portò a una determinazione più particolare del dominio della psicologia. Essa si conformò infatti come scienza empirica di quel mondo della consapevolezza che la filosofia studiava dal punto di vista trascendentale e che fisiologia e fisica indagavano solo nei suoi riflessi esterni. A tale significato, che la "psicologia" ha mantenuto nell'età moderna, corrisponde la forma più adeguata e matura che essa è venuta assumendo, in quanto si è presentata come "psicologia sperimentale", basata cioè sullo stesso metodo sperimentale delle scienze naturalistiche. In conformità di tale duplice significato (il primo più vasto e classico, il secondo più delimitato e moderno) del termine, si accennerà in una prima parte al generale sviluppo storico della psicologia, per tracciare poi i principali lineamenti della moderna psicologia sperimentale.
La psicologia nel suo sviluppo storico.
L'età classica. - L'idea generale dell'anima, che appare presupposta dalle più antiche riflessioni greche circa la sua natura, è quella stessa che si constata propria dei primitivi e costitutiva di ogni animismo (v. anima; animismo): l'anima è cioè considerata non tanto come principio di consapevolezza quanto come generale principio di vita, identificandosi (conforme all'originario significato delle sue designazioni) col soffio vivificante del respiro. Di qui, per es., il tipico parallelismo istituito da Anassimene (nel sec. VI a. C.) tra l'aria principio della vita cosmica e l'anima principio della vita corporea: mentre Diogene di Apollonia, che nel secolo seguente riprende tale concezione connettendola con quella anassagorea dell'intelletto cosmico, se ne differenzia proprio in quanto aggiunge, mercé tale connessione, alla primitiva semplice vitalità dello spiritus la sua consapevolezza e razionalità. La concezione dell'anima come sede della coscienza, e quindi come principio della responsabilità e del valore morale, si afferma infatti essenzialmente nel quinto secolo. Da un lato essa è implicita nell'insegnamento morale di Socrate (che per alcuni, come il Burnet e il Taylor, sarebbe anzi ll vero e proprio autore di tale trasformazione del concetto della ψυχή) esortante ad anteporre gl'interessi dell'anima a quelli del corpo; dall'altro risulta dal consolidamento etico-metafisico; operato da Platone, della tradizione orfico-pitagorica, già teoreticamente sistemata nel secolo precedente e asserente l'immortalità e la metempsicosi dell'anima.
Nella filosofia di Platone s'incontra infatti per la prima volta una vera e propria psicologia, come particolare dottrina speculativa concernente la natura dell'anima. Approfondendo l'idea pitagorica della sua trasmigrazione attraverso varie esistenze corporee, Platone ne asserisce anzitutto l'immortalità, con più d'una dimostrazione. Nel Fedro l'anima appare tale in quanto unica realtà semovente (αὑτὸ κινοῦν), e quindi indipendente da ogni altra condizione di vita; nella Repubblica, in quanto sopravvivente anche all'ingiustizia, che per essa è la più grave malattia possibile; nel Fedone, in quanto implicante di necessità, nel suo stesso concetto, il principio della vita. Eterna, l'anima ha quindi sperimentato, prima di entrare in un dato corpo, infinite esistenze anteriori; è stata nell'Iperuranio, la divina regione "sopraceleste", dove ha contemplato le idee, che può quindi ricordare in terra (per "reminiscenza" o "anamnesi") quando vi sia indotta dalla somiglianza delle cose sensibili. Da questa sostanziale indipendenza dell'anima rispetto al corpo deriva la forma più tipica della morale platonica, come etica dell'ascesi e della purità. L'imperfezione e l'errore sono infatti attribuiti esclusivamente al corpo, l'anima essendo in sé superiore a ogni passione, che possa distrarla dalla contemplazione ideale e dalla conseguente azione retta. Si tratta quindi semplicemente di mantenerla immune dalla corporeità nonostante la prigionia in essa, e di prepararla, con la meditatio mortis, alla liberazione. Ma questa psicologia rigorosamente ascetica non è esclusiva in Platone, poiché in esso s'incontra anche una diversa psicologia, secondo la quale il mondo delle passioni, e quindi il fondamento degli errori e dei vizî, non è affatto estraneo all'anima in quanto meramente corporeo, ma anzi ad essa intrinseco, sia pure come suo costituente inferiore. È questa la psicologia che specialmente si presenta nella Repubblica e nel Fedro, con la famosa partizione dell'anima nelle due sfere del "razionale" (λογιστικόν) e dell'"irrazionale" (ἀλόγιστον), l'ultima delle quali distinta a sua volta in quella degl'impeti (ϑυμοειδές) e in quella dei desiderî (ἐπιϑυμητικόν), e con la corrispondente sua comparazione al cocchio, in cui la parte razionale è rappresentata dall'auriga e le irrazionali dai due cavalli mordenti il suo freno. Secondo questa psicologia, la salute dell'anima non consiste più nella semplice sua separazione dal corpo, ma nel dominio interiore, che non esclude il mondo delle passioni ma lo regola secondo i suoi fini: la sua virtù suprema è di conseguenza quella della giustizia, assicurante l'equilibrio gerarchico delle particolari virtù presiedenti alle singole sfere psichiche. S'intende quindi come su tale tripartizione dell'anima si possa per Platone fondare la stessa tripartizione dello stato.
Aristotele dedica alla psicologia uno speciale trattato, il De anima. Questo peraltro contiene soprattutto la forma più matura della sua psicologia, indipendente, se si esclude la teoria dell'intelletto, dall'influsso platonico. Da questo è invece totalmente determinata la psicologia giovanile di Aristotele, espressa, p. es., nel dialogo Eudemo. Qui egli partecipa ancora pienamente della persuasione platonica dell'immortalità, e cerca di approfondirne le dimostrazioni conferendo loro maggior rigore metodico e logico. Ma la psicologia platonica contrappone l'anima immortale al corpo mortale in maniera analoga a quella in cui fa sovrastare le idee imperiture alle cose transeunti: s'intende quindi come la posteriore critica aristotelica della trascendenza delle idee platoniche debba implicare anche la rinuncia alla tesi dell'immortalità indipendente dell'anima. Come l'idea esiste solo in quanto forma della materia, nella concretezza indissolubile della sostanza individua, così l'anima vive come forma della materia corporea, o come attualità (o "entelechia") della sua potenza, secondo il tipico aspetto dinamico della dualità fondamentale della metafisica aristotelica. Di qui la concezione (particolarmente espressa nel De anima) dell'anima come funzione vitale e organica del corpo, presente quindi in ogni forma di vita. In quella delle piante appare come semplice "anima vegetativa" o "nutritiva", in quella degli animali possiede, oltre a tale facoltà, quelle della "sensibilità", del "desiderio", del "movimento": nell'uomo, infine, il potere dell'anima culmina nella funzione "dianoetica" o "pensante", a cui appartengono tutte le attività proprie dell'essere razionale. La suprema forma di questa attività pensante, quella dell'"intelletto", è d'altronde per un lato immanente e per un lato trascendente rispetto all'anima, perché, se ad essa intrinseco è l'"intelletto passivo", cioè la potenziale e generica capacità intellettuale, ad essa superiore, in quanto universale e "divino" e "sopraggiungente dall'esterno", è l'"intelletto agente", cioè l'effettiva attività intelligente, mediatrice delle supreme verità. Così, se per un verso la psicologia aristotelica, concependo l'anima come costitutivamente legata al corpo e quindi partecipe della sua sorte, nega la sua immortalità e pone in tal modo in grave imbarazzo il pensiero cristiano che ad esso più tardi si ricollega pur non potendo rinunciare al postulato fondamentale della sua psicologia ed escatologia, per altro verso, ammettendo, in una dottrina oscura e quindi d'interpretazione infinitamente dibattuta, la parziale immortalità dell'intelletto, apre il varco a possibili conciliazioni e contaminazioni.
Le dottrine platoniche e aristoteliche si possono considerare fondamentali per tutta la psicologia classica: il pensiero posteriore infatti o si limita a negarle, tendendo a dissolvere il concetto dell'anima e con ciò a eliminare il tema stesso della scienza, o ne compone ed elabora in vario modo i motivi. La prima tendenza è soprattutto rappresentata dall'epicureismo, che rinnovando la concezione democritea considera l'anima come anch'essa composta di atomi, per quanto di particolare rotondità e levigatezza, e quindi dissolubile per la morte al pari del corpo. Anzi l'impossibilità di percepire soggettivamente la morte, su cui Epicuro si fonda per eliminarne il timore, è da lui connessa anche con l'idea dell'immediata dissoluzione dell'anima, resa perciò incapace di percepire. D'altra parte, l'epicureismo stesso, in quanto cerca di spiegarsi come dalla composizione degli atomi psichici derivino quelle facoltà dell'anima che non sono possedute da altre aggregazioni atomiche, torna a una psicologia delle facoltà che per molti aspetti si ricollega, volente o nolente, ai modelli platonico e aristotelico. Così si parla, per es., di un'anima irrazionale, sede delle passioni, e di un'anima razionale, a cui appartengono le funzioni della percezione sensibile, della fantasia (qui detta διάνοια) e del ragionamento.
Più decisa e consapevole è l'eredità platonico-aristotelica nella psicologia stoica (specialmente, com'è naturale, nel periodo eclettico rappresentato dalla "media stoa") e in quella neoplatonica. Torna anzitutto nello stoicismo la concezione dell'anima cosmica, già implicita nel primitivo pampsichismo degli Ionici, specialmente di Anassimene, e particolarmente sviluppata anche da Platone nell'ultima fase della sua psicologia e filosofia, documentata da alcuni luoghi del Fedro e dal Timeo. Lo stoicismo concepisce infatti la forma divina, che immanendo nel cosmo lo costituisce e governa secondo la sua razionale provvidenza, come πνεῦμα (spiritus) vivificante il corpo terrestre, e dà poi lo stesso nome all'anima del singolo individuo, comprendendo cioè l'una e l'altra sotto il medesimo antico concetto del respiro vitale. Ed essendo lo spirito cosmico nello stesso tempo il "fuoco razionale", che al termine di ogni grande anno del mondo dissolve nuovamente in sé, nella "conflagrazione", l'intero universo, è evidente che l'immortalità delle anime singole, rispetto alla mortalità corporea, non si può in ogni caso estendere al di là di quel limite: e anzi, secondo Crisippo, questa stessa limitata immortalità è da considerare come premio morale, raggiungendola soltanto l'anima del saggio. In sé, poi, l'anima si divide in una parte razionale, o "dirigente" (ἡγεμονικόν: a cui peraltro appartiene non solo la conoscenza teoretica ma anche il regno delle tendenze e della volontà), nelle cinque facoltà sensibili, nella capacità del linguaggio e in quella della generazione. Si vede quindi come la psicologia stoica classica componga motivi rispondenti alla concezione etico-razionale dell'anima, propria di Platone, con altri riferentisi piuttosto all'idea aristotelica dell'anima quale principio di vita organica: idea del resto anche altrimenti accolta nell'attribuzione della ψυχή anche agli animali, e invece respinta nella considerazione degli organismi vegetali come di essa privi, e forniti soltanto di una "natura" (ϕύσις, nel senso etimologico riferentesi al mondo della "generazione"). Anche più prossima alla psicologia platonica e aristotelica è poi quella della media stoa: sulle tracce di Panezio, Posidonio riprende la tripartizione platonica dell'anima, ma combinandola con l'idea aristotelica dello sviluppo delle facoltà psichiche sin dallo stadio della semplice vegetazione, e concepisce la salute morale dell'anima in forma platonica, sia come dominio della parte razionale sulle irrazionali sia come liberazione dal carcere corporeo, attuantesi secondo una escatologia di tipo platonico nello stesso quadro stoico del singolo ciclo cosmico.
Ma la sintesi ultima e maggiore della psicologia classica è data dal neoplatonismo. Motivo principale della sua concezione dell'anima è quello della sua funzione mediatrice tra l'ideale e il reale, già teorizzata da Platone. Per questi infatti l'anima, che abitando nel corpo ricorda tuttavia le contemplate idee e tende, col suo eros, a ritornare al regno della loro beata perfezione, è il tipico μεταξύ, "intermediario", che tramezzando tra il mortale e l'immortale trae il primo verso il secondo e garantisce così l'unità dell'universo. Così nel massimo pensatore neoplatonico, Plotino, l'anima, concepita come universale principio cosmico al pari di quella del Timeo e del πνεῦμα stoico, appare come ultima nella gerarchia, discendente verso il mondo della materia, delle tre ipostasi ideali. Dal supremo grado ontologico dell'Uno discende infatti il grado puramente gnoseologico dell'Intelletto e dell'intelligibile, e da questo quello dell'Anima, rappresentante il momento della concreta consapevolezza. Partecipe del divino e dell'ideale, l'anima ne condivide l'assoluta unità, ma, confinante con la materia terrena, si adegua pure alla molteplicità ad essa intrinseca: così è insieme una e molteplice, in sé e dappertutto, potendo essere considerata come duplice a seconda del suo contatto con l'immortale e col mortale, e tale distinzione di gradi potendo ulteriormente moltiplicarsi. Nello stesso modo, poi, in cui l'ipostasi dell'Intelletto è, nella sua unità di "mondo intelligibile", costituita dalla molteplicità degl'intelligibili singoli, cioè delle idee, l'unità dell'Anima cosmica è intrinsecamente composta dal complesso delle anime individuali. E, non separate da essa ma bensì in essa viventi, queste partecipano, del pari, di un'interiore gerarchia di gradi, che appare quale tipica sintesi della tricotomia platonica con la psicologia aristotelica delle anime-facoltà.
Il Medioevo. - Questa enciclopedica sintesi della psicologia classica, operata dal neoplatonismo, si riconnette d'altronde alle concezioni primitive del cristianesimo, la cui evoluzione dogmatica è del resto contemporanea a quella del neoplatonismo, e legata ad essa da reciproci influssi. Il concetto dell'immortalità è già chiaramente affermato da S. Paolo, e resta naturalmente caposaldo di tutta l'escatologia cristiana. Essa può così far proprî i tesori della psicologia escatologica di Platone, nonostante la sua diversa posizione rispetto al problema del rapporto tra l'anima e il corpo: ché se da un lato la "carnalità" corporea è per l'anima principio di errore e di male al pari del "carcere" platonico, dall'altro l'idea della conclusiva "resurrezione della carne", compimento perfetto dell'immortalità psichica, tende ad attenuare l'antitesi dei due principî. E proprio in quest'ultimo senso si svolge la dottrina del pensatore che fra i più antichi rappresentanti della patristica è certo il più vivace teorico di psicologia, Tertulliano. Il quale, per consolidare la fede nella verità della rivelazione che Dio compie nell'anima dell'uomo, insiste sul carattere di veracità delle percezioni dell'anima anche nella conoscenza sensibile, imputando i suoi errori non agli organi di senso ma alle condizioni e agl'impedimenti della materiale realtà esterna, e considerando quindi la carnalità e corporalità non come contrastante ma anzi quasi come coessenziale all'anima, e appunto perciò degnata della sua presenza dalla divinità incarnata.
Più prossima alla sistemazione neoplatonica è invece la concezione dell'anima che la patristica determina in forza della sua elaborazione del dogma trinitario. La terza persona della Trinità lo Πνεῦμα ἅγιον, "Spirito santo", ripete nel nome una delle più classiche designazioni dell'anima, o almeno della sua superiore facoltà intellettuale. S'intende quindi come l'interpretazione neoplatonizzante del dogma cristiano (operata principalmente da Origene, coetaneo e condiscepolo di Plotino, e facilitata già dalla concezione giovannea del Cristo come logos, "ragione" e "sapienza" di Dio) possa concepire la trinità cristiana in forma pressoché analoga alla trinità neoplatonica. D'altra parte, se questa interpretazione del dogma trinitario fa rientrare nella Trinità il principio dell'anima come momento singolo e inferiore, la psicologia di Sant'Agostino riconduce nella stessa anima umana quella trinità nella sua interezza, considerando la psiche come costituita di un principio triadico conformato a immagine e somiglianza di quello intrinseco alla natura divina. Nell'anima è infatti, per Agostino (di cui non è solo l'in te ipsum redi e l'in interiore homine habitat veritas, ma la prima scoperta moderna della certezza soggettiva di sé contro lo scetticismo oggettivistico del mondo antico), la fonte di ogni verità, parlando in essa direttamente la voce di Dio: è naturale quindi che essa stessa debba essere costituita in conformità della natura divina. Infatti l'uomo, riflettendo su sé stesso, sa di esistere e di volere: esso è quindi trinità di essere, sapere e volere, corrispondente perciò alla Trinità divina, che nel Padre è essenza, nel Figlio sapienza e nello Spirito santo volontà amante. Concependola come sintesi di esse, nosse e velle la psicologia agostiniana solleva l'anima quasi al livello di Dio.
Ma i problemi maggiori della psicologia cristiana vengono in luce quando, nella filosofia scolastica, alla tradizione platonico-agostiniana, continuata dal misticismo e dal francescanesimo, si oppone il nuovo aristotelismo della teologia domenicana. La prima tradizione tien fermo naturalmente al motivo platonico dell'immortalità dell'anima in quanto realtà ideale indipendente da quella materiale del corpo: ma, per accogliere anche la verità del principio aristotelico asserente che ogni sostanza esistente dev'essere composta di materia e di forma, finisce con l'attribuire all'anima una materia propria, diversa da quella corporea. D'altra parte, di fronte alla stessa difficoltà si trova la teologia e psicologia domenicana, che, per opera principalmente di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino, compie un gigantesco sforzo per interpretare in senso cristiano le verità dell'aristotelismo. La dottrina tomistica affronta da un lato in pieno l'aristotelismo, in quanto limita la necessità dell'individuazione materiale alle sostanze inferiori, e considera l'anima (nel suo aspetto supremo, di anima intellettiva) come ultima delle sostanze angeliche, perciò capace d'individuarsi per sé stessa senza bisogno di materia esterna. Ma ciò implica la concezione dell'attività intellettuale come intrinseca all'anima: San Tommaso combatte infatti l'interpretazione averroistica della dottrina aristotelica dell'intelletto, secondo la quale l'intelletto attivo sarebbe stato del tutto trascendente ed estraneo all'anima, priva, di conseguenza, anche di quell'elemento di divinità e d'immortalità che avrebbe potuto esserle attribuito in base alla problematica dottrina aristotelica. Se l'anima fosse semplicemente illuminata dalla superiore e universale attività intelligente, sarebbe soltanto oggetto e non mai soggetto d'intellezione, osserva acutamente San Tommaso: è dunque necessario che tale attività le sia intrinseca. Così il problema dell'immortalità è risolto dalla psicologia tomistica in connessione con quello dell'intelletto. D'altra parte, lo spirito dell'aristotelismo si riflette più fedelmente in essa in quanto, pur considerando l'anima come indipendente, in via assoluta, dal corpo, essa ritiene che la sua unione con questo abbia una profonda ragione organica. Infima fra le sostanze angeliche, l'anima non giungerebbe infatti all'intelligibile se non potesse astrarlo dal sensibile, comunicatole dagli organi di senso corporei; e per converso, non potendo sussistere nell'uomo diverse anime, giacché ne risulterebbe distrutta la sua unità personale, è la stessa anima intellettuale che in esso presiede anche alle inferiori funzioni organiche e sensibili, e che dirige l'attività pratica mercé la conoscenza del concetto del bene. Così la psicologia tomistica giustifica il principio organico-evolutivo di quella aristotelica, e ovvia alla sua negazione dell'immortalità con un'opportuna interpretazione della sua dottrina dell'intelletto.
Avversaria di questa interpretazione è invece la psicologia di Sigieri di Brabante, che partendo dall'interpretazione averroistica della dottrina aristotelica ne ricava la rigorosa negazione dell'immortalità dell'anima. Essa è quindi condannata come eretica, e costituisce in realtà il principale motivo critico a cui s'informa più tardi il processo dissolutivo della psicologia medievale. Nel Rinascimento, infatti, la scuola degli "Alessandristi", che, principalmente rappresentata dal Pomponazzi, dà il colpo di grazia alla dottrina aristotelico-tomistica dell'immortalità, obbedisce allo stesso generale motivo, pur seguendo l'interpretazione aristotelica di Alessandro di Afrodisia e opponendosi di conseguenza a quella di Averroè, meno rigorosa nella separazione dell'intelletto attivo dall'anima se anche concorde nella negazione della sua immortalità.
L'età moderna. - La psicologia moderna s'inizia propriamente con Cartesio, e col suo rinnovato metodo d'indagine filosofica della realtà. La ricerca psicologica non si riferisce più all'anima come a tema dato, limitandosi a tentativi di conciliazione dei suoi predicati platonici e aristotelici con le esigenze religiose. Quel che anzitutto importa è l'accertamento stesso dell'esistenza dell'anima, al pari di quella di ogni altra realtà che pretenda a tale riconoscimento da parte del pensiero. Tale accertamento discende, e nel modo più diretto, dalla scoperta cartesiana, valorizzante il grande motivo, a cui già aveva accennato Sant'Agostino, della certezza di sé. Questa è infatti, anzitutto, certezza di sé come sostanza pensante, prima ancora che come sostanza estesa, la quale sicuramente si conosce solo dopo la dimostrazione dell'esistenza di Dio e la conseguente garanzia della veridicità dei sensi esterni. Si è certi di essere anima più immediatamente di quanto si sia certi di esser corpo. In tal modo l'antico nome di anima vien dato alla moderna esperienza, che lo spirito compie in quanto si riconosce consapevole, e costituito da tale consapevolezza. E si può dire che come la psicologia medievale rappresenta il tentativo di sintesi delle esigenze morali della psicologia cristiana con le formulazioni teoriche della psicologia classica, così la psicologia moderna, da Cartesio a Kant, compie, e criticamente esaurisce, il tentativo di concepire il nuovo principio dell'autocoscienza nell'antico aspetto dell'anima, dotata di esistenza oggettiva e sostanziale.
Anzitutto la contrapposizione dell'anima come res cogitans al corpo come res extensa toglie alla prima ogni carattere di corporeità, presentandola come pura funzione pensante. Di qui il problema del suo rapporto col corpo, sia nel senso degl'influssi delle percezioni sensibili (e attraverso queste delle cose esterne) sulla sua conoscenza, sia in quello inverso del potere della sua volontà a determinare i movimenti corporei. Cartesio pensa di trovare nella ghiandola pineale il punto di contatto tra le due sfere del pensiero e dell'estensione, dell'anima e del corpo: più rigorosa, la filosofia occasionalistica (Geulincx, Malebranche) insiste sulla assoluta eterogeneità, e incapacità di azione reciproca, delle due sostanze, la cui concomitanza funzionale è quindi determinata da un accordo superiore, stabilito da Dio. Il fatale determinismo di questa concezione viene in massima luce nella filosofia di Spinoza, per cui l'anima, modo singolo dell'unica e infinita sostanza secondo l'attributo del pensiero, corrisponde del tutto al suo corpo, modo singolo della stessa sostanza secondo l'attributo dell'estensione, non essendone che la concreta consapevolezza (idea corporis). Se da un lato questa psicologia, concependo l'accadere psichico come determinato da una necessità causale del tutto analoga a quella manifestantesi nel mondo dell'estensione, conduce a privare l'anima della sua libertà d'arbitrio, d'altro lato, considerando il mondo della sua cogitatio come praticamente illimitato perché non mai urtante contro l'ostacolo della realtà estesa, contribuisce alla risoluzione dell'intera realtà nell'esperienza pensante dell'anima. S'intende quindi come, per tale via, si possa giungere alla concezione del Leibniz, riducente l'universo al contenuto psichico, consapevole o inconsapevole, delle monadi. Certo, la psicologia leibniziana non coincide con la sua monadologia, essendo il concetto di monade più vasto di quello di anima, che si riferisce piuttosto al complesso monadico, o monade superiore, costitutiva degli organismi razionali: ma le è parallela, l'anima essendo pensata come monade e la monade rappresentando solo una più compiuta risposta alle esigenze implicite nella concezione cartesiana dell'anima come res cogitans.
D'altra parte, questo stesso riconoscimento dell'intrinseca illimitatezza dell'anima in quanto centro di consapevolezza e di conoscenza conduce a poco a poco alla dissoluzione del suo classico carattere di oggettività sostanziale. Tale evoluzione si attua specialmente per opera della gnoseologia empiristica inglese. Il Locke combatte l'innatismo cartesiano, cioè la dottrina dell'esistenza nell'anima di idee innate, determinate da Dio prima di ogni esperienza sensibile, mostrando invece come ogni contenuto psichico derivi da quella esperienza, mercé interiori processi di astrazione ed associazione. E dà così, proseguendo Hobbes e anticipando Hartley, il più vivo impulso alla "psicologia dell'associazione", cioè a quella scienza descrittiva del processo d'elaborazione dei contenuti psichici, la quale (nonostante l'opposizione del Leibniz, intento a salvare l'innatismo sostituendo all'effettiva preesistenza delle idee sostenuta da Cartesio la preesistenza virtuale, onde la consapevolezza della monade è potenzialmente implicita nella sua inconsapevolezza) trova i suoi continuatori nella scuola "ideologica" francese, e costituisce il primo punto di partenza della moderna psicologia empiristica e positivistica. Ma la considerazione del mondo psichico come semplice processo associativo di conoscenze richiama in dubbio la stessa esistenza, e preesistenza, dell'anima come sostanza, la cui idea viene quindi ridotta dal Locke a quella di un oscuro "non so che". E se il Berkeley, che completa l'opera del Locke riducendo a contenuto di percezione ogni oggettiva realtà, sente certo, nella sua fede cristiana, il proprio mondo composto soltanto della divinità e degli spiriti senzienti come società religiosa di Dio e delle anime, quest'ultimo nome non appare quasi mai nella sua terminologia. Più deciso, Hume estende la negazione berkeleyana della sostanza estesa alla sostanza pensante, dimostrata anch'essa semplice "fascio di sensazioni" interiori; e mette in luce come la gnoseologia moderna (in quanto teoria dell'attività pensante) concluda nella negazione di quella stessa psicologia classica (in quanto teoria della sostanzialità dell'anima) con cui essa aveva fatto corpo nel primo periodo del suo sviluppo.
Lo scetticismo humiano, d'altronde, è negazione non soltanto della psicologia ma anche della gnoseologia, almeno in quanto scienza filosofica che possa stabilire leggi assolute oltre a quella della riduzione di ogni realtà a puntuale esperienza soggettiva; e il Kant, che restaura la gnoseologia su nuova base col suo principio del trascendentale o dell'apriori, determina nello stesso tempo chiaramente il passaggio onde dalla stessa crisi della psicologia classica, come dottrina filosofica dell'anima-sostanza, nasce la psicologia moderna, come analisi e classificazione empirica dei fenomeni psichici. Il terreno dogmatico, dal quale prende le mosse la critica del Kant, è costituito in questo caso dalla dottrina wolffiana, che distingue la psychologia empirica dalla psychologia rationalis, definendo la prima come scientia stabiliendi principia per experientiam, unde ratio redditur eorum quae in anima humana fiunt, e la seconda come scientia praedicatorum eorum quae per animam humanam possibilia sunt. Quest'ultima, che propriamente inizia la tradizione della cosiddetta "psicologia delle facoltà", vuol determinare quali siano le funzioni dell'anima. Ma per Kant tale compito è invece assolto dalla critica, in quanto dottrina trascendentale dello spirito, determinante i principî che esso deve presupporre a priori, e in modo universale e necessario, per la possibilità di ogni sua esperienza ed azione. Tali principî non costituiscono un'unità oggettiva, ipostatizzabile nell'antica forma dell'anima-sostanza, appunto in quanto formano, invece, l'estremo presupposto soggettivo di ogni conoscenza. Essi sfuggono per tale ragione alla critica humiana della sostanza pensante, ma nello stesso atto riconoscono la validità di tale critica nei riguardi di quella sostanza, da cui essi si distinguono come il trascendentale dall'empirico, l'a priori dall'a posteriori.
Di qui l'ambiguità della "psicologia razionale", che da un lato vorrebbe teorizzare le facoltà razionali dello spirito e dall'altro continuare a concepire questo nella vecchia forma oggettivistica dell'anima. Kant designa i suoi ideali momenti costitutivi col nome di "paralogismi della psicologia razionale": essi consistono nella traduzione dialettica (e cioè, secondo l'uso kantiano di questo termine, varcante i limiti prescritti all'intelletto) di attributi trascendentali dell'esperienza pensante in qualità oggettive della sostanza psichica. Così, per es., dall'assoluta soggettività di tale esperienza si deduce la sua sostanzialità, essendo appunto la sostanza ciò che è sempre soggetto e mai predicato; dalla sua assoluta unità di coscienza, il suo carattere di sostanza semplice; e via dicendo. In ciascuno di tali paralogismi ciò che il pensiero avverte in sé medesimo come condizione trascendentale della sua attività viene illecitamente considerato come pertinente a una realtà, che di tale attività è invece soltanto l'oggetto. La "psicologia razionale" non ha cioè ragion d'essere, risolvendosi del tutto, quanto al suo iniziale motivo di verità, nella critica trascendentale dello spirito. Diritto di sussistere ha bensì, per Kant, la "psicologia empirica", per quanto non nella forma di un'esatta scienza naturalistica (non essendo ai fenomeni del senso interno applicabile la matematica, giacché il tempo, forma del senso interno, ha una sola estensione), ma in quella di una descrizione e classificazione di quei fenomeni.
In tale critica e distinzione kantiana si può quindi vedere a buon diritto la fine della storia della psicologia quale scienza filosofica dello spirito, e la prima giustificazione della posteriore sua storia di scienza empirica dei fenomeni psichici (vedi sotto). Vero è che pur dopo il Kant si continua talora a parlare di anima e di psicologia anche in senso propriamente filosofico; e, per es., lo stesso Hegel serba a tali concetti un posto nel suo sistema dialettico delle categorie. Ma o si tratta, come in questo caso, di denominazioni riservate per concetti dello spirito che si considerano appunto come inferiori e non definitivi, o di usi saltuarî, di pensatori posteriori cronologicamente e anteriori idealmente alla critica kantiana. Altre volte il termine di psicologia è usato in un senso generale, che comprende in sé tanto quello di gnoseologia quanto quello di psicologia empirica (per es., P. Galluppi, A. Rosmini, V. Cousin, W. Hamilton): e qui si tratta piuttosto di un residuo terminologico che di vere e proprie continuazioni della vecchia psicologia. Considerata nei suoi motivi fondamentali, tutta la filosofia idealistica, che più propriamente continua la tradizione kantiana, insiste sull'eliminazione del problema psicologico, sostituendo il concetto soggettivo dell'io a quello oggettivo dell'anima. Così, per ricordare soltanto le forme più moderne assunte da tale tradizione nel pensiero italiano contemporaneo, la crociana "filosofia dello spirito" dà talvolta a sé stessa anche il nome di "psicologia trascendentale", per dare maggior rilievo al principio onde essa restringe l'intero campo della filosofia alla teorizzazione delle forme spirituali, che lo spirito stesso compie riflettendo su sé medesimo: ma questa "psicologia" è appunto perciò cosa affatto diversa dalla psicologia descrittiva ed empirica. Per essa non serba alcun valore il classico concetto dell'anima, la stessa individualità e personalità umana riducendosi a una formazione storica in continuo sviluppo, che perciò va giudicata storicamente nei suoi atti, e non classificata naturalisticamente nei suoi eventi né metafisicamente riconosciuta nella sua sostanza. E la sua immortalità non si manifesta come prosecuzione infinita del tempo, ma come collaborazione alla storia, a cui le sue opere rimangono acquisite in eterno. Parimenti, nella gnoseologia gentiliana è la più rigorosa negazione del valore filosofico di ogni psicologia, appunto in quanto quest'ultima presuppone l'esistenza oggettiva della realtà psichica, mentre la gnoseologia filosofica fa perno sulla soggettività irriducibile dell'atto pensante. La psicologia indaga il mondo della coscienza, dimenticandosi di quella sua medesima coscienza indagante, che è poi l'unica coscienza reale: la filosofia, richiamandola a tale considerazione, mostra nello stesso tempo il carattere empirico del suo ambito ideale. E se per la psicologia l'immortalità è solo l'infinita durata dell'anima nel tempo, per la filosofia è la stessa superiorità dello spirito al tempo, il quale non sovrasta ad esso ma anzi da esso dipende, come una delle infinite categorie della sua attività pensante.
La psicologia empirica, come scienza eminentemente naturalistica che raggiunge quindi la sua forma più compiuta nella psicologia sperimentale, si sviluppa d'altronde logicamente dal positivismo e dal materialismo che nell'Ottocento continuano le analoghe tendenze dell'ultimo empirismo settecentesco. Già il Cabanis, nella seconda metà del secolo XVIII, considera la psicologia come semplice parte della fisiologia, uscendo nella famosa definizione del pensiero come "secrezione del cervello", e tale definizione, se rende ad altri orecchi il suono più stridente, risponde cionondimeno con piena coerenza al carattere proprio di ogni indagine naturalistica dell'uomo, considerato quale organismo corporeo. Così il più deciso materialista del sec. XIX, il Haeckel, riprende la posizione del Cabanis, facendo rientrare la psicologia nel più vasto quadro della fisiologia. Ma s'intende che, considerata in tal modo, la psicologia finisce per perdere ogni carattere autonomo: e come la filosofia idealistica la elimina dalla sua considerazione dello spirito, così il materialismo, riducendo la sua indagine del mondo psichico ad analisi fisiologica, le toglie ogni essenziale carattere distintivo nei confronti di ogni altra analisi di tal genere.
La psicologia empirica raggiunge di conseguenza una posizione autonoma solo quando riesce a conservare il suo peculiare contenuto psicologico, pur procedendo con lo stesso metodo naturalistico della fisica e della fisiologia. La prima e più tipica forma, in cui la psicologia attinge una simile posizione, è quella della psicofisica, fondata da G. T. Fechner (v.). Qui il problema è quello del parallelismo tra i fenomeni psichici e i fenomeni fisiologici che loro corrispondono nell'organismo senziente. Tanto gli uni quanto gli altri sono osservati e studiati empiricamente; ma mentre non sarebbe possibile valutare quantitativamente, e quindi matematizzare, i primi per sé considerati, tale valutazione diventa possibile in funzione dei fenomeni fisiologici, appartenenti al calcolabile mondo dell'estensione, con cui essi vengono messi in rapporto. La psicofisica viene quindi a rispondere a quell'ideale della psicometria, o scienza matematica del mondo psichico, che già aveva cominciato a vagheggiare il Wolff. Naturalmente, in quanto scienza di fenomeni, presupponente non un'astratta e immota realtà ma l'incessante flusso della vita psichica, questa psicologia non ha più alcun bisogno di valersi dell'antico concetto dell'anima; e si è potuto così designarla come una "psicologia senz'anima". Ma che essa sia, d'altronde, l'unica ammissibile forma di sopravvivenza dell'antica psicologia oggettivistica è dimostrato tipicamente dal fatto che possano condividerne e coltivarne le dottrine studiosi che nello stesso tempo tengono fede, per la loro convinzione cattolica, all'ortodossa concezione tomistica dell'anima forma sostanziale.
Bibl.: Trattazioni generali di storia della psicologia: F. A. Carus, Geschichte der Psychologie, Lipsia 1808; A. Stöckl, Die spekulative Lehre vom Menschen und ihre Geschichte, voll. 2, Würzburg 1858-59, continuati dalla Geschichte der Philosophie des Mittelalters, Magonza 1864-65; F. Harms, Die Philosophie in ihrer Geschichte, I: Psychologie, Berlino 1877; H. Siebeck, Geschichte der Psychologie, I (età prearistotelica), Gotha 1880; II (da Aristotele a Tommaso d'Aquino), ivi 1884; M. Dessoir, Abriss einer Geschichte der Psychologie, Heidelberg 1911: O. Klemm, Geschichte der Psychologie, Lipsia-Berlino 1911.
Sulla storia della psicologia antica: A. E. Chaignet, Histoire de la psychologie des Grecs, voll. 5, Parigi 1887-92; E. Rohde, Psyche, Seelenkult und Unsterblichkeitsglaube der Griechen, 9ª-10ª ed., Tubinga 1925 (1ª ed. 1893; trad. ital. di E. Codignola, voll. 2, Bari 1914-16); H. Volger, Die Lehre von den Seelenteilen in der antiken Philosophie, voll. 2, Plön 1892-93; H. Ringeltaube, Quaestiones ad vet. philos. de affectibus doctrinam pertinentes, Gottinga 1913.
Sulla storia della psicologia moderna: L. Ferri, La psychologie de l'association depuis Hobbes jusqu'à nos jours, Parigi 1883; R. Sommer, Grundzüge einer Geschichte der deutschen Psychologie und Ästhetik von Wolff-Baumgarten bis Kant-Schiller, Würzburg 1892; M. Dessoir, Geschichte der neuren deutschen Psychologie, voll. 2, Berlino 1894-1902; R. Adamson, The History of Psychology, Empirical and Rational, Londra 1909; J. M. Baldwin, History of Psychology, voll. 2, Londra 1913.
Sulla psicologia contemporanea: J. Soury, Les doctrines psychologiques contemporaines, Parigi 1883; E. von Hartmann, Die moderne Psychologie, Lipsia 1901; J. D. Mercier, Les origines de la psychologie contemporaine, Lovanio 1897, 2ª ed., Parigi 1909; G. Villa, La psicologia contemporanea, Torino 1911.
Psicologia sperimentale.
Il problema della possibilità d'una psicologia sperimentale fu per la prima volta posto chiaramente da Kant nella sua opera Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft. Secondo Kant, la psicologia non può essere, come la fisica, una vera e propria scienza fondata su principî apodittici, perché ai fenomeni dell'esperienza interna e alle loro leggi non è applicabile la matematica. Infatti, anche quando si volesse estendere la legge di continuità al decorso dei fatti psichici, la costruzione matematica, che in tal modo si potrebbe ottenere, starebbe a tutto l'insieme di costruzioni, che si ha nelle altre scienze, come il sistema delle proprietà della linea retta a tutta la geometria. In altri termini, i fenomeni psichici non sono estesi nello spazio, perciò la pura intuizione interna, in cui possono essere costruiti, è il tempo che ha una sola dimensione. D'altra parte, la psicologia non può essere neppure una scienza impropria di pure leggi empiriche, perché il complesso di fatti psichici, che ci è dato dall'osservazione interna, può solo idealmente dividersi in parti, ma in realtà non può conservarsi così diviso e poi essere ricomposto a nostra volontà. Inoltre, dovendoci limitare all'osservazione interna della nostra propria coscienza, perché il fatto psichico, come tale, è incomunicabile, nell'atto stesso della introspezione lo deformiamo. Non ci può essere, dunque, che una storia naturale dei fenomeni dell'esperienza interna, una descrizione dell'anima sistematica quanto è possibile che lo sia una storia naturale, non una vera e propria psicologia sperimentale. Circa venti anni dopo la critica kantiana, cioè nel 1806, Herbart pubblicava i suoi Hauptunkte der Metaphysik, dove delineava i primi elementi della statica dello spirito, espressa in formule matematiche. La psicologia matematica, dice il Herbart, sembra a molti un'utopia, perché si è abituati ad applicare il calcolo solo agli oggetti che sono estesi nello spazio o possono spazialmente rappresentarsi. Si parte inoltre dal presupposto che si possa calcolare, solo quando si sia misurato. Gli scienziati, invece, pongono ipoteticamente una legge di relazione di grandezze, applicano ad essa il calcolo, e ne deducono certe conseguenze, prima di verificarle con le misure. Il privilegio della scienza matematica sta appunto nel poter calcolare prima di sperimentare, in altri termini nell'anticipare l'esperienza. Ma, si poteva opporre a Herbart, si misuri prima o poi, bisogna sempre, perché le formule abbiano significato e valore, che i fenomeni, a cui si vuole applicarle, siano grandezze suscettibili di misura. I fatti psichici, invece, si distinguono per qualità, non per quantità. Ciò non è vero, risponde Herbart: vi è, infatti, un infinito numero di determinazioni quantitative dello spirito: le nostre rappresentazioni sono più intense o più deboli, più chiare o più oscure; il loro decorso è ora più rapido, ora più lento; la quantità dei fatti psichici presenti alla coscienza in tempi diversi è ora più grande, ora più piccola; la nostra sensibilità per le sensazioni, per i sentimenti e per gli affetti oscilla di continuo tra un più e un meno. Il Herbart si crede perciò autorizzato a costruire una meccanica dei fenomeni psichici, stabilendo a priori certi rapporti fra le loro grandezze. Ma la costruzione del Herbart, fondata interamente su concetti metafisici e su ragionamenti a priori, è ben lontana da quella psicologia sperimentale che Kant aveva in mira nella sua critica e che gli psicologi cercarono di realizzare nella seconda metà del sec. XIX. I primi esperimenti psicofisici ebbero origine dall'esigenza di determinare quali errori nelle misure fisiche derivassero dal funzionamento della nostra sensibilità. Per quanto, infatti, i fisici possano servirsi di strumenti di precisione e di apparecchi di registrazione oggettiva, è sempre l'occhio che deve leggere in essi; è perciò necessario misurare i limiti della sua sensibilità e le variazioni di essi in condizioni diverse. Da ciò alcuni fisici, come il Bouguer fin dal sec. XVII e il Masson nel 1845, furono indotti a una serie di ricerche, che, proseguite poi sistematicamente ed estese dal Weber, condussero a formulare la legge che dal Weber appunto ha preso il nome e che si può così esprimere: quando si fa agire uno stesso stimolo con diversa intensità sopra un organo di senso, la differenza d'intensità, perché sia percepita, bisogna che raggiunga un certo valore; questo in un dato individuo e in un dato organo di senso è proporzionale all'intensità dello stimolo da cui si parte. Fondandosi su questa legge il Fechner nei suoi Elemente der psychophysik (1859), credette di poter misurare le intensità delle sensazioni per mezzo del rapporto funzionale costante che le collega alle intensità degli stimoli relativi (la sensazione varia come il logaritmo dello stimolo). Anche la psicocronometria, cioè la misura dalle durata dei processi psichici, come la psicofisica, ha avuto origine dalle ricerche intorno ad alcuni errori di osservazione. Nel 1795 Maskelyne, astronomo all'osservatorio di Greenwich, notò che il suo assistente segnava il passaggio degli astri al meridiano col ritardo di circa 0″,8, e credendo che ciò dipendesse da una sua distrazione, lo licenziò; nel 1820 Bessel comparò sistematicamente le sue osservazioni con quelle d'un altro astronomo e trovò nella registrazione del passaggio d'una stessa stella la differenza di mezzo secondo. Si cominciò allora a capire che questo fatto doveva dipendere dalle diverse condizioni soggettive degli osservatori, cioè da quella che fu poi chiamata equazione personale: dal momento in cui la stella passa al meridiano al momento in cui è registrata corre sempre un intervallo di tempo, variabile secondo gli osservatori e che è impiegato a percepire lo stimolo e a rispondere ad esso con un movimento adatto. La determinazione di questo intervallo, che dapprima interessò soltanto gli astronomi, donde gli esperimenti del Prazmowski, fatti con un punto luminoso (1854) e del Hirch che cercò il tempo necessario a reagire con una mano a diversi stimoli sensoriali (1862), verso il 1861 divenne oggetto di ricerche fisiologiche e psicologiche col Donders, e poi col Helmholtz, col Mach, col Baxt, con l'Exner ed altri. I fisiologi vi trovarono una smentita al famoso postulato del Müller, secondo il quale è infinitamente piccolo e incommensurabile il tempo richiesto, perché un'impressione di senso dia luogo a un movimento muscolare; gli psicologi ne trassero un metodo per misurare la durata di alcuni fenomeni psichici. Intercalando, infatti, tra l'impressione sensoriale e il movimento di risposta un processo mentale, si poteva determinarne la durata col sottrarre da tutto il tempo della reazione, che poi fu detta complessa, il tempo di reazione semplice. Al sorgere della psicologia come scienza sperimentale contribuirono i progressi realizzati nel campo delle scienze biologiche verso la metà del sec. XIX. Lo studio degli organi di senso conduceva naturalmente i fisiologi ad analizzare le percezioni visive, uditive, tattili, muscolari e quindi anche le percezioni dello spazio e del tempo: basti qui ricordare i nomi di Helmholtz, Hering, Mach. Lo sviluppo della patologia mentale era pure fecondo di nuove ricerche psicologiche ed apriva campi fino ad allora inesplorati all'indagine sperimentale: lo studio delle amnesie parziali e progressive in rapporto a certe lesioni o degenerazioni della corteccia cerebrale portava a nuove analisi della funzione psicologica del linguaggio e del complesso meccanismo della memoria (Broca, Bastian, Wernicke, Kussmaul). L'osservazione dei fenomeni di alterazione della personalità e i relativi esperimenti col metodo della suggestione allargavano l'orizzonte della psicologia verso gli oscuri margini della subcoscienza e della sensibilità organica interna (Charcot, Binet, Féré, Richet, Pierre Janet). La teoria dell'evoluzione induceva alle ricerche di psicologia degli animali (Darwin, Spencer, Romanes, Morgan) e dei popoli (Lazarus, Steinthal, Tylor, Lubbock, Durkheim); e rivolgeva l'attenzione degli psicologi a spiegare la genesi degl'istinti e delle espressioni emotive, che erano registrate oggettivamente con precisi apparecchi. Tutto questo movimento di ricerche ebbe fra il 1870 e il 1880 un vigoroso impulso da Guglielmo Wundt, che, nominato professore di filosofia a Lipsia nel 1875, vi fondò nel 1879 il primo laboratorio di psicologia sperimentale, che ebbe più tardi nel 1886 il suo riconoscimento ufficiale da quella università. Nello sviluppo della psicologia sperimentale si distinguono due periodi.
Nel primo l'analisi introspettiva è messa completamente da parte perché si ritiene con Kant e con Comte che essa non possa servir di fondamento a una scienza esatta. Si mira solo alla determinazione quantitativa; tanto più che il naturalismo allora dominante crede di poter così far rientrare anche i fenomeni psichici nel dinamismo delle energie fisiche, di cui l'attività della coscienza sarebbe una delle tante forme, o almeno un fenomeno concomitante, secondo l'ipotesi allora molto diffusa tra i fisiologi, del parallelismo psicofisico. Come una prova di questo interpretava, per es., il Donders nel 1868 la misura della durata dei fenomeni psichici: e ancora nel 1883 il Buccola nel suo libro La legge del tempo nei fenomeni del pensiero andava più in là, vedendo in questa legge addirittura la dimostrazione che l'attività mentale fosse un modo particolare delle energie che circolano nel seno della natura. La speranza di trovare formule precise spinse i primi sperimentatori ad ammucchiare numeri sopra numeri, misure sopra misure, senza rendersi conto di ciò che si misurava. Si pretendeva, per es., di determinare la durata di certi processi mentali, non curandosi affatto di osservare se quei processi si svolgevano realmente in quella maniera, se il fenomeno, di cui si voleva misurare il tempo, c'era o no nella coscienza del soggetto. Questo funzionava come una macchinetta montata, e certe volte comunicava con lo sperimentatore solo per mezzo di segnali elettrici; l'analisi del fenomeno psichico era fatta a priori deducendola dalle proprie teorie psicologiche e si ammetteva senz'altro che il processo psichico in qualunque soggetto dovesse svolgersi in quella maniera determinata, come se la coscienza fosse un meccanismo automatico che rispondesse sempre egualmente agli stimoli esterni. Ma a poco a poco la psicologia sperimentale si è liberata da questo dogmatismo naturalistico: si è compreso che i fenomeni psichici hanno caratteri proprî per cui non sono riducibili a fatti fisici; che i numeri sono privi di significato se non si traducono nei processi psichici che solo l'osservazione interna ci può rivelare. Si è passati così al secondo periodo veramente fecondo della nuova scienza in cui l'esperimento e la misura servono soltanto a rendere precisa l'introspezione e non pretendono più come prima di farne a meno. Appartengono al primo periodo gli esperimenti fatti con metodi diversi per la verificazione e una più precisa formulazione della legge di Weber e Fechner. Fra i metodi usati ricordiamo: il metodo delle variazioni minime, adoperato già dal Weber nelle sue prime ricerche e perfezionato dal Wundt, che consiste nel diminuire a poco a poco uno stimolo finché esso non è più percepito, o nell'aumentarlo fino a che comincia appena ad essere percepito (soglia della sensazione); oppure nel diminuire gradatamente la differenza di due stimoli finché non si avverte più, o nell'aumentarla fino a che è appena distinta (soglia della differenza); il metodo delle gradazioni medie, usato la prima volta dal Plateau, che consiste nel far determinare al soggetto un'intensità di sensazione media fra due altre: il metodo dei casi veri e falsi, adoperato la prima volta dal Wierordt e perfezionato dal Merkel, nel quale si sottopone al giudizio del soggetto una differenza di stimoli di poco superiore alla soglia e si contano i casi in cui giudica esattamente e gli altri in cui sbaglia: il metodo degli errori medî, usato la prima volta dal Fechner e dal Wolkmann e perfezionato dal Wundt, che consiste nel determinare l'errore medio che si avrebbe nel giudizio della differenza di due intensità, quando agissero soltanto i fattori psicologici e fisiologici, contemplati dalla legge di Weber. Ciò si può ottenere compensando gli altri errori con un rigoroso procedimento sperimentale e col calcolo delle probabilità, opportunamente applicato. Al primo periodo di ricerche quantitative della psicologia sperimentale appartengono anche i numerosi esperimenti fatti col metodo delle reazioni. Si comincia col misurare il tempo di reazione semplice, cioè quello che è impiegato da un dato soggetto a rispondere con un movimento stabilito in precedenza a uno stimolo anch'esso prima stabilito: è la risposta meccanica a una sensazione. Intercalando poi alcuni fenomeni psichici nel processo di reazione semplice si hanno le reazioni complesse. Il Donders e il Wundt si servirono di questo metodo per determinare il tempo di ricognizione, di distinzione, di scelta, di associazione, di giudizio. Per includere la ricognizione nel tempo di reazione semplice, si lasciava indeterminata la qualità, l'intensità o qualche altra proprietà dello stimolo e si diceva al soggetto di reagire solo quando lo aveva riconosciuto. Per misurare il tempo di distinzione si presentava al soggetto un dato numero d'impressioni e gli si diceva di reagire, quando si produceva una di esse, dopo averla distinta dalle altre. Per aggiungere il tempo di scelta, si diceva al soggetto di rispondere con un movimento diverso secondo lo stimolo, per es., con la mano destra al color rosso, con la sinistra al verde: si supponeva così che egli dovesse scegliere il movimento collegato dello sperimentatore alla sensazione che si produceva. Negli esperimenti sul tempo di associazione il soggetto doveva reagire dopo che l'impressione percepita aveva richiamato alla mente un'altra immagine. Per ottenere il tempo di giudizio, si chiedeva al soggetto di compiere nella mente un certo processo logico più o meno complicato, prima di reagire. È facile osservare quanto semplicismo vi fosse in questi primi esperimenti sui tempi di reazione, in cui si partiva da un certo schema teorico intorno allo svolgersi degli atti mentali, che si sarebbero aggiunti l'un dopo l'altro nel tempo. Alla viva analisi psicologica si sostituiva un'analisi logica preconcetta. Così il Wundt decomponeva i tempi di reazione fondandosi sulla sua teoria dell'appercezione. Nel tempo di reazione semplice egli, per es., distingueva: 1. il tempo di percezione o di entrata dell'impressione nel campo visivo della coscienza; 2. il tempo d'appercezione o di entrata nel punto di mira dell'attenzione; 3. il tempo di volontà o di eccitazione dell'impulso motore nell'organo nervoso centrale; oltre naturalmente i tempi necessarî per la stimolazione dell'organo di senso, la trasmissione nervosa centripeta e centrifuga, il funzionamento dei muscoli. Il primo impulso a un'analisi più scientifica del processo di reazione semplice fu dato dal Lange, il quale notò una notevole differenza di tempo secondo che l'attenzione del soggetto era rivolta allo stimolo o al movimento e distinse il tipo di reazione sensoriale da quello muscolare. Si cominciò così a capire che l'anima umana non è un meccanismo automatico che risponda sempre egualmente alle stesse impressioni, e che le interne condizioni psicologiche dovevano perciò divenire oggetto d'un esame accurato, se non si volevano arbitrariamente interpretare le differenze numeriche. Lo sviluppo posteriore della psicologia ha messo in rilievo una grande varietà qualitativa nei tipi di reazione, soprattutto in quelle complesse; e giustamente il Binet lanciava verso il 1894 il grido d'allarme contro l'automatismo dei soggetti negli esperimenti sui tempi di reazione, proclamando la necessità dell'analisi introspettiva per la interpretazione dei dati numerici. Alla prima fase della psicologia sperimentale, cioè al periodo degli entusiasmi quantitativi, si ricollegano anche le misure dinamogeniche dell'energia mentale, che apparvero in sul principio una prova della concezione naturalistica, permettendo di far rientrare anche il lavorio psichico nella legge generale della conservazione dell'energia. Il Wundt, già fin dal 1874 nei suoi Grundzüge der physiologischen Psychologie aveva accennato alla possibilità di misurare i fenomeni psichici per mezzo dei loro effetti, cioè dei movimenti che eseguiamo, con un procedimento inverso dei metodi psicofisici, soggiungendo poi che questa via non s'era ancora seguita per le difficoltà pratiche a cui si andava incontro. Il Loeb per il primo tentò un'applicazione del metodo dinamogenico, cercando nel lavoro muscolare una misura indiretta dell'energia psichica. Se si determina con un dinamometro il massimo sforzo muscolare di cui un individuo è capace, e si misura poi il massimo di pressione esercitata durante un lavoro intellettuale non interrotto, si osserva che in quest'ultimo caso la pressione è minore: secondo il Loeb la differenza si poteva senz'altro prendere come misura dell'energia spesa nel lavoro mentale. Ciò che si guadagna in attività psichica si perde in energia muscolare, sicché tra le due forme di lavoro esiste una relazione analoga al principio della conservazione dell'energia. Anche Ch. Féré nel suo libro Sensation et mouvement (1887) sostenne che in circostanze appropriate il dinamometro può essere applicato alla misura della sensazione, perché la forza muscolare dipende dall'intensità e qualità del fatto psichico e le funzioni psico-fisiologiche, come le energie fisiche, si riducono a un lavoro meccanico. Ma colui che più ampiamente applicò il metodo dinamogenico, consacrandovi quasi tutto il suo volume Die physischen Äquivalente der Bewusstseinserscheinungen (1901) fu uno psicologo danese, il Lehmann. Egli sperimentò facendo eseguire calcoli o lavori di memoria a un soggetto, mentre nello stesso tempo questi esercitava sull'ergografo il massimo sforzo muscolare. Secondo i risultati delle sue ricerche, il lavoro psichico produce una diminuzione del lavoro fisico contemporaneo; e il rapporto del valore assoluto di questa diminuzione alla quantità di lavoro fisico che si sarebbe compiuto senza il lavoro psichico è una grandezza costante indipendente dalla stanchezza del muscolo; sicché questo rapporto (relativa diminuzione del lavoro) si può prendere come misura per la grandezza del lavoro psichico. Vi è a fondamento del metodo dinamogenico di misura dell'energia mentale un postulato materialistico di equivalenza dell'attività psichica alle energie fisiche, che esce dai confini della scienza empirica. Onde esso non ha avuto in seguito altre notevoli applicazioni; e s'è cercato di misurare più direttamente il lavoro mentale, mantenendosi sul puro terreno psicologico. Spetta all'Ebbinghaus il merito di avere iniziato quest'ordine di ricerche nel suo studio sulla memoria, Über das Gedächtnis del 1885. Egli fece esperimenti con serie di sillabe prive di senso composte di due consonanti e una vocale in mezzo per isolare la pura memoria meccanica e trovò che c'è per ogni individuo un determinato numero di sillabe che si può ripetere dopo una sola lettura (memoria immediata) e che per i successivi accrescimenti di sillabe il numero delle ripetizioni necessarie non cresce proporzionalmente, ma press'a poco secondo una legge logaritmica; cioè mentre gli aumenti delle sillabe crescono in serie aritmetica il numero delle letture necessarie cresce in serie geometrica. In quanto al dissolversi della memoria nel tempo, la solidità del ricordo, misurata dalla maggiore disposizione che si ha a imparare di nuovo dopo 24 ore una serie di sillabe prive di senso già imparate la prima volta, cioè per mezzo del valore reciproco del numero di ripetizioni che si debbono aggiungere per reintegrare la memoria, è dentro certi limiti approssimativamente proporzionale al numero delle ripetizioni primitive. Mantenendo costante il numero delle sillabe e variando il tempo dopo il quale si fa la reintegrazione del ricordo, il numero delle letture a ciò necessario può servire a misurare la quantità di memoria perduta, e si può osservare che mentre il tempo decorso dal momento in cui si apprese cresce in progressione geometrica, la quantità di ricordo perduta aumenta press'a poco in progressione aritmetica. Altri sperimentatori applicarono poi allo studio della memoria e della forza di associazione il metodo dei casi veri e falsi, misurando questa forza col valore reciproco della quantità degli errori commessi nell'associare alle varie sillabe le seguenti. E il numero degli errori in calcoli uniformi, per es., o in percezioni, o in giudizî semplici dello stesso genere, servì in altri esperimenti a misurare l'attenzione, la sua estensione, le sue oscillazioni, la stanchezza mentale, gli effetti dell'esercizio, ecc. Ma a questo periodo di ricerche puramente quantitative, dopo il 1890 succedette una nuova fase della psicologia sperimentale in cui l'osservazione interna fu rimessa in onore come necessaria integrazione delle misure, e l'analisi qualitativa, scientificamente condotta, si dimostrò non meno pregevole della determinazione quantitativa. Questo cambiamento d'indirizzo nelle ricerche si deve specialmente al Binet e al Külpe, che fra il 1890 e il 1893 si trovarono insieme nel laboratorio di Lipsia e riconobbero troppo sommaria la condanna che il loro comune maestro, il Wundt, aveva fatto dell'introspezione, giudicandola simile alla pretesa del barone di Münchhausen di saltare sulla propria testa. Si sono così iniziati i nuovi esperimenti col metodo dell'introspezione provocata, specialmente a Würzburg sotto la direzione del Külpe. Il metodo consiste nell'invitare il soggetto in condizioni adatte a fare giudizî, atti di scelta, o a svolgere un'altra attività mentale qualsiasi su determinati oggetti che gli si presentano (parole, suoni, colori, o altri stimoli che si soglion chiamare induttori). Nell'eseguire il compito che gli è assegnato, il soggetto osserva ciò che accade nella sua coscienza e ne riferisce poi allo sperimentatore, che cerca di precisare talvolta anche l'analisi con domande opportune. Non sono escluse le misure degli errori di giudizio, delle durate dei processi, ma queste non costituiscono il fine principale delle ricerche, dirette piuttosto all'analisi qualitativa dei processi mentali. Con questo metodo è stato messo in rilievo il fenomeno del pensiero senza immagini, cioè il fatto che si possono far giudizî o ragionamenti o avere nella mente concetti determinati senza che vi siano nella coscienza immagini o altri schemi verbali (Binet, Külpe, Bühler, Bovet). E sono state scoperte tendenze, attitudini, intenzioni, che dirigono il corso delle rappresentazioni e che non sono riducibili ai legami di contiguità e di rassomiglianza, di cui parlava la vecchia scuola empiristica con la sua teoria dell'associazione meccanica delle idee. Interessanti applicazioni del metodo dell'introspezione provocata ha fatto l'Ach allo studio della volontà, creando prima nei soggetti abitudini associative con serie di sillabe prive di senso e invitandoli poi a esercitare la forza della loro volontà a vincere la resistenza di quelle abitudini associando le sillabe in modo diverso. Non sempre il soggetto riusciva a vincere l'abitudine: la forza della sua volontà era misurata dall'Ach col numero delle ripetizioni della serie di sillabe che costituiva un'abitudine capace d'impedire in quel soggetto la libera creazione di nuovi legami associativi o l'inversione dell'ordine delle sillabe. Il tempo di associazione naturalmente era maggiore nel caso in cui il soggetto doveva vincere la resistenza dell'abitudine; ed esso era considerato pure dall'Ach come indice della forza della volontà. Ma queste determinazioni quantitative non erano l'oggetto principale degli esperimenti dello Ach, che miravano piuttosto all'analisi qualitativa dei processi volontarî e davano perciò maggiore importanza all'esame introspettivo dei soggetti. Altre ricerche sulla volontà sono state fatte da Michotte e Prüm, che lasciavano ai soggetti la libera scelta fra due operazioni aritmetiche o fra diverse sensazioni gustative e analizzavano i processi psichici con cui si compiva quella scelta. Il metodo dell'introspezione provocata urta contro certi limiti che vengono dalle difficoltà dell'osservazione interna: la fuggevolezza di certi atti mentali; l'impossibilità di cogliere alcuni processi che cadono nella zona oscura della vita psichica e non possono perciò essere oggetto di riflessione; l'impossibilità d'isolare dai processi complessivi i singoli fatti ed elementi, che vi sono insieme fusi. Un aiuto prezioso per esplorare il fondo subcosciente della vita psichica è venuto alla psicologia sperimentale dalla patologia e dai metodi fecondissimi da essa derivati della suggestione (v. ipnotismo; suggestione) e della psicoanalisi (v.). Il Benussi nel laboratorio di psicologia di Padova applicò con successo il metodo della suggestione allo stato di veglia, ottenendo l'elisione di certi fenomeni psichici nella coscienza del soggetto o provocando l'apparizione di percezioni, di stati emotivi, ecc. Egli poté così sperimentalmente dimostrare l'indipendenza delle emozioni e dei sentimenti, anche di quelli cosiddetti intellettuali, per es., il dubbio o l'evidenza, da qualsiasi rappresentazione o concetto; è possibile, infatti, produrre direttamente per azione suggestiva quei fenomeni sentimentali senza passare attraverso alcuna idea a cui quell'emozione sia connessa. Egli riuscì anche a realizzare una diminuzione di quella fuggevolezza che è propria delle situazioni psichiche rendendo così più agevole l'introspezione; a rendere più costanti le condizioni soggettive di una data esperienza, immobilizzando, per es., l'attenzione; a isolare parti di una funzione psichica dalle altre; a rallentare alcuni processi in modo da rendere accessibili all'introspezione fasi di transizione e fasi di sviluppo di un dato fatto psichico che altrimenti vi si sottrarrebbero; a intensificare certi processi mettendo in rilievo alcuni loro aspetti che sfuggono comunemente. Egli ottenne, per es., che un soggetto, del tutto incapace di riprodurre scorrevolmente a memoria una serie numerica in senso inverso di quello in cui l'aveva appresa, la ripetesse invece sotto l'azione suggestiva con la massima velocità e senza esitazione. Mise così in evidenza che i legami associativi si stabiliscono anche in senso inverso dell'ordine in cui le rappresentazioni si succedono. In conclusione lo sviluppo della psicologia sperimentale ha condotto a considerare i metodi oggettivi di controllo e di misura e in genere tutti i mezzi esteriori di determinazione sperimentale solo come strumenti di analisi interiore e di disciplina scientifica dell'introspezione che non può essere eliminata, se si vuol fare veramente psicologia e non fisiologia del cervello. Anche in Italia, dalla prima fase di dominante naturalismo nei metodi e nell'interpretazione delle ricerche (Sergi, Buccola, Lombroso) si è passati a un periodo, in cui, messo da parte il dogmatismo materialistico, si è dato il suo giusto valore all'analisi introspettiva. A questa evoluzione dei metodi psicologici ha validamente contribuito il De Sarlo nel laboratorio di psicologia da lui fondato a Firenze nel 1904.
Bibl.: G. Th. Fechner, Elemente der Psychophysik, 2ª ed., voll. 2, Lipsia 1889; W. Wundt, Grundzüge der physiologischen Psychologie, 6ª ed., voll. 3, ivi 1915; Th. Ribot, La Psychologie anglaise contemporaine, Parigi 1870; La Psychologie allemande contemporaine, ivi 1879; A. Binet, Introduction à la Psychologie experimentale, ivi 1894; W. James, Principles of Psychology, voll. 2, Londra 1890-1892; E. W. Scripture, The new Psychology, Londra 1897; M. Foucault, La Psychophysique, Parigi 1901; H. Ebbinghaus, Grundzüge der Psychologie, 3ª ed., Lipsia 1913: E. B. Titchener, Experimental Psychology, New York 1901-1905; É. Toulouse e H. Piéron, Technique de Psychologie expérimentale, voll. 2, 2ª ed., Parigi 1911; G. Ladd e R. S. Woodworth, Elements of Physiological Psychology, Londra 1911; G. Dumas, Traité de Psychologie, voll. 2, Parigi 1923-1924 (con 24 collaboratori); F. De Sarlo, I dati dell'esperienza psichica, Firenze, pubbl. del R. Istit. di studi superiori, 1903; Psicologia e filosofia, ivi 1918; G. Villa, La psicologia contemporanea, 2ª ed., Torino 1911: A. Aliotta, La misura in psicologia sperimentale, Firenze 1905; A. Gemelli, Nuovi orizzonti della psicologia sperimentale, 2ª ed., Milano.
Psicologia etnica.
Gli esordî di questa disciplina, spesso confusa con la psicologia collettiva, sociale e comparata, non vanno oltre la metà del sec. XIX, allorquando l'etnologia attratta nell'orbita delle scienze filosofiche, si distacca dall'antropologia, per orientarsi con A. Bastian verso la ricerca dell'idea etnica (ted. Völkergedanke) e degli elementi irriducibili delle diverse civiltà (ted. Elementargedanken), attraverso l'esame dei costumi, delle religioni, del diritto e delle altre istituzioni dei popoli. Secondo il Bastian, mentre il pensiero dell'individuo è sterile, quello dell'uomo sociale è fecondo e irraggia i suoi riflessi mediante i miti, le leggende, le lingue, gli usi, su tutto l'orizzonte etnico; e però l'etnologia altro non è che "la psicologia dell'idea dei popoli".
Nella letteratura di quel periodo e del tempo successivo, la psicologia etnica comparisce con due tendenze. Da una parte essa è concepita come l'indagine delle caratteristiche morali e intellettuali dei differenti popoli, quasi una caratteriologia per lo studio dello spirito della politica, della letteratura, dell'arte; dall'altra come l'indagine degli elementi che la lingua, la religione ed altri fatti offrono, in quanto sono il prodotto della vita consociata, popolare o etnica. La prima tendenza, che ebbe il maggiore assertore nella Germania, in K. Hillebrandt, si svolge, poi, con gli antroposociologi (G. de Lapouge, G. Le Bon, Dolins, A. Keane, ecc.), i quali attendono a determinare o ricostruire il tipo mentale e i tipi psicologici delle razze (il tipo anglosassone è individualista, il tipo latino è proclive al gregarismo, ecc.). La seconda tendenza si annunzia con M. Lazarus, il quale nel 1855, pubblica sotto il titolo: Das Leben der Seele, una serie di monografie nelle quali erano studiate sotto l'aspetto psicologico, varie questioni concernenti l'arte, il linguaggio, il costume, nonché alcune forme del vivere sociale e riceve, poi, un grande impulso quando il Lazarus, filosofo e discepolo di J. Herbart, si unisce con H. Steinthal, glottologo, e insieme pubblicano la Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft, che apparve dal 1860 in poi, in venti volumi. Nel primo numero di questo periodico i due redattori dichiarano di dirigersi a quanti studiano le manifestazioni storiche delle lingue, delle religioni, dei costumi, del diritto, dell'organizzazione sociale, domestica, civile; in breve a quanti nello studio della vita storica dei popoli sotto uno dei rapporti multipli, cercano di spiegare i fatti osservati nella natura intima dello spirito umano, cioè a dire, riconducendoli a motivi psicologici.
Quando questo nuovo indirizzo si consolida con orientamento e metodo proprî, la psicologia etnica precisa il suo compito e attende con W. Wundt all'analisi di quei fenomeni che derivano dai reciproci rapporti spirituali di una pluralità di singoli, che non possono essere spiegati con le proprietà della coscienza dell'individuo, in quanto presuppongono l'azione di più coscienze; che hanno un valore universale e sono regolati, nella loro origine e nel loro svolgimento, da leggi naturali. Tali fenomeni sono in primo luogo, la lingua, i miti, i costumi, i quali abbracciano generazioni e generazioni di data immemorabile. In questo consiste la ragione della nuova disciplina, che è per il Wundt una parte importante dell'etnologia, e che ha per obietto i fatti e gli atti che formano la base dell'evoluzione generale delle società umane e sono il fondamento dei risultati intellettuali comuni e d'un valore universale.
Molte le obiezioni che si sono mosse a questo sistema, il quale attende a ricostruire l'evoluzione spirituale dei popoli, mediante l'esame dei suoi diversi stadî, da quelli primitivi a quelli intermedî e alti, e principalmente due, che sono le obiezioni fondamentali, in quanto la prima si riferisce al compito della nuova scienza non bene precisato, perché nella "psicologia dei popoli" sono compresi non solo i popoli, quali entità etniche, ma anche i gruppi, le tribù, i clan, le famiglie; e la seconda poi, si riferisce al campo di studio, che coincide con quello dell'etnologia, la quale non trascura le proprietà spirituali attraverso lo studio della vita materiale e morale dei varî aggregati etnici. V. anche etnologia.
Bibl.: Per l'idea generale del movimento scientifico, F. Squillace, Le dottrine sociologiche, Palermo 1903; id., Dizionario di sociologia, ivi 1911; W. Schmidt, Die moderne Ethnologie, in Anthropos, I (1906); W. Wundt, Völkerpsychologie, Lipsia 1904; Ch. Letourneau, La psychologie ethnique, Parigi 1901.