PSICOLOGIA DELL'ETÀ EVOLUTIVA
(App. IV, III, p. 105)
Negli ultimi 15 anni vi sono stati importanti cambiamenti di prospettiva in questa disciplina, per quanto riguarda gli obiettivi e le strategie della ricerca, le teorie di riferimento e perfino la definizione del campo d'indagine: secondo un punto di vista condiviso da molti, non si dovrebbe più parlare di psicologia dell'età evolutiva ma di psicologia dello sviluppo, una denominazione che consente di abbracciare tutti i cambiamenti psicologici che avvengono nell'arco di vita, e non solo quelli di un periodo relativamente circoscritto (l'età ''evolutiva'', appunto, intesa come gli anni di crescita, dalla nascita all'adolescenza). A questo allargato orizzonte della disciplina, che tende a includere fenomeni psicologici dell'età adulta e della vecchiaia, fa riscontro un rinnovato e preponderante interesse per le prime fasi della vita e, ancor prima, per la vita intrauterina, poiché si cerca sempre più di evidenziare la continuità dello sviluppo prima e dopo la nascita.
Per quanto riguarda gli obiettivi generali della ricerca, le indagini descrittive di stadi, volte a evidenziare differenze psicologiche tra bambini di diversa età, sono state affiancate in misura sempre maggiore da studi centrati sui processi di sviluppo, ossia sui modi con cui avviene il cambiamento da un'età all'altra e sui fattori che lo determinano. L'individuazione di comportamenti ordinabili in livelli di crescente complessità o adeguatezza continua a costituire un obiettivo essenziale della disciplina, ma si è ridotta la pretesa, tipica di teorie evolutive tradizionali come quella di J. Piaget o di S. Freud, di ricondurre a strutture stadiali di carattere universale le specificità di ciascun periodo di sviluppo.
La volontà di render conto dei meccanismi di transizione tra i vari livelli di sviluppo ha comportato una modificazione nelle strategie di ricerca prevalenti. È fortemente avvertita l'insufficienza delle classiche indagini di tipo ''trasversale'', in cui si confrontano solo le caratteristiche di gruppi di bambini di età diversa trattando l'età come variabile indipendente, in un'ottica quasi-sperimentale: l'età infatti non risulta di per sé esplicativa delle eventuali differenze riscontrate. Pur non trascurando il confronto tra soggetti di età diversa, si tende oggi a realizzare con maggior frequenza dei veri e propri esperimenti (o in ambienti artificiali, sul tipo dei laboratori, che permettono un maggior controllo sulle variabili, o sul campo, cioè in contesti di vita quotidiana), grazie ai quali è possibile individuare con maggior precisione i fattori causali dello sviluppo psicologico. Quando l'adozione di una strategia sperimentale non è possibile, si fa ricorso a studi correlazionali (anche con modelli statistici piuttosto complessi), mediante i quali è possibile individuare le concomitanze tra comportamenti in diversi ambiti, tra comportamenti e vari tipi di circostanze, e così via. Molti studiosi sottolineano l'indispensabile contributo di ricerche ''longitudinali'', cioè indagini in cui gli stessi soggetti vengono esaminati a più riprese nel corso del tempo. Solo le indagini longitudinali consentono infatti di determinare con sicurezza l'ordine e il ritmo di successione delle varie fasi di sviluppo eventualmente individuate in precedenza tramite i confronti trasversali. La realizzazione di studi longitudinali resta però un auspicio non pienamente realizzato, per la maggior dispendiosità e difficoltà di realizzazione di questo tipo di ricerche.
Anche dal punto di vista delle teorie di riferimento, la situazione si presenta in rapido mutamento. Del tutto superate l'ingenua a-teoreticità presente in molti dei primi studi sui bambini e la convinzione di poter costruire una conoscenza significativa dello sviluppo su una base puramente descrittiva, si è molto smussata anche la nitida contrapposizione tra grandi teorie (o correnti di pensiero), quali l'approccio piagetiano, psicoanalitico, comportamentista, che ha caratterizzato il panorama della disciplina per quasi mezzo secolo. Attualmente si assiste a una frammentazione delle teorie di riferimento, in modelli esplicativi di portata più circoscritta, cui fa riscontro, soprattutto in alcuni campi d'indagine, un certo eclettismo: in altre parole, si accetta l'idea che il ''bambino reale'', nella sua complessità, possa essere effettivamente descritto e compreso solo giustapponendo i risultati di molteplici studi, condotti con ottiche diverse. Gli evidenti rischi di quest'atteggiamento eclettico sono in parte mitigati dal molto maggiore consenso, tra gli studiosi, circa i requisiti che un'indagine psicologica deve possedere per essere scientificamente valida. Permane qui un contrasto tra gli approcci di derivazione psicoanalitica e quelli emersi nel campo della cosiddetta ''psicologia accademica'', ma non mancano tentativi di rilettura e di reinterpretazione di alcune intuizioni psicoanalitiche, in modo da renderle compatibili con il corpus maggiore della disciplina.
Infine, anche per quanto riguarda più specificamente i fenomeni studiati vi sono stati importanti mutamenti di prospettiva. Alcuni dei tradizionali campi d'indagine, quali lo sviluppo cognitivo e linguistico o quello morale, continuano senza dubbio ad attirare l'interesse di una folta schiera di ricercatori; ma anche altri temi che nella storia della p. dell'e.e. hanno avuto alterne fortune, quali per es. i diversi aspetti della socializzazione, o lo sviluppo emotivo, sono oggetto attualmente di approfondita riconsiderazione.
Probabilmente il risultato più appariscente delle ricerche recenti è costituito dal modo in cui ci appare oggi il neonato. Grazie anche al diffuso impiego di sofisticate tecniche di rilevazione di comportamenti non visibili − o non visibili con precisione − a occhio nudo (per es. la frequenza dei movimenti di suzione; i movimenti oculari) e di registrazione di indici fisiologici (come il battito cardiaco, il ritmo respiratorio) gli studiosi sono riusciti a mettere in evidenza numerose caratteristiche adattive delle quali il neonato dispone fin dall'inizio. Un esempio tipico è il pianto, che può essere differenziato mediante analisi spettrografica in vari tipi (pianto per fame, per collera, per dolore, ecc.) e che, pur non costituendo una forma intenzionale di comunicazione, funziona come un segnale e come tale è ben presto riconosciuto nel suo significato dagli adulti che si prendono cura del bambino.
Particolare interesse ha suscitato negli studiosi la ritmicità dei comportamenti dei lattanti, come per es. le alternanze di pause e di movimenti di suzione nel corso dell'allattamento: queste forme di ritmicità consentono infatti alla madre di strutturare le interazioni con il piccolo in una successione di turni (per es. guardando il bambino, o parlandogli, di preferenza quando non è impegnato a succhiare); a sua volta questo modo di rispettare un turno nell'azione costituisce un precursore delle sequenze comunicative e degli scambi sociali intenzionali che si verificheranno successivamente. Anche i riflessi neonatali, un tempo considerati come risposte motorie primitive, sono visti oggi come una manifestazione della complessa organizzazione senso-motoria del piccolo. Sul piano percettivo, poi, vi sono svariate abilità di cui il neonato dispone in modo innato, o che compaiono precocissimamente. Per es., è stato dimostrato che il gusto e l'olfatto sono ben sviluppati già alla nascita, così che il piccolo mostra disgusto per certi sapori e gradimento per altri, e può distinguere, per es., l'odore del latte materno da quello del latte di un'altra donna. Fin dai primi giorni di vita, è in grado di discriminare un'ampia varietà di suoni, risultando in particolare assai responsivo agli stimoli uditivi che rientrano nel rango di frequenze della voce umana.
Nel corso del primo anno di vita anche l'apparato visivo, inizialmente meno perfezionato degli altri sensi, si sviluppa rapidamente; così il lattante può distinguere un sempre maggior numero di colori, esplorare visivamente gli oggetti circostanti seguendo con lo sguardo anche movimenti rapidi, percepire la profondità grazie alla coordinazione binoculare e all'uso di indici cinetici e riconoscere la costanza di dimensione di un oggetto, indipendentemente dalla distanza cui si trova. Il ben noto interesse dei piccoli per i volti umani, un fenomeno di palese valore adattivo, è stato spiegato come il risultato di una disposizione a preferire stimoli complessi e della crescente capacità d'integrare gli elementi costitutivi di una configurazione in un unico insieme. Molti studiosi si sono impegnati nel tentativo di dimostrare che, contrariamente a quanto sostenuto da Piaget, l'intelligenza dell'infante non si limita al piano percettivo-motorio, e che abilità cognitive considerate indicative di un pensiero simbolico compaiono a pochi mesi o addirittura a poche settimane di vita. Così alcuni ricercatori hanno potuto elicitare in bambini di due o tre settimane varie forme d'imitazione, alcune delle quali, come la protrusione della lingua o l'apertura della bocca, sono particolarmente difficili sul piano cognitivo perché non consentono di controllare visivamente la corrispondenza tra la propria azione e quella del modello. Con ingegnosi esperimenti, altri studiosi hanno messo in evidenza, in bambini di soli tre mesi e mezzo, reazioni di sorpresa alla scomparsa di un oggetto che veniva loro nascosto: questo comportamento è interessante dal punto di vista teorico perché si spiega solo ipotizzando che i bambini hanno già un'aspettativa sulla ''permanenza dell'oggetto'', ossia sul fatto che le cose nel mondo circostante continuano a esistere anche quando non le si percepisce. Sul significato di questi studi, e sul motivo della discrepanza tra i risultati emersi e quelli in precedenza ottenuti nel quadro della teoria di Piaget, il dibattito è ancora aperto; va comunque preso atto dell'esistenza di competenze cognitive precoci, fino a poco tempo fa insospettate.
Infine una serie di studi sulle origini del temperamento ha evidenziato la presenza di spiccate differenze individuali nel modo di comportarsi dei lattanti: alcuni sono soggetti ''facili'' (regolari nelle funzioni vitali, prevalentemente di buon umore, adattabili), altri ''difficili'' (energici ma irregolari, poco disposti a nuove esperienze, inclini al malumore), altri ancora ''ritrosi'' (poco attivi, di umore non eccellente, inizialmente poco interessati alle novità, ma disposti a ''scaldarsi'' pian piano). Nell'insieme, il bambino nei primi anni di vita si presenta assai più attivamente protagonista del proprio sviluppo di quanto appariva dagli studi di non molti anni or sono.
Profonda è stata anche la rivalutazione delle abilità cognitive nell'età prescolare (dai 2÷3 anni ai 6). Al bambino di tale età viene riconosciuta la capacità di formarsi, sul mondo che lo circonda, idee organizzate e coerenti, anche se diverse da quelle degli adulti (''teorie ingenue''); la capacità di divenire esperto su argomenti che lo interessano in modo particolare, superando anche le competenze degli adulti (si pensi alle enciclopediche nozioni possedute da alcuni bambini sui dinosauri); di comunicare efficacemente con gli altri, modulando il modo di esprimersi in relazione al tipo d'interlocutore (per es., utilizzando frasi più brevi e più semplici nel rivolgersi a un bambino più piccolo). Una chiara dimostrazione di queste competenze cognitive precoci proviene dagli studi sulla ''teoria della mente'', ossia sulla capacità dei bambini di comprendere l'esistenza di stati mentali propri e altrui e di porli in relazione con la realtà.
È ormai riconosciuto che le prime basi per la costruzione di una teoria della mente vengono poste già nel secondo anno di vita, con la differenziazione tra mondo reale e immaginario, evidente nelle attività simboliche e nei giochi di finzione che il bambino comincia a praticare appunto a tale età. Successivamente, intorno ai 4 anni, la distinzione tra mente e realtà si articola ulteriormente, consentendo al bambino di comprendere che anche le altre persone hanno delle rappresentazioni mentali, e di giudicare appropriatamente la corrispondenza tra tali rappresentazioni e la realtà oggettiva. Queste abilità cognitive sono bene evidenziate dalla capacità dei bambini d'individuare e/o provocare credenze false. Se si mostra a un bambino di 3 anni una confezione a lui ben nota di caramelle, e gli si fa poi constatare che contrariamente a quanto egli pensava quella confezione contiene invece delle matite, il bambino prevederà che chiunque, alla semplice vista della scatola chiusa, possa dire che dentro vi sono matite: egli quindi attribuirà la propria conoscenza anche agli altri, secondo una prospettiva egocentrica. Per converso un bambino di 4 o 5 anni si rende conto che un altro osservatore, se non apre la scatola, cadrà inevitabilmente nel suo stesso errore iniziale. La comprensione della ''falsa credenza'' è solo una delle molte evidenze di decentramento cognitivo in bambini relativamente piccoli, accumulate dagli studiosi negli ultimi vent'anni con l'intento di smentire il punto di vista piagetiano, secondo cui l'egocentrismo dominerebbe in modo generalizzato la mentalità infantile fino ai 6÷7 anni.
Un terzo ambito in cui si può apprezzare l'entità dei nuovi risultati di ricerca è quello dello sviluppo affettivo e sociale. Innanzitutto, sulla base della nuova ottica con cui si guarda all'infante, la costruzione dei primi legami affettivi è vista come il risultato di un processo in cui sia l'adulto che il bambino sono partners attivi. È stata ormai ricusata la visione tradizionale secondo la quale il legame adulto-bambino sarebbe semplicemente espressione della dipendenza di quest'ultimo dalle risorse, in primo luogo materiali e poi anche simboliche ed emotive, che solo l'adulto è in grado di fornirgli. Al contrario, i primi legami affettivi (o relazioni di ''attaccamento'') sono considerati frutto delle risposte che gli adulti danno a una serie di comportamenti e segnali provenienti dal piccolo, innati nella nostra specie come in altri primati, e tendenti a mantenere la prossimità: il pianto, il sorriso, l'aggrapparsi e il cercare il contatto fisico. I comportamenti di attaccamento, dapprima rivolti dal bambino a qualunque adulto si prenda cura di lui, divengono (fra i 2 e i 6÷8 mesi) selettivamente indirizzati alla figura materna; successivamente il bambino inizia a reagire negativamente alla separazione dalla madre e alla presenza di estranei, un fenomeno questo da tempo noto, e interpretato come segno del costituirsi di una relazione specifica tra madre e bambino. Solo nel secondo anno di vita, una volta divenuto capace di rappresentarsi mentalmente la madre e di comprendere che una sua momentanea assenza non significa la sua sparizione definitiva, il bambino potrà tollerarne con maggiore facilità la lontananza. Mentre nella fase di formazione del legame di attaccamento la protesta per il distacco appare come un'indicazione evolutiva positiva, successivamente, ad attaccamento consolidato, il bambino sarà in grado di lasciare spontaneamente la madre per esplorare l'ambiente intorno a sé.
Come hanno messo in luce gli studi di J. Bowlby, M. Ainsworth e molti altri autori, lungi dall'essere interamente predeterminato dalle sue basi biologiche, l'attaccamento può seguire un corso diverso a seconda delle circostanze di vita dei protagonisti, sfociando solo nei casi migliori in un legame sicuro, presentando in altri casi segni di evitamento, protesta o disorganizzazione. Molte ricerche sono state compiute per evidenziare le conseguenze a lungo termine che la qualità dell'attaccamento alla madre può avere, sia sul modo d'interagire con i coetanei, sia sulle relazioni con altri adulti. L'aver concepito l'attaccamento come un fenomeno solo in parte fondato su comportamenti innati ha consentito agli studiosi di guardare in modo nuovo anche alla relazione con il padre, che può anch'egli costituire la figura primaria di attaccamento, sebbene questo avvenga relativamente di rado; spesso comunque il bambino sviluppa attaccamenti molteplici, oltre al legame preferenziale con la madre, e il padre costituisce una figura di riferimento importantissima fin dai primi giorni di vita, e non solo - come si riteneva tradizionalmente − nello sviluppo sociale successivo.
La considerazione del bambino come essere disposto fin dall'inizio alla socialità ha portato anche a rivalutare fortemente le possibilità d'intrattenere relazioni significative con i coetanei, già nella prima e soprattutto nella seconda infanzia. Sappiamo da osservazioni su infanti che per i piccoli è più difficile portare a termine con successo una serie di interazioni con un coetaneo che con un adulto, in quanto a differenza di quest'ultimo il coetaneo non è in grado di guidare e ''aggiustare'' la coordinazione con il piccolo partner. Nonostante queste limitazioni, si è visto che una fase di familiarizzazione sufficientemente lunga consente a bambini di età inferiore a un anno di realizzare semplici sequenze di gioco a due. Ovviamente le interazioni tra coetanei cambiano nel corso dello sviluppo, e si fanno via via meno instabili e superficiali, secondo le linee evolutive già emerse dalle ricerche degli anni Settanta. Tuttavia è importante notare come, se viene offerta ai piccoli l'opportunità di frequentare più di un compagno, già nel secondo anno di vita si può assistere alla nascita di relazioni positive e preferenziali con un ''amico''. In età prescolare è stato inoltre documentato l'emergere di molte abilità sociali, alcune in precedenza riconosciute solo a bambini o ragazzi molto più grandi.
Per es., studi osservativi condotti in chiave etologica sulle attività di gioco libero di bambini dai 3 ai 6 anni alla scuola materna hanno permesso d'identificare complesse strutture di gruppo. Si è visto che gli scambi aggressivi (minacciare, colpire, insultare, ecc.) sono rivolti dai membri più forti solo verso compagni non troppo dissimili da loro per capacità di opporsi e reagire: si crea in questo modo una gerarchia di dominanza che regola l'espressione dell'aggressività intragruppo. Del tutto indipendentemente da questa, in base alla direzione e frequenza dei comportamenti affiliativi (cercare la prossimità e il contatto, sorridere, guardare qualcuno o parlargli, ecc.), si possono evidenziare nel gruppo dei sottogruppi, di regola formati da individui dello stesso sesso, che si accompagnano più volentieri l'uno all'altro; e tali suddivisioni non ricalcano la struttura costituita dalla gerarchia di dominanza. I bambini sono anche in grado di compiere azioni altruistiche, come prestare aiuto o condividere risorse, spesso secondo una tattica di ''ingraziamento'' del più forte.
È evidente come l'orientarsi mirato dei comportamenti aggressivi, affiliativi e altruistici sottenda un notevole grado di competenza sociale, inclusa la capacità di prevedere le reazioni degli altri e l'effetto delle proprie azioni su di loro, anche se i soggetti di quest'età ne hanno solo una conoscenza ''tacita'', e non una consapevolezza piena. Questa distinzione tra competenze implicite ed esplicite, che è ricorrente in molti studi contemporanei dedicati allo sviluppo (non solo sociale), permette di comprendere perché in passato la capacità di mettersi nei panni degli altri, di decentrarsi dal proprio punto di vista, fosse invece attribuita solo ai fanciulli o agli adolescenti, ossia a soggetti ormai in grado di riflettere sulle proprie azioni e di spiegare verbalmente le proprie scelte.
Un altro settore di studio attualmente in forte espansione, costituito dalla manifestazione e comprensione delle emozioni, è tornato alla ribalta della psicologia, non solo quella evolutiva, dopo anni di relativo disinteresse. Le emozioni, in quanto stati soggettivi non sempre accompagnati da manifestazioni esterne e misurabili, sono un difficile oggetto di studio, nei bambini ancor più che negli adulti. La messa a punto di metodi di classificazione delle espressioni facciali attraverso le quali alcune emozioni si manifestano, unitamente al già accennato progresso tecnologico nella misurazione di indici fisiologici, sono altrettanti fattori che hanno consentito la rapida crescita delle nostre conoscenze sullo sviluppo emotivo.
Grazie a queste metodiche, si è potuto accertare che i neonati rispondono con reazioni facciali distinte e interpretabili a sapori e odori che gli adulti considerano gradevoli o sgradevoli e che sono in grado di esprimere interesse verso stimoli nuovi; alcuni autori pensano addirittura che fin dalle prime settimane di vita i lattanti possano manifestare tutte le emozioni fondamentali (e quindi anche la sorpresa, la paura, la tristezza e la rabbia). Ben documentata è anche la capacità degli infanti di riconoscere le emozioni altrui; verso la fine del primo anno i bambini guardano spesso gli adulti, utilizzando l'espressione che colgono sui loro volti per regolarsi sul modo di giudicare una situazione incerta (fenomeno del ''riferimento sociale'').
Grazie allo sviluppo cognitivo e affettivo del bambino, cambiano inoltre con l'età le circostanze che elicitano le diverse emozioni. La gioia che il bambino manifesta con il sorriso può essere provocata, a tre settimane, da stimolazioni tattili o uditive; a due mesi, dalla vista di un volto umano; successivamente, con l'apparire dell'attaccamento, dalla comparsa della madre, ma non più di una persona qualunque. Similmente la paura, inizialmente provocata da segnalatori innati di pericolo, come il buio o un forte e improvviso rumore, può essere causata, intorno agli 8 mesi, dalla presenza di un estraneo. Dal secondo anno, con la comparsa della funzione simbolica e quindi della capacità di rievocare o anticipare fatti non presenti, i bambini iniziano a provare gioia, dispiacere, ecc. anche in situazioni la cui comprensione travalica l'esperienza immediata: per es., il bambino può mostrare disappunto non riuscendo a eseguire un'attività che in precedenza padroneggiava.
Verso la fine dell'infanzia il bambino diviene capace di provare emozioni complesse come la vergogna, l'imbarazzo, il senso di colpa, l'orgoglio, in relazione a una valutazione negativa o positiva di sé, e non solo a causa di eventi esterni o per la discrepanza/congruenza tra un evento e le proprie o altrui aspettative. In altre parole, mentre un bambino di 3 anni può essere orgoglioso quando si rende conto di essere approvato dai genitori, o vergognarsi se pensa di aver violato una regola sociale, senza ''mettersi in gioco'' interiormente, a 5 o 6 anni orgoglio o vergogna comporteranno anche un aumento o una diminuzione della stima di sé. A questa età, comunque, i bambini hanno già acquisito una certa capacità di controllare le proprie emozioni, seppure con strategie relativamente semplici: evitare uno stimolo pauroso coprendosi gli occhi o tappandosi le orecchie; rassicurarsi parlando a se stessi; evitare uno smacco sottraendosi a un confronto. Dalla fanciullezza in poi i modi per evitare emozioni spiacevoli si fanno più vari ed efficaci e, in parallelo con l'accresciuta consapevolezza che certi eventi negativi non possono essere evitati, i bambini sviluppano metodi anche piuttosto raffinati di auto-regolazione per minimizzarne l'impatto emotivo.
Oltre a questi processi di regolazione interna, un'importante conquista evolutiva consiste nella capacità di mostrare o celare taluni stati emotivi di fronte agli altri. Quali siano le emozioni che è opportuno mostrare, e in quali circostanze, dipende in misura molto larga da convenzioni sociali; non sorprende quindi che l'osservazione diretta di interazioni tra madri e bambini abbia permesso di cogliere numerose occasioni in cui i piccoli sono incoraggiati a modulare l'espressione delle proprie emozioni in modo socialmente adeguato e che a 3 anni essi siano già capaci di esibire una gioia che non provano, o di nascondere i propri sentimenti. Tuttavia, la capacità di riconoscere in un altro una discrepanza tra l'espressione del volto e la probabile emozione da questi provata è più tardiva; bisogna poi attendere la fanciullezza perché il bambino possa riconoscere con chiarezza l'esistenza di sentimenti ambivalenti.
Un elemento di novità nello studio dello sviluppo, che travalica specifiche età o ambiti di fenomeni, è infine costituito dall'interesse per gli effetti del ''contesto'' sui processi psicologici. Al momento, non esiste ancora una definizione operativa univoca di questo concetto che sia condivisa da tutti. Per contesto si può infatti intendere qualcosa di oggettivabile come l'ambiente fisico in cui il soggetto vive e le caratteristiche degli stimoli che ne derivano, ma anche il più elusivo ambiente sociale, e le diverse rappresentazioni della realtà da esso veicolate; si può intendere qualcosa di molto lato e sovra-individuale, come il periodo storico in cui si situa il comportamento individuale, ma anche un più privato e transitorio contesto mentale, inteso come il quadro di riferimento che viene attivato, attingendo nella memoria a lungo termine, quando il soggetto si trova di fronte a un compito specifico. Nonostante un certo grado d'indeterminatezza su ciò che debba intendersi per contesto, la tendenza dei ricercatori a farsi carico della complessa interrelazione tra fattori ''interni'' (biologici e psicologici) e fattori ''esterni'' (contestuali, appunto) dello sviluppo è sempre più evidente. Quest'atteggiamento costituisce da un lato una reazione al rinascere di dichiarate propensioni innatistiche (per es. nelle ricerche psicometriche sull'intelligenza e la sua ereditabilità), dall'altro un approfondimento degli aspetti costruttivistici e interattivi, presenti in modo insufficiente sia nelle teorie strutturaliste classiche come quella di Piaget, sia in quelle più recenti, derivate dall'estensione delle scienze cognitive ai fenomeni dello sviluppo (per es., la teoria di R. Case o quella di J. Pascual-Leone).
In questi approcci, infatti, l'aspirazione degli studiosi dello sviluppo verso teorie ''pure'', dotate di validità universale, si traduceva in uno studio del bambino esclusivamente ed eccessivamente orientato verso i processi di base, concepiti come il motore dello sviluppo; ai fattori contestuali veniva lasciato un ruolo marginale, di tipo motivazionale o facilitante (per es., si ammetteva che l'accessibilità o meno di certe esperienze legate all'ambiente di vita potesse accelerare il passaggio da una fase all'altra dello sviluppo cognitivo). In questa chiave, molti confronti transculturali sono stati compiuti negli scorsi decenni con l'intento e l'aspettativa di trovare un ''nocciolo duro'' dello sviluppo (in campo intellettivo e morale, in special modo), non soggetto a variazioni culturali. I molti dati dissonanti emersi da queste ricerche sono stati uno dei fattori che hanno messo in crisi i modelli ''universalistici'', unitamente alla riscoperta e all'attenta riconsiderazione del pensiero di L.S. Vygotskji e della scuola culturale sovietica.
Dati che avvalorano la centralità del ''contesto'' nello sviluppo umano si trovano in molti ambiti. Nella soluzione di problemi, è ormai largamente riconosciuto che le modalità di presentazione di un compito (un modo per costituire uno specifico ''contesto mentale'') possono risultare cruciali per il successo dei soggetti: per es., bambini di 10 anni riescono a ricostruire l'algoritmo in base al quale sul monitor di un computer appaiono e si spostano determinate figure quando queste sono costituite da animaletti (nel contesto di un video-gioco); non sono invece capaci di fare altrettanto quando si tratta di figure geometriche e la prova viene presentata come un test di laboratorio.
Anche l'accesso a nozioni di tipo logico-matematico che Piaget considerava caratterizzare le strutture stesse del pensiero risulta fortemente vincolato alla situazione (un contesto mentale e fisico insieme): così, nel confronto tra soggetti scolarizzati e non, si è visto che alunni di seconda elementare sono avvantaggiati dalla formulazione carta-e-penna di un esercizio matematico, come per es. trovare il termine mancante nell'operazione 5+...=8, mentre non riescono a risolvere quest'operazione per formare dei mazzi di fiori; per converso, bambini di strada abituati a vivere vendendo piccoli oggetti lungo i marciapiedi, sono apparsi in grado di calcolare il prezzo globale di due frutti di costo diverso, ma non di fare la somma delle cifre corrispondenti astraendo dalla familiare situazione della compravendita.
Ancora, studiando le abilità di ragionamento, si è visto che soggetti di età prescolare sono capaci di utilizzare dei dati contro-fattuali (per es. dire che se tutti i gatti abbaiano e Max è un gatto, Max abbaia), ma solo quando l'adulto pone la domanda in tono non serio, e crea invece un contesto di tipo ludico: abbiamo qui un esempio di regolazione sociale del contesto. Analogamente, nelle ricerche sulla ''teoria della mente'' si è visto che la capacità d'ingannare dipende in modo assai forte dalle circostanze in cui il bambino si trova a farlo (per es., quando il non riferire la verità protegge qualcuno che è caro al bambino, piuttosto che in una situazione emotivamente neutra).
Come esempio degli effetti del contesto storico, possiamo infine considerare quanto emerge dal recente riesame dei dati di un celebre studio longitudinale sul ''genio'', condotto da L. Terman negli Stati Uniti a partire dagli inizi del Novecento: il successo professionale di soggetti, all'inizio parimente dotati sul piano intellettuale, risulta di fatto determinato dall'anno di nascita, piuttosto che dalle loro capacità, a causa del sovrastante peso di fattori economici e sociali. Anche se la creazione di un modello integrato dello sviluppo, che comprenda fattori organismici e contestuali, si presenta con tutta evidenza come un compito di tremenda difficoltà, è probabilmente questa la direzione della ricerca in p. dell'e.e. nei prossimi decenni.
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