psicofarmaco
Uso degli psicofarmaci per i bambini nella sindrome da deficit dell’attenzione
I bambini possiedono una capacità di focalizzare l’attenzione molto inferiore rispetto agli adulti. La motivazione sembra legata alla particolare struttura del sistema nervoso centrale durante la prima infanzia, che rappresenta una caratteristica vantaggiosa per un essere vivente che deve apprendere un gran numero di informazioni dall’ambiente esterno. Se con la crescita il bambino mostra ancora una capacità limitata di attenzione, si verificano problemi nell’apprendimento, che diventano particolarmente evidenti durante l’età scolare. I bambini che presentano tale sintomatologia vengono inquadrati come affetti dalla sindrome da deficit dell’attenzione. La sindrome si può presentare anche in età adulta, e viene solitamente trattata utilizzando farmaci come l’amfetamina (nelle sue varie forme), la clonidina, il metilfenidato, l’atomoxetina, il bupropione.
L’efficacia di tali farmaci e la conoscenza del loro meccanismo d’azione molecolare ha fatto ipotizzare che le vie coinvolte nella patologia siano quelle noradrenergiche (che proiettano dal locus coeruleus alla corteccia frontale) e dopaminergiche (che proiettano dall’area tegmentale ventrale alle aree mesocorticali e prefrontali dorso-laterali). Spesso il deficit dell’attenzione è accompagnato anche da iperattività e impulsività, che sembrano controllati dalla via nigro-striatale, e il neurotrasmettitore maggiormente coinvolto è la dopamina. I farmaci utilizzati nei pazienti che hanno anche questi sintomi sono gli stessi utilizzati in quelli con solo deficit dell’attenzione, sfruttandone gli effetti paradossi: in questo caso, gli stimolanti migliorano l’attenzione e riducono iperattività e impulsività (il contrario di quello che avviene normalmente).
Secondo alcuni dati, il deficit dell’attenzione si manifesta nel 4÷8% dei bambini in età scolare e si presenta principalmente nei maschi. Questi numeri sono stati spesso criticati, in quanto le metodologie utilizzate per la diagnosi presentavano diverse lacune o elementi arbitrari, poiché non basate su dati biochimici ma su questionari e, in alcuni casi, i dati venivano forniti da ricerche condotte o sponsorizzate dalle stesse industrie farmaceutiche. Alcuni ricercatori sostengono che la terapia psicologica nel deficit dell’attenzione è troppo lenta, per cui i bambini vanno trattati con i farmaci per evitare che il persistere dei sintomi crei problemi sociali immediati o successivi. D’altra parte, l’uso di farmaci attivi sul sistema nervoso centrale dei bambini potrebbe creare gli stessi problemi. Un bambino è un individuo in accrescimento, ma dal punto di vista fisiologico tale accrescimento non avviene linearmente. Diversi studi hanno dimostrato che tra zero e sei anni di età le sinapsi cerebrali si formano a velocità rapidissima e, contemporaneamente si verifica una loro eliminazione competitiva con conseguente ristrutturazione. Questa estrema plasticità raggiunge la massima intensità durante la pubertà e l’adolescenza e si osserva fino a circa ventuno anni di età. Diversi studi sperimentali effettuati nell’animale hanno dimostrato che i farmaci attivi sul cervello possono incidere sullo sviluppo neuronale determinando alterazioni comportamentali. I farmaci che sperimentalmente provocano alterazioni comportamentali nell’animale e inducono apoptosi neuronale comprendono gli agonisti del recettore GABA e gli antagonisti del recettore NMDA (per es., antiepilettici, midazolam, ketamina). L’etanolo possiede entrambe le proprietà ed è per questo estremamente dannoso. Una caratteristica rilevante di tali sostanze, rilevata nella sperimentazione animale, è che subito dopo la somministrazione non si osservano segni patologici, che però compaiono con lo sviluppo dell’animale. Il sospetto che questo possa verificarsi anche nei bambini sembra sostenuto dai dati sull’uso degli antidepressivi negli adolescenti correlato a un incremento del tasso di suicidi.
Il farmaco più utilizzato nei disturbi dell’attenzione del bambino è il metilfenidato, in quanto il suo profilo di sicurezza è ritenuto molto favorevole. Tuttavia, va considerato che tale profilo è stato ottenuto dal rapporto tra la dose efficace in clinica e quella a cui si manifestano alcuni effetti acuti, come quelli cardiovascolari. Sono invece molto carenti o assenti, sia in modelli animali che in clinica, i dati che analizzano gli effetti a lungo termine di questo e di altri farmaci, usati nel disturbo da deficit dell’attenzione, riguardo allo sviluppo psichiatrico del bambino e alle conseguenze nell’età adulta. Inoltre, sono necessari ulteriori dati che confermino i risultati di alcuni studi secondo cui i pazienti trattati con metilfenidato non sarebbero a rischio di sviluppare dipendenza, mentre il disturbo d’attenzione non curato predisporrebbe all’abuso di sostanze in età adulta. Solo in presenza di tali dati si potrà capire se è realmente vantaggioso instaurare una terapia farmacologica in bambini affetti da disturbi dell’attenzione (ed eventualmente iperattività). Infine, non è da trascurare il rischio di trattare dei bambini non affetti dal disturbo a causa di una diagnosi sbagliata che, attualmente, è un evento molto probabile, tanto più che l’effetto di questi farmaci sullo sviluppo del cervello di bambini sani non è noto. Occorre inoltre ricordare che finora i dati clinici necessari per ottenere la registrazione dei farmaci, anche con indicazioni pediatriche, sono stati ottenuti su un campione limitato di bambini e ci si è basati principalmente su studi condotti negli adulti, con tutte le incognite del caso. Pertanto, le autorità comunitarie oggi richiedono la presentazione preventiva di un piano di investigazione pediatrica per tutti i nuovi medicinali, ma a oggi (2009) è trascorso un tempo troppo breve per valutare l’efficacia di tali misure.