Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La psicofarmacologia nasce nel 1951 con la scoperta dell’efficacia della clorpromazina nel trattamento dei sintomi psicotici. Tra questa data e il 1960 la rivoluzione psicofarmacologica rende disponibili tutti i principali farmaci per la cura dei disturbi psichiatrici, dal litio per le condizioni maniaco-depressive agli ansiolitici, agli antidepressivi. Negli anni seguenti l’espansione della psichiatria e gli interessi di mercato porteranno alla massificazione dei consumi degli psicofarmaci e all’avvento della cosiddetta psicofarmacologia cosmetica. La rivoluzione psicofarmacologica è anche in parte legata agli studi sugli effetti delle sostanze d’abuso e si intreccia strettamente all’evoluzione delle conoscenze sulla farmacologia del cervello, a loro volta fondamentali nello studio delle basi biologiche della tossicodipendenza.
La psicofarmacologia si afferma come disciplina autonoma con lo straordinario decennio di scoperte che vanno dal 1949 al 1960, dalla scoperta dell’efficacia dei sali di litio nella sindrome maniaco-depressiva da parte di John Cade all’accertamento degli effetti ansiolitici del clordiazepossido, prima benzodiazepina introdotta nell’uso clinico. Evento cruciale in questa eccezionale avventura della ricerca è stata la scoperta delle proprietà antipsicotiche della clorpromazina tra il 1951 e il 1952.
Come buona parte della storia della psicofarmacologia, anche la scoperta della clorpromazina prende le mosse da osservazioni fortuite. È Henri Laborit (1914-1995), chirurgo della marina francese a fare nel 1951 la prima osservazione sulle proprietà neurolettiche della clorpromazina, nel corso di sperimentazioni su nuovi cocktail di farmaci per l’anestesia chirurgica. La clorpromazina sembra potenziare enormemente gli effetti analgesici e allo stesso tempo abolire completamente l’ansia e ogni altra manifestazione emotiva, inducendo una singolare e totale indifferenza verso l’intervento chirurgico. Immediatamente dopo aver letto la comunicazione di Laborit sulla clorpromazina, nel 1952, Pierre Deniker prova a somministrare la clorpromazina ai pazienti psicotici dell’ospedale Sainte Anne di Parigi, clinica psichiatrica della Sorbona diretta da Jean Delay. Il risultato è stupefacente: la sostanza calma i pazienti agitati e fa cessare deliri, manie e psicosi. Questa straordinaria dimostrazione segna l’inizio della psicofarmacologia moderna, concetto introdotto dallo stesso Delay in una monografia del 1953, finalmente intesa come farmacologia delle sostanze attive sul sistema nervoso centrale e sul comportamento, non più quindi considerata soltanto come sinonimo di terapia medica in psichiatria.
In quegli stessi anni Nathan Kline indaga le proprietà tranquillanti della reserpina al Rockland State Hospital dello Stato di New York. La reserpina è uno degli alcaloidi della pianta Rauwolfia Serpentina da tempo usata in India per i suoi effetti ipotensivi e calmanti. Kline ha seguito numerosi casi di depressione in pazienti ipertesi trattati con reserpina. Questa associazione tra trattamento farmacologico e sindrome psichiatrica fa ipotizzare a Kline che lo stato depressivo costituisca un effetto collaterale della reserpina. Prova allora nel 1953 a somministrare la sostanza in dosi elevate a pazienti psichiatrici agitati. Gli effetti risultano simili a quelli della clorpromazina. Negli anni successivi la reserpina diventa non solo un potente presidio medico ma anche un importante strumento di indagine. A essa è legata infatti la prima conclusiva dimostrazione del legame tra comportamento e neurotrasmettitori. Nel 1955, al National Institute of Health a Bethesda, Bernard Brodie (1909-1989) testandola sui conigli, prova che l’effetto sedativo della reserpina è legato alla capacità della sostanza di diminuire i livelli di serotonina nel cervello.
Nel 1953, il farmacologo belga Paul Janssen inizia a lavorare alla formulazione di un antidolorifico. Qualche tempo dopo sintetizza un butirrofenone, il composto R1187. Iniettato negli animali, l’R1187 manifesta un singolare comportamento. L’effetto immediato sembra sovrapponibile a quello di un normale oppioide (era cioè un analgesico), ma si dimostra di breve durata. A questo effetto fa seguito un’azione che somiglia molto a quella della clorpromazina, di contrasto degli effetti locomotori e delle stereotipie indotte dall’amfetamina.
In quell’epoca infatti l’identificazione delle proprietà farmacologiche di una nuova sostanza psicotropa passa attraverso la comparazione con gli effetti della morfina, dell’atropina e, appunto, dell’amfetamina. Queste proprietà secondo Janssen ne fanno un agente farmacologico estremamente interessante. In quegli anni l’amfetamina è largamente usata nel doping ciclistico e, soprattutto in Belgio, sono piuttosto comuni gli episodi di ciclisti intossicati da amfetamine e in preda ad attacchi psicotici acuti. Sulla base di queste osservazioni, e anticipando le successive teorizzazioni psichiatriche avanzate in Giappone nel 1955 da Seigun Tatetsu, Janssen ipotizza che le crisi paranoiche indotte dall’amfetamina possano costituire un modello sperimentale delle sindromi psicotiche.
Guidato da questa ipotesi di ricerca, Janssen modifica la struttura dell’R1187 al fine di accentuarne le proprietà amfetamino-antagoniste. Dopo aver sintetizzato e testato quasi 500 nuove sostanze, nel 1958 Janssen arriva al composto R1625, l’aloperidolo, un nuovo agente antipsicotico che possiede impressionanti effetti antiamfetaminici, a dosi decine di volte inferiori di quelle della clorpromazina.
Nel 1958, la psicofarmacologia arriva a mettere a punto i tre principali neurolettici. Già del 1954, tuttavia, sono le prime osservazioni sui pesanti effetti collaterali della clorpromazina. È stata rilevata una particolare sindrome caratterizzata da tremori e assimilabile al parkinsonismo e successivamente descritta con precisione la cosiddetta discinesia tardiva, il particolare insieme di sintomi extrapiramidali fatto di movimenti ritmici involontari della lingua, della faccia e della mandibola. Quest’ultimo effetto indesiderato è piuttosto preoccupante, in quanto si dimostra spesso irreversibile alla sospensione della terapia, insensibile a ogni trattamento. Altro effetto da correggere è proprio quello neurolettico. In questi potenti psicofarmaci, infatti, le proprietà antipsicotiche si esplicano attraverso un drastico abbassamento delle attività psichiche, tanto che taluni critici paragonano il trattamento con neurolettici a una lobotomia o camicia di forza chimica. I neurolettici classici aggravano cioè i cosiddetti sintomi negativi della malattia schizofrenica come il ritiro sociale, la povertà ideativa, l’affettività appiattita, l’inerzia, lo stupore, la catatonia.
Così, alla fine degli anni Cinquanta uno dei principali problemi della ricerca psicofarmacologica è quello di trovare una sostanza dotata di proprietà antipsicotiche ma priva dei pesanti effetti collaterali tipici dei neurolettici classici. Il primo antipsicotico a manifestare queste particolari proprietà – e perciò anche detto atipico – è la clozapina. Sintetizzata nel 1961 dalla industria farmaceutica Sandoz, la clozapina è entrata nell’uso clinico solo verso la fine degli anni Ottanta per merito degli studi di Gilbert Honigfeld ed Herbert Meltzer. Nel 1988 un altro studio clinico prova l’efficacia di una nuova molecola sintetizzata da Paul Janssen quattro anni prima, il risperidone, un antipsicotico atipico e primo antagonista serotonino-dopaminergico (SDA), prototipo di una nuova classe di psicofarmaci, oggi la più usata nel trattamento dei disturbi psicotici.
Alla fine degli anni Cinquanta viene sviluppata un’altra importante classe di psicofarmaci: gli ansiolitici. La storia degli ansiolitici inizia nel 1950, quando Bernie Ludwig, un chimico organico della piccola industria farmaceutica statunitense Carter Products, sintetizza il meprobamato. È Frank Berger ad accertarne nel 1954 le proprietà ansiolitiche o tranquillanti, come si disse allora. Nel 1955 il meprobamato viene messo sul mercato coi nomi commerciali di Miltwon e Equanil. Al di là dell’importanza scientifica e clinica, il meprobamato ha segnato una svolta radicale nella percezione e nell’uso degli psicofarmaci da parte della classe medica e del pubblico. Il meprobamato ha avviato l’era della cosiddetta psicofarmacologia cosmetica, caratterizzata da vasta prescrizione, automedicazione e da un utilizzo diffuso – e talora abuso – di agenti psicotropi per fastidi e condizioni non francamente patologiche della sfera affettiva. Lo straordinario successo commerciale del meprobamato dà impulso alla ricerca di nuove sostanze per i disturbi dell’umore. In tal senso questa sostanza ha cambiato per sempre la storia della ricerca psicofarmacologica. Dopo il meprobamato, infatti, tutti i più importanti psicofarmaci saranno sviluppati da industrie private e non più da istituti pubblici di ricerca.
Nel 1954, la Roche, fa partire una ricerca destinata alla sintesi di una nuova molecola “psicosedativa”. L’anno successivo Leo Sternbach arriva alla sintesi del clordiazepossido, molecola che, provata sugli animali di laboratorio, dimostrava eccezionali proprietà tranquillanti. Nel 1958 la molecola viene brevettata e nel 1960 la Roche inizia la commercializzazione col nome di Librium: è la prima benzodiazepina. Lo stesso anno il Librium diventa il farmaco più venduto negli Stati Uniti. Sternbach frattanto lavora alla ricerca di una molecola caratterizzata da minori effetti collaterali; nel 1959 riesce a formulare una nuova benzodiazepina, il diazepam. Messa in vendita nel 1963 col nome commerciale di Valium, il diazepam sarà sino alla fine degli anni Settanta uno dei 10 farmaci più venduti nei Paesi sviluppati.
La storia degli antidepressivi moderni inizia con l’avvio della rivoluzione psicofarmacologica prodotto dalla scoperta dell’efficacia clinica della clorpromazina e – allo stesso modo di quest’ultima – parte con un’osservazione fortuita.
Prima degli anni Cinquanta, le amfetamine sono usate nel trattamento delle condizioni depressive. Queste sostanze stimolanti, tuttavia, alleviano soltanto taluni sintomi come la mancanza di energia, e altre difficoltà funzionali come quelle legate all’incapacità di concentrazione. Gli effetti sull’umore e l’efficacia sui sintomi affettivi sono invece scarsi. L’uso clinico dell’amfetamina riflette cioè le proprietà della sostanza: uno stimolante piuttosto che un antidepressivo. L’amfetamina inoltre presenta vari altri effetti indesiderati come il potenziale d’abuso e la capacità di rendere manifesti aspetti maniacali eventualmente presenti nei pazienti ovvero di accelerare la ciclicità dei passaggi dalla depressione alla mania nel caso di pazienti con disturbo bipolare.
Nel 1952, Delay nota le proprietà euforizzanti dell’iproniazide, una sostanza usata per il trattamento della tubercolosi. La ricerca di Delay riceve scarsa attenzione in quegli anni, essendo l’interesse monopolizzato dalle scoperte degli antipsicotici, farmaci utili per condizioni psichiatriche certamente più gravi di quelle depressive. È Nathan Kline a dimostrare nel 1957 che l’iproniazide costituisce un potente presidio farmacologico per il trattamento dei sintomi depressivi e a diffondere questa idea nella comunità psichiatrica.
Nello stesso periodo gli avanzamenti della ricerca neurofarmacologica, in particolare le scoperte di nuovi neurotrasmettitori, gettano le basi per le prime ipotesi circa i meccanismi d’azione delle sostanze psicotrope. Fondamentale è la scoperta che la reserpina e l’iproniazide agiscono sulle stesse monoamine, una classe di sostanze presenti nel cervello che proprio in quegli anni vengono riconosciute come neurotrasmettitori: la noradrenalina, la serotonina e la dopamina. Si determina così che l’iproniazide agisce come Inibitore delle MonoAminOssidasi, da cui l’acronimo IMAO con cui successivamente verrà indicata questa classe di antidepressivi. L’iproniazide è cioè capace di bloccare l’attività degli enzimi che degradano il neurotrasmettitore nello spazio della sinapsi che separa due neuroni contigui. Questa proprietà fa aumentare la concentrazione di neurotrasmettitori liberi, facilitando così la trasmissione nervosa nei tratti e nei sistemi neurochimici aminergici.
L’indagine sui meccanismi d’azione degli IMAO e i primi studi negli animali sui rapporti tra concentrazioni di neurotrasmettitori aminergici e comportamento (in cui principale strumento sperimentale sono proprio le nuove molecole neuroattive), fanno quindi emergere l’ipotesi che la depressione si leghi in qualche modo a deficit nella trasmissione aminergica.
La linea di ricerca sulle fenotiazine attraverso cui si giunge alla scoperta della clorpromazina, spinge l’industria faramaceutica Geigy a sintetizzare nel 1954 una nuova interessante molecola, il composto G22335. Formulata come antipsicotico, e inviata allo psichiatra svizzero Roland Kuhn per una valutazione clinica, la sostanza si rivela poco efficace sui sintomi della schizofrenia, causando agitazione e virando l’umore dei pazienti verso l’ipomania. Ragionando su questi effetti inattesi, Robert Schmidlin, farmacologo della Geigy, ipotizza che il composto G22335 avesse proprietà euforizzanti e propone a Kuhn di eseguire una nuova valutazione dell’efficacia della molecola su pazienti depressi e nel gennaio 1956 Kuhn inizia l’indagine su 40 soggetti. Nel 1957 Kuhn pubblica i risultati, che provano chiaramente la grande efficacia della molecola sui sintomi depressivi. Lo stesso anno la sostanza viene battezzata imipramina e commercializzata a partire dalla Svizzera col nome di Tofranil, uno dei più grandi successi commerciali della storia della farmacologia.
Agli inizi degli anni Sessanta la pratica clinica porta alla luce la serie di effetti collaterali di queste due nuove classi di psicofarmaci. Si scopre, inoltre, che tali effetti sono prodotti dalla contemporanea azione dell’imipramina e degli IMAO su più sistemi di neurotrasmettitori e mediatori chimici di funzioni fisiologiche. Queste sostanze hanno insomma un’attività farmacologica aspecifica e sono quindi da considerarsi farmaci “sporchi”, secondo il dogma psicofarmacologico che si va allora affermando e che postula la specificità delle alterazioni neurofarmacologiche alla base delle distinte patologie psichiatriche.
Così, dalla metà degli anni Sessanta inizia alla multinazionale Eli Lilly la storia che porterà alla formulazione della fluoxetina, molecola meglio conosciuta col nome commerciale di Prozac, e che sancirà la trasformazione della cosiddetta psicofarmacologia cosmetica in un fenomeno di costume. La sintesi della fluoxetina segna una cesura nella storia della psicofarmacologia, essendo il primo composto creato con una meticolosa pianificazione, attraverso lo sforzo concertato e il concorso di specialisti, conoscenze e tecniche diverse, sulla base dello stato dell’arte delle neuroscienze e della biologia molecolare. In particolare, la fluoxetina è stata la prima sostanza formulata col decisivo contributo dell’analisi delle proprietà di legame con i vari recettori nervosi. A partire dal 1970, il gruppo di indagine della Eli Lilly, composto da Bryan Molloy, Ray Fuller e David Wong si concentra sulla messa a punto di una molecola capace di agire selettivamente sulla serotonina, in accordo alle teorie psicofarmacologiche, avanzate sin dalla fine degli anni Cinquanta da Bernard Brodie e John Gaddum, con cui si afferma la centralità di questo neurotrasmettitore nella regolazione dell’umore. Le idee di Brodie e Gaddum vengono peraltro corroborate da uno studio realizzato da Alec Coppen, biochimico e psichiatra del Medical Research Council statunitense, che nel 1963 dimostra che si potevano potenziare gli effetti antidepressivi degli IMAO somministrando contemporaneamente triptofano, un precursore della serotonina.
Nel 1974 il gruppo di ricerca della Eli Lilly giunge alla sintesi del composto Lilly110140, una sostanza capace di bloccare esclusivamente la ricattura della serotonina, un farmaco ad azione estremamente selettiva, una molecola pulita, priva di effetti sugli altri mediatori nervosi. Era nata la fluoxetina. La ricerca non viene tuttavia interrotta e prosegue la sintesi di altri composti simili, che, a partire dal 1978, il gruppo propone di chiamare inibitori selettivi della ricattura della serotonina (SSRI, l’ormai famoso acronimo secondo la dicitura inglese). Nel 1980, la Eli Lilly decide di passare alla valutazione clinica. È John Feighner a eseguire la prima ricerca sull’efficacia della molecola. Conclusa nel 1983, la valutazione evidenzia che la fluoxetina aveva efficacia antidepressiva comparabile a quella dell’imipramina, effetti collaterali minimi tra cui uno particolarmente desiderato nella cultura di quegli anni, la perdita di peso. Nel dicembre del 1987 la fluoxetina viene messa in commercio col nome di Prozac.
Tre anni dopo la commercializzazione, nel 1990, vengono pubblicati una serie di lavori di rassegna che dimostrano l’efficacia della fluoxetina ben oltre le sole condizioni depressive, dai disturbi ossessivi compulsivi, agli attacchi di panico, all’ansia. Il fatto che queste diverse condizioni psichiatriche migliorino con la somministrazione del Prozac suggerisce che vi sia una comune base neurobiologica nelle alterazioni delle funzioni del sistema serotoninergico. La possibile identità delle basi biologiche e il criterio ex juvantibus indica la possibilità di raggruppare queste varie sindromi in un insieme di forme patologiche continue, il cosiddetto spettro dei disturbi affettivi. Sostenuta e promossa anche dagli enormi interessi dell’industria farmaceutica, questa nuova categoria psichiatrica ha enormemente allargato le possibilità diagnostiche contribuendo ad affermare tra gli specialisti e nell’opinione pubblica l’idea della depressione come il più diffuso disturbo del comportamento di fine secolo, tanto che le molecole che trattano i disturbi dell’umore sono diventate i farmaci più venduti al mondo.
A partire dalla metà degli anni Cinquanta, la ricerca sulle basi biologiche dei comportamenti d’abuso e della dipendenza ha raggiunto importanti acquisizioni sia nella localizzazione e nell’individuazione dei centri e delle vie nervose implicati, sia nell’accertamento dei meccanismi farmacologici in gioco.
Nel 1954 James Olds e Peter Milner scoprono il sistema di ricompensa cerebrale, dimostrando negli animali che l’autostimolazione elettrica di alcune zone profonde del cervello, come l’ipotalamo e il setto, viene preferita al cibo e al sesso e tende a diventare compulsiva. Nel 1968, gli esperimenti di Roy Pickens dimostrano che la compulsione verso l’autostimolazione dell’ipotalamo negli animali è sovrapponibile a quella per l’autosomministrazione di sostanze d’abuso, come l’alcol, la morfina, la cocaina.
Più tardi, Larry Stein va oltre l’approccio anatomo-funzionale indagando la neurochimica e la neurofarmacologia della ricompensa cerebrale. Osservando gli effetti della somministrazione di farmaci agonisti e antagonisti della noradrenalina sui ritmi di autostimolazione cerebrale, Stein dimostra il ruolo di questo neurotrasmettitore nel funzionamento del sistema di ricompensa cerebrale e nella regolazione del piacere. Nel 1969 quindi, insieme a Roy Wise, Stein misura direttamente con microcannule impiantate nel cervello degli animali il rilascio dei neurotrasmettitori durante la stimolazione elettrica del sistema di ricompensa. Rileva così per primo il ruolo di un altro neurotrasmettitore, la dopamina, nelle esperienze gratificanti. Agli inizi degli anni Settanta, con una serie di fondamentali studi, Wise e Alex Routtemberg dimostrano la centralità della dopamina nei processi di ricompensa: accertando negli animali che il sistema dopaminergico viene attivato in tutti i comportamenti gratificanti – mangiare, bere, accoppiarsi – così come nell’abuso di sostanze. Si indaga quindi il potenziale d’abuso della stimolazione del sistema dopaminergico, con l’idea che la dipendenza, venga mediata da alterazioni nelle funzioni della dopamina. Altre indagini misurano l’attivazione del sistema dopaminergico o il rilascio di dopamina durante la somministrazione acuta di sostanze d’abuso. Altri studi ancora riescono a discriminare farmacologicamente la dipendenza fisica (caratterizzata da tolleranza e sindrome d’astinenza) dall’addiction, dalla compulsione al consumo. Ad esempio, Michael Bozarth e Roy Wise riescono a dimostrare che sebbene l’iniezione diretta di morfina in certe regioni del cervello sia sufficiente a stabilire i classici segni della dipendenza fisica, i ratti così trattati non imparano ad autosomministrarsi la sostanza, mentre al contrario gli animali iniziano ad autosomministrarsi morfina in altre aree del cervello dove l’iniezione ripetuta non produce comunque dipendenza fisiologica. Questo complesso di evidenze indica che alla base della compulsione al consumo va considerato il rinforzo positivo associato all’incremento delle funzioni dopaminergiche causato dalla sostanza piuttosto che la dipendenza fisiologica e l’evitamento della sindrome d’astinenza.