PSICOLOGIA COGNITIVA
Con l'espressione psicologia cognitiva o cognitivista (derivata dall'ingl. cognitive psychology) s'intende una serie di ricerche e di teorizzazioni relative allo studio dei processi mentali basate sul principio che la mente sia un sistema di ''elaborazione dell'informazione'' capace di costruire ed eseguire programmi d'azione finalizzati. Il termine Cognitive psychology compare per la prima volta nel 1967 come titolo di un volume pubblicato dal ricercatore statunitense U. Neisser. Questi ebbe il merito, e anche il coraggio, di raccogliere e dare una sistemazione unitaria a un complesso di ricerche e contributi teorici che avevano una storia più che decennale. Le ricerche sui processi cognitivi, infatti, iniziate molto prima, erano la risultante di due principali componenti, costituite la prima dallo sforzo di percorrere direzioni nuove nello studio del comportamento, la seconda da una ''crisi interna'' a quelle correnti che si erano imposte come interpreti del metodo sperimentale in psicologia.
Indicazioni per una nuova prospettiva nello studio della condotta umana emersero negli anni Quaranta in alcuni circoli scientifici nei quali era vivo l'interesse sulle possibilità di applicazione ai fenomeni psicologici della teoria dell'informazione e dei concetti propri della cibernetica. È tuttavia nella seconda metà degli anni Cinquanta che alcuni psicologi cominciano a far proprio questo programma. Negli Stati Uniti furono le ricerche di J.K. Bruner e di G.A. Miller ad aprire la strada agli studi cognitivi; ai due ricercatori si deve la costituzione, nel 1960, della prima unità di ricerca nei processi cognitivi, il Center for cognitive studies ad Harvard. In Inghilterra, sempre nello stesso periodo, sarà l'Applied psychology unit del Medical Research Council a Cambridge, sotto la guida di D. Broadbent, a promuovere una serie di indagini che daranno l'impronta a tutta la ricerca sulla memoria e l'attenzione.
Ad accentuare l'interesse per questa nuova prospettiva contribuì sicuramente la sfiducia di alcuni sulle possibilità esplicative del ''comportamentismo'', una corrente sviluppatasi principalmente nello studio dell'apprendimento animale e che aveva fissato alcuni principi fondamentali da seguire nello studio sperimentale del comportamento. Il più importante di questi principi stabiliva che l'oggetto di studio della psicologia dovesse essere qualcosa di osservabile da più soggetti e misurabile. I fenomeni cosiddetti ''mentali'' non possedevano questo requisito perché di essi è testimone il solo soggetto nel quale essi hanno sede. Della veridicità e completezza dei resoconti di quest'unica persona non ci sono garanzie ma, anche ammesso che ognuno di noi sia un osservatore attendibile di ciò che accade nella sua mente, quello che potrà descriverci sarà qualcosa che egli, proprio per essersi impegnato in questa ''introspezione'', avrà influenzato e stravolto. Ognuno di noi può rendersi facilmente conto di questo se s'impegna a tener conto di tutto ciò che gli passa per la mente quando, per es., prova un'emozione o sta elaborando un ragionamento. Mentre compie questo sforzo introspettivo può distrarsi da un ragionamento, le sue emozioni possono passare in secondo piano, svanire o mutare.
Il principio dell'intersoggettività dell'osservazione, una volta applicato in modo rigoroso, porta a escludere dall'osservazione quanto non sia verificabile da più persone. Ma altri principi devono essere rispettati. Occorre che un fenomeno sia riproducibile, cioè che si metta in condizione qualsiasi ricercatore, che voglia accertarsi della natura e delle cause di un fenomeno, di verificare la correttezza delle nostre osservazioni. È necessario, in terzo luogo, che siano isolabili con chiarezza tutti i rapporti causali o, più specificamente, quegli eventi che producono i nostri comportamenti, e questo è possibile grazie all'introduzione di procedure che permettono di osservare l'effetto di singoli stimoli, o di loro particolari combinazioni, escludendo l'influenza di altri stimoli. Tra gli stimoli interferenti va compreso lo stesso osservatore, il quale è capace di alterare la condotta del soggetto osservato con la sua sola presenza falsando quelle che sono le sue risposte abituali a determinati stimoli.
Il rispetto rigoroso di tutti questi principi portò un sostanziale progresso nella psicologia. Grazie soprattutto al contributo di B.F. Skinner le tecniche sperimentali di ricerca divennero altamente perfezionate e tali da assicurare quelle garanzie di controllo nell'esperimento che vengono richieste in ogni procedimento di ricerca scientifica. Riprodurre, tuttavia, il comportamento in vitro significava limitarsi a provocare fenomeni a cui poteva seguire una risposta ben identificabile, e questo richiedeva l'osservazione di comportamenti molto semplici. Essi dovevano essere registrabili oggettivamente e riproducibili, il che assicurò la raccolta di una messe preziosa di dati sull'apprendimento animale e umano. Si trattava, tuttavia, di dati che si riferivano appunto a comportamenti molto semplici, difficilmente generalizzabili a situazioni più complesse di quelle prodotte in laboratorio. Ma è propria del comportamentismo la fiducia che la condotta può essere spiegata sulla base di azioni più elementari; poter individuare per ognuna di queste lo stimolo scatenante significava ricostruire tutta la complessa successione di stimoli che producevano la condotta. Noi possiamo spiegare un comportamento complesso, quale per es. l'apprendimento del percorso all'interno di un labirinto, come somma o concatenazione di azioni semplici. Potremmo dire che un certo particolare (S1) induce a voltare a sinistra (R1), e che successivamente un altro particolare (S2) ci fa voltare a destra (R2), oppure che è la stessa R1 a diventare uno stimolo per R2. E.C. Tolman (1932), tuttavia, sosteneva che l'apprendimento del percorso si avvaleva di qualcosa di più di una semplice concatenazione di S-R: la ''mappa'' del labirinto.
I problemi che s'incontrano nello studio del linguaggio illustrano al meglio le difficoltà di applicare il principio secondo cui il complesso si comprende riducendolo a fenomeni elementari. Seguendo questo principio, gli studiosi di ''apprendimento verbale'' iniziarono un vasto programma di ricerca che prevedeva prima un'indagine sui fattori che influenzavano la ritenzione e l'oblio di materiale molto semplice, le cosiddette ''sillabe senza senso'' (XAB, DUV, ecc.), e quindi la sperimentazione con materiale via via più significativo, sillabe che potessero richiamare significati, vocaboli, e così via. Il progetto muoveva dalla convinzione che tra una lista di sillabe senza senso e una frase, esistesse solamente una differenza quantitativa; tale differenza consisteva nella quantità di associazioni che potevano legare gli elementi della lista e che risultavano essere molto maggiori con vocaboli rispetto alle sillabe senza senso. Una frase può essere ricordata meglio di una serie di sillabe perché contiene maggiori possibilità di associazione fra gli elementi che la compongono, ma il modo in cui viene assicurata la sua ritenzione non differisce da quello operante per sillabe senza senso: si tratta sempre di concatenazioni associative di elementi. Questa convinzione fu demolita dagli studi di Chomsky (1957 e 1959) e da quelli di psicolinguistica (Antinucci e Castelfranchi 1976). Questi studi mettevano chiaramente in luce come non fosse più proponibile l'idea secondo cui il soggetto che apprende il linguaggio non è che un semplice ''registratore di associazioni'' (S-R) fra i termini da apprendere, incapace d'intervenire e trasformare in qualche modo questo materiale. Da un numero sempre maggiore di ricerche, risultava che tale intervento era esteso e addirittura determinante, e questo non si poteva più conciliare con il principio secondo cui non vanno presi in considerazione fenomeni, come i processi cognitivi, in quanto non osservabili intersoggettivamente.
Negli stessi anni in cui la psicolinguistica (v. in questa Appendice) apriva queste nuove prospettive, altre idee e direttrici di ricerca si facevano luce. Citiamo solo gli studi dedicati all'applicazione della teoria dell'informazione, alla spiegazione dei fenomeni percettivi, i primi tentativi di simulazione al calcolatore dei processi di riconoscimento e dei processi preposti alla soluzione dei problemi. Ricordiamo in particolare le ricerche di Newell, Shaw e Simon (1972), da cui risultava chiaramente la possibilità di capire cosa avviene nella ''scatola nera'' (termine efficace per designare quei fenomeni inaccessibili alla nostra osservazione, che iniziano con lo stimolo e terminano con la risposta) avendo in mente cosa può fare un sistema che deve ricevere informazioni, immagazzinarle, trattarle in un certo modo, utilizzarle per autoregolarsi, e così via. Si parlerà, per questa nuova impostazione, di Human information processing, termine che designa quel complesso di operazioni o processi preposti alla registrazione, archiviazione, recupero e utilizzazione di informazioni necessarie a riconoscere, ricordare, comprendere quello che accade intorno a noi e a scegliere le risposte più adeguate per affrontarlo.
La p.c. è la minuziosa ricerca di tutti questi processi, una ricerca che si è mossa sulla base di quanto si conosceva in materia di elaborazione cognitiva e, soprattutto, traendo importanti indicazioni dal funzionamento dei primi sistemi artificiali di elaborazione dell'informazione, e cioè i calcolatori. A volte l'estensione dei modelli computazionali alla mente umana ha assunto forme fin troppo disinvolte, ma anche questo è valso a raccogliere dati preziosi e a scoprire la tipicità dei processi di elaborazione umani. Può non risultare facile farsi un'idea precisa della p.c. dalla lettura di un qualsiasi manuale sui processi cognitivi perché ci si trova di fronte a una trattazione di processi distinti: memoria, percezione, attenzione, pensiero, linguaggio. Esistono, tuttavia, alcuni principi basilari che costituiscono insieme una rottura nei confronti della psicologia precedente e una direttrice per tutta la p. cognitiva.
Tali principi furono enunciati da Miller, Galanter e Pribram (1960), che si proponevano di sostituire al ''riflesso'' una nuova unità di analisi del comportamento. Analizzare il comportamento in termini di ''riflesso'' significava individuare determinate azioni (o risposte) e gli stimoli che le avevano prodotte. È questa l'unità di analisi adottata dal comportamentismo, la cui principale direttrice di ricerca, come abbiamo detto, consiste nell'indagare in che modo un animale impara con l'esercizio e con opportune forme di ricompensa (rinforzo) a comportarsi in un certo modo in presenza di determinati stimoli. Comportamenti complessi possono essere visti come concatenazioni di stimoli e risposte, e il loro apprendimento è riproducibile in laboratorio con procedure che prevedano opportune forme di esercizio e ricompensa. Le ricerche, già citate, sull'apprendimento verbale usavano concetti come ''ritenzione'' di elementi verbali legati associativamente e non usavano concetti come ''memoria'', proprio per escludere l'intervento di processi di elaborazione che trasformassero il materiale in modo da ricordare meglio. Il cambiamento di prospettiva proposto da Miller, Galanter e Pribram fu quello di mettere in primo piano questi processi che la mente compie e la ''logica'' che essi seguono. Essi costituiscono, nel loro insieme, una strategia pianificatrice capace d'impostare e controllare delle operazioni in vista del conseguimento di un particolare obiettivo. Ogni comportamento consiste di una serie di operazioni predeterminate da un particolare programma grazie al quale esse vengono coordinate e viene verificata la bontà della loro esecuzione.
La nuova unità di analisi del comportamento è questo programma d'azione, ovvero il piano. Esso viene preparato nel momento in cui ci prefiggiamo un certo obiettivo e verifichiamo che per raggiungerlo occorre superare certi ostacoli o una certa distanza. Per es., un semplice movimento come quello di prendere una penna richiede una verifica (o test) necessaria per stabilire a che distanza l'oggetto si trova; si darà inizio quindi all'azione, ma dovrà seguire una seconda verifica che dimostri che l'obiettivo è stato raggiunto. Tale successione di test ed esecuzione di azioni è indicata dagli autori con la sigla TOTE (Test Operate Test Exit).
I piani possono essere più o meno complessi. Un piano strategico sarà un piano articolato in sottopiani, ognuno dei quali dovrà permettere di raggiungere obiettivi parziali o tattici. Questo insieme di sottopiani è organizzato in modo gerarchico: i piani più generali o strategici si trovano ai livelli superiori e coordinano quelli ai livelli inferiori. Una gerarchia di questo genere può essere rintracciata anche in piani molto semplici. ''Recarsi in ufficio'', per es., richiede l'adozione dei seguenti sottopiani: vestirsi, uscire di casa, prendere un mezzo di trasporto. ''Uscire di casa'' richiede l'adozione di altri sottopiani più semplici: raggiungere la porta, aprirla, chiuderla dietro di sé. ''Aprire la porta'' consiste in sottopiani ancora più semplici come afferrare la maniglia, abbassarla, tirarla verso di sé, e così via. Si può vedere come in questo modo la successione dei gesti più semplici sia fissata e coordinata da una gerarchia di piani che danno significato a ognuno di questi gesti.
La differenza fra questa impostazione e quella precedente è sostanziale. Nelle teorie associazioniste l'esecuzione di azioni era assicurata da una concatenazione lineare di stimoli e risposte, nelle teorie cognitiviste ogni gesto è determinato da una complessa gerarchia di piani. Con la p.c. si esalta il ruolo del soggetto come preparatore e controllore di piani, un'immagine che è ben lontana dal registratore passivo di associazioni che si ritrova nella psicologia associazionista.
I processi umani d'acquisizione delle informazioni (Human information processing). − La p.c. si caratterizza per aver posto al centro della spiegazione della condotta non solamente la capacità di pianificazione e di controllo ma anche tutto ciò che rende possibili queste funzioni, vale a dire i processi di elaborazione dell'informazione. Per Human information processing s'intende il complesso di processi con i quali vengono ricevute, archiviate, elaborate le informazioni da parte della mente umana. Le ricerche in questo campo sono state moltissime. Vediamo uno dei settori più esplorati perché ci permette di sintetizzare le principali tematiche: il pattern recognition.
Consideriamo una forma elementare di riconoscimento. Quando dobbiamo verificare se la riproduzione di una figura è perfettamente identica all'originale possiamo riprodurre la copia su un lucido, sovrapporlo all'originale e vedere se i margini coincidono perfettamente. Un procedimento del genere potrebbe simulare una forma elementare di lettura: infatti, se immaginiamo una memoria costituita da tante immagini e la percezione come un insieme di processi che registrano su lucido gli stimoli, la lettura consisterebbe nel confronto fra le immagini mnestiche e le sagome su lucido; il riconoscimento si avrebbe quando vengono trovate due sagome coincidenti. Questo modello di riconoscimento, denominato ''per sovrapposizione di sagoma'', si applica, tuttavia, solo in casi particolari, quelli nei quali c'è perfetta coincidenza fra ciò che si percepisce e le tracce mnestiche. Questo accade assai di rado nei normali processi di riconoscimento che operano con stimoli estremamente variabili; pensiamo in quanti modi può essere scritta la lettera A − A A A − e con quanta facilità riusciamo a identificarla. Cosa ci permette di vedere lo stesso significato dietro a tutti questi segni? Non può che essere ciò che rimane invariato nelle diverse forme grafiche. Questi ''invarianti'' sono le unità informative su cui lavora il nostro apparato percettivo. Esso separerebbe, all'interno di ciascun segno, questi componenti fondamentali e li confronterebbe con le informazioni che abbiamo in memoria. Questa forma di riconoscimento, denominata ''per caratteristiche'', si traduce in un confronto fra tracce mnestiche, consistenti in collezioni di caratteristiche, ed elementi invarianti dello stimolo. Il processo tramite il quale il sistema percettivo compie questa importante operazione di ''traduzione'' dello stimolo in caratteristiche elaborabili dalle successive operazioni cognitive, è denominato ''codificazione''.
La codificazione. Un esperimento molto semplice ci permette di avere un'idea di alcuni dei diversi tipi di codice che il sistema cognitivo usa. Si tratta di un esperimento condotto dallo psicologo statunitense Posner e consiste nel registrare il tempo che i soggetti impiegano a riconoscere due lettere come AA, Aa, BA come uguali o differenti. Il tempo di risposta è più breve nel caso AA che nel caso Aa. Il risultato viene spiegato col fatto che nel primo caso il confronto avviene utilizzando un ''codice fisico'', mentre nel secondo caso avviene su un ''codice fonologico'', accessibile dopo che è stato usato il ''codice fisico''. Questo codice sarebbe una riproduzione molto vicina alle sagome percepite, tale da indurre a ipotizzare che il confronto AA avvenga ''per sovrapposizione di sagoma''. Confrontare Aa richiede, invece, la traduzione dei due segni nel codice fonologico corrispondente, l'unico che permette di stabilire che tali segni sono ''uguali''.
Il processo di riconoscimento e i processi di codificazione che esso prevede ci consentono di vedere in modo più accurato le funzioni della memoria. Essa interviene come ''magazzino a lungo termine'' per fornire quelle informazioni necessarie per identificare lo stimolo, ma è inoltre indispensabile per assistere tutte le operazioni di riconoscimento. Per assolvere questa funzione la memoria interviene solo per un periodo limitato, quello necessario per archiviare risultati provvisori dell'elaborazione.
Supponiamo di rendere un po' più complicato il compito precedente chiedendo a dei soggetti di confrontare la frase ''A non è alla sinistra di B'' con la coppia di lettere ''A-B'' e di dire se è una descrizione esatta. I soggetti dovranno tenere a mente la frase mentre cercano di tradurre ''A-B'' in un codice, cioè un'altra frase, confrontabile con la prima. Questa memorizzazione temporanea si avvarrà di alcune operazioni (la ripetizione silente) che conserveranno in un magazzino temporaneo, la memoria di lavoro, le informazioni necessarie fino all'esecuzione del compito.
Processi cognitivi e memoria vengono perciò a costituire quello che si chiama ''sistema di elaborazione dell'informazione''. Le teorie cognitiviste si presentano solitamente come diagrammi nei quali è rappresentato il flusso dell'informazione da una memoria all'altra e le operazioni cognitive che codificano e confrontano le varie informazioni. In questi modelli le differenti funzioni cognitive appaiono legate da totale interdipendenza. La percezione, per es., non risulta essere un processo che si esaurisce dal momento in cui s'innesca un'altra catena di elaborazioni (memoria, pensiero, ecc.). Esiste una fase particolare, detta ''preattentiva'', nella quale vengono isolate particolari unità percettive. Essa possiede queste caratteristiche, ma nelle fasi successive la percezione e le altre elaborazioni cognitive operano in stretta interdipendenza: tra memoria e percezione non c'è un confine temporale perché il riconoscimento, la lettura di un significato possono richiedere più confronti fra tracce e stimoli.
La lettura di caratteri ambigui può illustrarci bene quello che accade. Supponiamo di stare leggendo una lettera scritta con calligrafia poco chiara e di essere incerti se leggere una certa parola come canto o come cauto. In questo caso ci può aiutare il contesto, per cui se le due parole precedenti sono dovresti essere, allora è possibile decidersi per l'interpretazione cauto. Ma se questo non ci aiutasse sarebbe necessario considerare un contesto più ampio. L'uso del contesto ci dimostra che il riconoscimento procede per tentativi fino a quando il significato di una singola unità non si accorda con un significato più ampio. Più precisamente, possiamo dire che il riconoscimento della singola unità è guidato da un complesso di informazioni, il contesto appunto, che vengono richiamate dalla memoria per darci un quadro il più possibile esatto degli eventi che stanno accadendo o che potranno accadere.
A ogni istante il nostro comportamento è guidato da un certo contesto, più o meno esteso e ricco, che dirige la nostra attenzione e coordina i processi di pianificazione. Si tratta di due funzioni fondamentali. Esso ci permette di preparare delle risposte alle diverse eventualità e di focalizzare la nostra attenzione. Vediamo brevemente come può essere guidata l'attenzione. Se percorriamo una strada non facciamo fatica a trovare con lo sguardo un semaforo anche se in quel momento la nostra vista è colpita da un numero rilevante di particolari. Tale ricerca è possibile perché è ''a guida concettuale'': ciò significa che sappiamo dove guardare, sappiamo cioè che in prossimità di un incrocio deve trovarsi un semaforo, che questo può essere in alto oppure alla destra della carreggiata e a una certa altezza, ecc. Tutte queste informazioni sono fornite dal particolare contesto attivato nella memoria di lavoro. A volte tale processo è così potente da trarci in inganno; ci capita, per es., di metterci a cercare un oggetto e di non riuscire a trovarlo, senza accorgerci che è davanti ai nostri occhi ma in una posizione insolita. Ciò succede perché le nostre conoscenze escludono che un oggetto sia collocato in un dato posto e perciò impediscono che l'attenzione metta a fuoco questa zona del campo visivo. L'attenzione è orientabile non solo concettualmente ma anche dagli stimoli esterni, come nei casi in cui veniamo distratti da un rumore o da un'immagine.
Nel corso di questi ultimi anni i modelli di elaborazione dell'informazione hanno subito una notevole evoluzione; si può dire, tuttavia, che si è venuta imponendo l'idea che in questa elaborazione abbia un ruolo centrale uno speciale apparato, denominato ''processore centrale'', che coordina i vari processi mnestici, ragionativi, attentivi, e le cui funzioni coincidono parzialmente con la ''memoria di lavoro''. Sarebbe il contenuto di questa memoria a formare quello che comunemente viene designato come ''coscienza''.
Nuovi campi della psicologia cognitiva. - In questi ultimi anni la p.c. ha esteso sempre di più la sua influenza su una gamma sempre più vasta di settori che va dalle neuroscienze alla psicologia sociale e a molti settori applicativi. I progressi più significativi sono stati conseguiti nei seguenti settori di ricerca.
Psicologia della percezione: questo settore esplora i meccanismi di riconoscimento e i meccanismi di attenzione. Le ricerche hanno chiarito solo in parte i processi tramite i quali vengono estratte le caratteristiche e i meccanismi di pattern recognition. È ancora acceso il dibattito fra coloro che sostengono che siano individuabili operazioni di elaborazione dell'informazione sottostanti a ogni fase dell'attività percettiva e coloro che, invece, sono dell'idea che la percezione non richieda la mediazione di questi processi ma sia ''diretta''.
Psicologia della memoria: è uno dei settori più studiati per quanto riguarda sia l'elaborazione nella memoria a lungo termine che l'elaborazione a breve termine. Le ricerche hanno esplorato i meccanismi di archiviazione, organizzazione e recupero delle informazioni, lo scambio di informazioni fra le varie memorie e vari tipi di organizzazione in rapporto a vari tipi d'informazione: linguistica, per immagini, di testi, di voci lessicali. Tali ricerche hanno dato risposte molto importanti su come si comprende il linguaggio, su come decadono le informazioni in memoria, sui processi che ci permettono di ricavare significati più o meno complessi, sul modo in cui vengono distorte le esperienze percepite, sui processi di evoluzione e maturazione della memoria.
Psicologia del pensiero e del ragionamento: anche questo settore d'indagine ha avuto un rilevante impulso con l'affermazione della p. cognitiva. Lo studio dei processi responsabili della soluzione dei problemi è stato impostato su basi nuove da Newell, Simon e Shaw, i quali hanno cercato di simulare al calcolatore le operazioni che permettono di arrivare alla soluzione di alcuni problemi. Risultati di notevole interesse sono stati ottenuti da studiosi del ragionamento specialmente per quanto riguarda le strategie che vengono seguite nella verifica di ipotesi. Un settore di ricerca che può essere fatto rientrare nella psicologia del pensiero si occupa della formazione dei concetti, vale a dire di quei processi che definiscono la connotazione di un concetto e permettono di riconoscere i vari esemplari.
Neuropsicologia cognitiva: di recente hanno avuto un notevole impulso le ricerche su soggetti cerebrolesi e sui deficit cognitivi che essi manifestano. Gli studiosi hanno potuto acquisire importanti informazioni sulla natura di disturbi come l'amnesia, l'afasia, l'agnosia visiva.
Decision making: oggetto di queste ricerche sono quei processi mentali che ci permettono di operare delle scelte o di decidere se dare corso a un'azione. Sono state studiate in particolare le decisioni in condizioni d'incertezza per stabilire in che modo viene calcolato il valore dell'obiettivo e la probabilità di raggiungerlo. Le ricerche hanno permesso d'individuare errori tipici in queste due forme di calcolo.
Bibl.: Tra i testi che hanno richiamato l'attenzione degli studiosi sulla psicologia cognitiva, cfr.: G.A. Miller, E. Galanter, K.H. Pribram, Plans and the structure of behavior, New York 1960 (trad. it., Piani e struttura del comportamento, Milano 1973); U. Neisser, Cognitive psychology, ivi 1967 (trad. it., Psicologia cognitivista, Milano 1975); D.A. Norman, Memory and attention: An introduction to human information processing, ivi 1976 (trad. it., Memoria ed attenzione, Milano 1974); P.H. Lindsay, D.A. Norman, Human information processing, ivi 1977 (trad. it., L'uomo: elaboratore di informazioni, Firenze 1987).
Opere di carattere generale: E.C. Tolman, Purposive behavior in animals and men, New York 1932; W.K. Estes, Handbook of learning and cognitive processes, 6 voll., Hillsdale (N.J.) 1975-78; R. Lachman, J.L. Lachman, E.C. Butterfield, Cognitive psychology and information processing: an introduction, ivi 1979; J.R. Anderson, Cognitive psychology and its implications, San Francisco 1980; D.R. Moates, G.M. Schumacher, An introduction to cognitive psychology, Belmont 1980 (trad. it., Psicologia dei processi cognitivi, Bologna 1983).
Si veda inoltre: A.N. Chomsky, Syntactic structures, L'Aia 1957; Id., Verbal behavior (A review of Skinner's Book), in Language, 35 (1959), pp. 26-58; A. Newell, J.C. Shaw, H.A. Simon, Human problem solving, Englewood Cliffs (N.J.) 1972; F. Antinucci, C. Castelfranchi, Psicolinguistica: percezione, memoria e apprendimento del linguaggio, Bologna 1976.
Antologie edite in Italia: Realtà e rappresentazione, a cura di P. Legrenzi, Firenze 1979; La psicologia cognitivista, a cura di N. Caramelli, Bologna 1983.
Riviste specializzate: Cognitive Psychology; Cognition; Cognitive Science; Cognitive Neuropsychology.